Tra il sotterrare o il custodire

Su "La linea del ghiaccio" di Marco Falchetti
28 Dicembre 2025

 

 

La silloge di Marco Falchetti, La linea del ghiaccio, affonda pienamente in una vocazione che alla poesia interessa sempre di più: forse la si potrebbe definire poesia dell’antropocene o poesia geologica, e suoi esempi hanno punteggiato in vario modo il Novecento, facendosi sempre più presenti, direttamente o indirettamente, nelle uscite degli ultimi anni. Sicuramente l’evento mondiale del Fridays for future e la consapevolezza della crisi climatica in corso fa sì che la tematica della natura, intesa come bene opposto all’uomo e dall’uomo minacciato, ma anche superiore all’uomo per priorità ontologica e per prestigio etico, si rinvigorisca e permei il discorso collettivo, da quello quotidiano a quello pubblico, e di conseguenza anche il dire poetico.

 

Sarebbe tuttavia inopportuno credere che si tratti di una poetica eccezionalmente nuova, semplicemente tratta dalla contemporaneità; al contrario, ciascuno riprende e rielabora in questo scontro con la tematica presente diversi utensili linguistici e concettuali che la tradizione ci ha consegnato.

 

Questa poesia geologica infatti è molto spesso un ragionare per versi che misura la fragilità umana rispetto all’eternità del tempo profondo. Per questo filone potremmo risalire indietro fino al De rerum natura, quando Lucrezio presentava un universo infinito di cui siamo solo aggregati occasionali e transitori di materia infrangibile ed eterna (Poiché ho mostrato che gli atomi della materia, infrangibili / volano, senza distruggersi, perennemente nel tempo / studiamo se al loro numero sia posto un limite o no […] Ora, poiché l’universo / non ha di fuori alcunché, occorre ammetterlo, è privo del punto estremo, pertanto è senza limite e fine. De rerum natura I 951-964) oppure ci potremmo appuntare, qui in Italia, su La ginestra di Leopardi, scoprendo che proprio all’origine della nostra poesia contemporanea c’è la paura di restare esposti alle minacce della materia (E tu, lenta ginestra, / che di selve odorate / queste campagne dispogliate adorni, / anche tu presto alla crudel possanza / soccomberai del sotterraneo foco, / che ritornando al loco / già noto, stenderà lavaro lembo / su tue molli foreste. La ginestra, o fiore del deserto vv. 297-304).

 

L’opposizione uomo-natura, sempre operante in modo implicito o meno in quasi ogni epoca del nostro pensiero diventa, a dire il vero, un concetto antropologico fondamentale dall’età moderna, quando l’apparente casualità dei fenomeni si sottrae all’indagine religiosa e viene catturata dal pensiero misurante della rivoluzione scientifica, cosa che mentre conquista il mondo della materia sembra anche allontanarlo e perderlo. L’uomo che si definisce civile cammina impaurito sul ghiaccio di un’illusione, quella di essere separato da ciò per cui prova nostalgia, e in vario modo crea nuovi miti di ritorno a quel paradiso primigenio: è il mito romantico della natura selvaggia, ma è anche l’inquietante inconscio di Freud o il cuore di tenebra di Conrad, per citare alcuni esempi sparsi.

Oltre a questi, l’ultimo ingrediente che Falchetti mesce per comporre il pensiero articolato nelle sue poesie è quello della grande novità degli ultimi ottanta anni: non solo la tecnica ci allontana dalla natura e ci dà controllo su di essa, ma la stessa tecnica ci dà anche l’illusione di distruggerla — apparentemente non siamo più noi subordinati alla scarsità della materia, ma la materia a essere minacciata dal nostro desiderio. E qui, su questa fallacia del comune sentire, colpisce La linea del ghiaccio: non si è mai davvero realizzato nessun dominio dell’uomo sulla terra, perché non si è mai e soprattutto non si potrà mai spezzare il rapporto di dipendenza dell’essere umano dall’intorno. Ciò che l’uomo intende come “natura” e che rischia di minacciare è soltanto l’illusione culturale con cui l’uomo definisce l’intorno con cui si relaziona, ma dimentica che il tempo della terra esisteva prima della comparsa di homo sapiens ed esisterà dopo. Siamo un parassita che si mette in pericolo da solo, una di quelle specie che Telmo Pievani definisce self endangered.

 

Partendo da queste premesse concettuali La linea del ghiaccio si articola in tre sezioni (Frizioni, resistenze; Il rumore delle ossa; Testi per la paleoantropologia) che approfondiscono ripetutamente con varie oscillazioni temi fondamentali. La prima poesia, Prospettiva, ribadisce proprio l’illusione del nostro punto di vista: oltre il nostro sguardo ci sono Cose che resistono nel fondo, chissà, / tra gli anfratti inospitali del ghiaccio, / coperte da un mistero / che non vuole saperne, di cedere (p. 269). La terza (p. 271) invece sottolinea la divisione fra il mondo della montagna, quello eterno degli stambecchi e dei minerali, e il mondo della città quello dell’industria quotidiana abitato dalle divinità omologanti / del mercato e della pubblicità / (fasulli monitor di realtà). Ma successivamente, nella seconda sezione, il discorso supera la contemporaneità e lo generalizza all’essere umano (E tu, servitore o servito / a seconda dei capricci della storia, / sei sparito muto nella terra / con un colpo precisissimo di lama p. 289), mentre nella terza sezione, riprendendo alcune piccole suggestioni precedenti, viene messo in dubbio l’ordine politico secondo cui homo sapiens ha deciso di vivere: E si ricordi questo fatto: // stati e imperi esistono solo / nella nostra mente // A me l’indomani piace pensarlo / senza barriere (p. 298).

 

Questa visione corrosiva dell’antropico però non esaurisce le capacità che l’autore riconosce alla nostra specie nell’abitare il pianeta. Oltre alla miopia con cui ci riteniamo specie dominante, Falchetti propone uno stile di vita alternativo, riprendendo anche qui alcune spinti visibili nel nostro panorama culturale. Sempre nella poesia già citata, Con buona pace di tutti, la terza della silloge a p. 271, la fuga della città va di pari passo con una fuga verso la montagna, anzi un riparare a Munt, espressione dialettale che l’autore stesso nelle note precisa che significa nella Svizzera ticinese significa andare in cascina. L’opposizione tra il mondo della tecnica e il mondo minerale — ai cui protagonisti però è anche attribuita una funzione civile, di abitanti, di guardiani, oppositrice insomma dello spreco e della violenza — è visibile anche in Tuk a p. 272, dove alle esplosioni dei lancia-mine alloggiati nella caserma di Coira rispondono i luoghi silenziosi degli stambecchi e dei camosci: Qui primi abitano i camosci, / prima del detrito e dello sbuffo farraginoso / degli obici pesanti […] e da pendici altissime / ci osservano con sospetto di assonnate capre, / guardinghi guardiani delle rocce mute / e allora immutate case di animali / fedelissimi all’abisso […].

 

La possibilità di fondersi con la roccia è quella dei contadini, ma anche degli esploratori, come in Tanzi Sherpa a p. 273, o in Errore di ricerca a p. 285, e ancora in Disegnato una croce p. 289, fino ad arrivare a Che cos’è un osso… a p. 300. Qui l’essere umano viene ridotto alla sua verità di creatura di passaggio, matassa organica di cui rimane solo il minerale, il calcio nelle ossa, la polvere che forse è Farina grigiastra, / un impasto di bestemmie / e speranza?

 

Falchetti è consapevole che nell’essere umano esistono due istanze irrinunciabili: una che conduce alla violenza e una alla custodia. Possediamo quella che lui definisce fame (p. 295) che fa sì che scotenneremo le pareti delle grotte, / grideremo al mondo di esserci stati (p. 296); ma allo stesso tempo è presente in noi anche l’istanza alla preservazione, altrettanto e forse più importante dell’affermazione del sé e della distruzione del prossimo nel definire la nostra identità. Siamo di fronte a una scelta: […] Sotterra o custodisci (p. 281); e ancora […] Così tutto finisce? / Non erano altre le promesse, / le attese? // Steli vegetali, buche di coniglio, / maglie allentate per un’alternativa // nella grazia e nella ferocia (p. 293).

 

Assieme a questo sguardo generale sullo stato di questa allusa apocalisse — a p. 272 […] fuoco o ghiaccio che verrà / tra pochissimo sarà tutto finito […] è chiaro il riferimento alla poesia di Robert Frost Some say the world will end in fire, / Some say in ice — c’è un altro elemento che confusamente sembra affacciarsi nella silloge La linea del ghiaccio e va osservato analizzato nelle strategie con cui Falchetti si misura con il problema dell’io poetico.

 

Pusterla, il prefatore, pone il problema alla fine del suo testo introduttivo e cita i seguenti versi dell’ultima poesia della silloge (p. 305):

 

Qui è parlata la lingua dell’inutile:

sono questo sono il niente sono l’ombra,

conosco il segreto delle strade sbarrate.

 

Sono il volto senza nome,

il mai nato che resiste nella cenere,

sono quello sfiorato dall’artiglio

 

e ora senza controllo: parlerò.

 

Consapevole di quanto possa apparire consumato e naïf “il poeta che dice io” — pregiudizio diffuso che personalmente ritengo molto spesso ingiustificato e ozioso nel confronto con gli autori — Falchetti non si espone quasi mai direttamente nelle poesie, ma non per questo rinuncia a porre il problema della soggettività, anzi ne fa l’ultima struttura portante del suo discorso.

 

L’io emerge nel problema di una lingua poetica di cui appropriarsi (p. 274 la vita sopravvive / a scatti brucianti, / avanza solo a intuizioni / della lingua), nel tentativo di liberarsi dalle pastoie di una realtà allucinata, abusata e confusa, pertanto ormai inafferrabile e completamente virtuale.

 

La poesia Alla morsa dei denti a p. 276 oppone un discorso confuso, sintatticamente spezzato, ingolfato in versi a cascata — molto diversi rispetto alla sillabazione ben ponderata della maggior parte delle poesie — e centrato completamente su un paesaggio urbano in cui le piante lottano con la noncuranza e la trascuratezza degli abitanti di città, a una conclusione che si augura di approdare a qualcosa di diverso: mi chiedono se noi saremmo pronti / a mutare tutto questo in qualcosa / di più vivibile, un giorno, // di migliore, sostenibile (richiamo, anche qualora fosse superfluo, l’attenzione su quest’ultimo aggettivo).

 

Tale scatto a un futuro diverso, la scelta quindi etica tra il “sotterrare” o il “custodire”, non è una scelta di natura ideologica, ma è la costruzione di un linguaggio attraverso la sedimentazione degli oggetti nella coscienza del poeta. Il testo è pregno di parole-cose (parola-pietra forgiata a caldo p. 277), nel senso di un rifiuto di una parola astratta o concettuale: come nota bene Pusterla, viene sempre ricercata attraverso la figura retorica dell’antitesi, o attraverso le elencazioni nominali, l’asciuttezza sintattica, l’adesione più possibile fedele all’oggettualità delle cose, al loro semplice stare fuori dalla nostra possibilità di servircene e astrarle.

 

Oltre a essere un processo linguistico e poetico, questo è un processo psicologico con cui l’io, liberato dai miasmi e dalle virtualità della vita contemporanea, si riconnette con una qualche forma di concretezza, ritorna a essere minerale, creatura, materia, oggetto in mezzo ai tanti enti passivi che costituiscono il respiro del pianeta.

 

Per questo proprio la parola della poesia è spesso assimilata alla pietra e all’osso, perché attraverso la pratica poetica, l’io si libera del controllo imposto dalla società consumista: si dichiara inutile in opposizione all’utilitarismo, si dichiara ferito contro la plastica verginità delle merci, si dichiara cenere morta e “mai nato” contro la generatività degli esseri viventi condannati alle reti trofiche della sopravvivenza. Solo così tollera di esistere.

 

Partendo quindi dalla poesia che mette a confronto la precarietà dell’umano rispetto alla vastità delle ere geologiche, La linea del ghiaccio assume che nella nostra contemporaneità l’uomo, lungi dal sottrarsi dalla catena della violenza e della selezione evolutiva, ha scartato di lato, perdendosi nel vago e fraintendendo il suo posto in relazione al resto. La difficoltà sembrerebbe dunque essere quella di riguadagnare una visione e una capacità di agire nella propria storia, senza omettere le problematicità. Forse per questo motivo a volte la silloge appare confusa, mostrando la fatica di tenere insieme gli elementi tanto centrifughi che compongono la nostra quotidianità. Ciononostante, anche là dove le soluzioni sembrano più ripetitive e contraddittorie, la silloge di Falchetti mostra intero il desiderio di intendere il reale come dilaniante, e non solo si rifiuta di offrire troppo comode illusioni su cui riposare, ma allo stesso tempo si tiene lontano da facili disfattismi che potrebbero sorgere una volta indossati gli scarponi e cominciato a camminare lontano da casa.