Saudade lirica

Sulla poesia di Daniele Bellomi
15 Settembre 2025

(In copertina: Apostoluak, Monastero di Arantzazu, Jorge Oteiza)

 
 

Un articolo rimandato. Un articolo che hai letto troppe volte. Un articolo troppe volte pensato e mai scritto. Un articolo confuso. Un articolo che ti fa venire la nausea. Un articolo che ti si ribella tra le mani inevitabilmente. Ecco, sì, questo è sicuramente il caso di quest’articololo (punto di ogni articolo è comprendere la materia di cui si tratta e, nel caso di questi testi di Daniele Bellomi, la questione si fa molto complicata).

 

In domani, la battaglia (testo ancora inedito) non si può – come raramente accade – affermare con scontentezza o assoluta certezza quale meccanismo muova questi testi, quale tesi cioè permetta a questa serie di prose poetiche di reggersi in piedi, di assumere una certa coerenza interna. Il core della battaglia attorno a cui ruotano questi testi di Daniele è infatti un continuo terreno di lotta, poiché è la lotta stessa il terreno su cui questa battaglia si fonda; una battaglia che poi – se dovessimo completare il quadro – almeno per noi inizia su un terreno molto scivoloso e che già in altre recenti occasioni è capitato di problematizzare in qualche modo. Mi sembra che in nessun autore come in Daniele la battaglia lirica e antilirica trovi così estrema affermazione.

 

La tensione formale, il tutto che si fa contrario di tutto, questo eterno principio di cosa sia la letteralità e quale possa essere il suo valore così apparentemente rivoluzionario e contemporaneo. E, in questa eterna lotta tra dire e non dire espressamente, piuttosto si potrebbe – sembra – dire tra le righe e tra le righe non affermare niente con estrema certezza, niente che non ci dica già la scrittura stessa. In ogni pagina, i testi di Bellomi si scontrano con sé stessi, con la loro stessa coerenza, nel più arduo e disperato tentativo di conquistare porzioni di terreno all’interno di un foglio bianco, di pacificare ogni parte ancora non colonizzata da altre parti di testo. La svolta lirica in eterno contrasto con il fare poetico di ricerca, la loro stessa sovrapposizione che esattamente come latte può essere intesa in senso ambivalente, sia come sospensione che emulsione. Tutto è il contrario di tutto, dicevamo e si potrebbe anche dire così, cadendo anche nell’orrore, nell’errore. In questi testi il senso c’è ed è rappresentato dal contrasto stesso, da quella tensione emotiva che ci provoca leggere i testi di Daniele, quel male apparente che si mischia a schegge liriche quasi gioiose, giocose. L’accettazione di un certo statuto di contraddizione tra vissuto e ricerca, intellettualismo poetico e libertà del poietico, è fondamentale per comprendere il percorso di Daniele.

 

L’assunzione e il superamento della contraddizione in senso di contrasto dialettico alla Hegel – per intenderci – in Bellomi entrano autenticamente nel discorso e anzi diventano il fulcro principale della costruzione dei suoi testi. Far emergere le differenze, farle scontrare senza che vi sia necessità di affermare realmente chi siano i vinti e i vincitori. Bene e male coesistono, senza che nessuno dei due sia realmente capace di sopraffare l’altro. Vi è quindi anche in questo senso la continua affermazione del contrasto, della differenza attiva di una parte del testo rispetto a un’altra. Se dovessimo adesso dare un nome a tutto questo processo, così difficile da motivare quanto così immediatamente accessibile nel suo esprimersi e esperire, parleremmo allora di una poetica della saudade lirica.

 

Affine a tutta quella schiera di termini emotivi prettamente atmosferici, l’emozione associata all’esperire saudade, al pari – per esempio – dei più famosi oggi weird e eerie, rappresenta non casualmente un’unica e insostituibile condizione, quella che non stranamente più si addice a identificare la scrittura di Daniele. La saudade infatti, non casualmente, è associata a una certa e specifica emotività affine alla nostalgia per qualcosa che si è perso ma che, al tempo stesso, rivive autenticamente nel ricordo, sotto il profilo di un vissuto. Se la saudade però, quella che tutti conosciamo, è legata prettamente alla dimensione della vita (come appare evidente nei testi di Pessoa e dei suoi eteronomi in primis), la saudade di Daniele è dislocata su un altro piano, quello formale della scrittura, della ricerca stessa. Luogo e terreno di questa autentica battaglia.

 

Il ricordo nostalgico, affettivo di un bene speciale assente, è infatti all’interno dei testi di Bellomi quello rappresentato dallo slancio lirico, dalla verticalità dell’emozione e della sensazione; mentre – in ottica di differenza e contrasto – la possibilità di quel bene speciale (quella accompagnata cioè dal desiderio di ottenere e possedere nuovamente) viene costantemente negata e al contempo visibilmente suggerita (seppur momentaneamente e solo attraverso una serie di ‘schegge’ liriche, veri e propri coup de théâtre intratestuali). Va poi sottilineato come questo processo di innesto, inserimento, non venga mai effettivamente nascosto bensì quanto più possibile esposto, evidenziato, problematizzato al fine probabilmente di farne poetica quanto dibattito.

 

Bellomi, consapevolmente o inconsapevolmente, attraverso questo processo di scrittura – a posteriori – ci vuole portare a riflettere inevitabilmente su questa questione della scrittura, quella stessa che guarda anche all’esito quanto più sociologico del fare poetico ‘di ricerca’ oggi. Se infatti siamo – come detto – all’interno di una poetica del formalismo saudade non ci si può che rendere conto di come, a oggi, la letteralità di ricerca – vista e annunciata come liberazione da certe regole e dettami della poesia lirica – sia riuscita a sostituirsi perfettamente come strumento egemone che appiattisce ogni possibile ricordo, slancio lirico, il quale seppur rivisitato in chiave contemporanea, viene e verrà costantemente tacciato – quasi per una sorta di stigma interno al fare scrittura o alla scrittura stessa – come nemico della scrittura odierna, come qualcosa da evitare perché passato, qualcosa cioè di cui sembra ci si debba vergognare.

 

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Una piccola selezione di testi da domani, la battaglia (inedito)

 

quando sarai al riparo dispiegheremo le forze, passando all’auto-sacrificio
dall'esercito più breve, ancora feroce, dei primi passi tirati su, attratti lì
nel luogo fatto vittima e disordine dal nostro piccolo esercizio: alteriamo
la voce, l’accordo divenuto comune decadenza, ma in concordia, verso
la meta generica di casa; detto fra noi, di ciò che si appalesa al centro
della parentetica. vorremo un giorno sapere, prendendo in mano la metà
da completare, le incrociate, le pile del radiocomando, l’alterazione
del mondo senza eredi, la promessa deforme, il vicinato a infrarossi,
rialzeremo il tavolo divelto, il vaso di fiori, lo smisurato accrescersi del sole,
canteremo la ninnananna: quando ci chiederanno del conflitto diremo
che non sapevamo niente, e senza sapere il giorno e l’ora ci faremo forza,
mancheremo a noi stessi, dagli avanzi del continente prepareremo la cena.

 

*

 

ovunque non potrai proteggere, dare singolarità, passi e corse verso
il riparo, a rotta di collo, e per sequenza, fossati, risposte e condizioni,
perimetri di somiglianza. così l’utenza celeste potrà, forse, attendere
il segnale. l'accerchiamento è nel luogo percepito dal peso, è la vena
più sdrucita nello sbalzo, è patina, pellicola per non vedere. la terrena
disposizione è data al morto rivestito sul bordo della vasca: difendere
nessuna casa, la rissa dell’erba, che rincrespa, la quiete degli androni
deposti ai piedi: manovre, nell’aria, per nuove esposizioni del disperso.

 

*

 

toccherà ogni tanto guardare quanto è intorno: chi circonda lo scasso della culla,
che tossisce e fa vedetta del vistoso crollo, essendone la conseguenza. diviene
solo uno il corpo del giorno, disamato, protratto a farsi scossa, identica risposta
a derivare in quanto lo precede. serve sostituire il loculo, il centro del bersaglio,
al più presto, e ritagliare, fare cicatrice, per non guarire più, ed essere sbaraglio
dei giochi, rivelazione e cloaca, degli anni ritirata incandescente, luce disposta,
salvata allo scavo. torneranno utili, forse, i pomeriggi soli, sfalsati, le cantilene,
l’atto di sfollare, assecondare le svolte, le crepe, il dopo, il solco che li annulla.

 

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molte toccheranno a noi e a nessun altro le volte di questo annullamento,
aver pensato, intorno all’antro, al pestaggio, adatto al margine, travalicato:
incatenare, incenerire l’involontaria, beata scadenza della nostra pianura
che deplora il meteo e reperta la nostra negazione: come ai titoli di coda,
nel dissidio chilometrico, il delirio costante dell’allerta, il ponte divenuto
tale solo quando non più mai attraversato. così letale arrotonda il giorno
il ricatto che intana l’atto del perseverare, l’arbitraggio, la resa agli avanzi,
l’eccedenza del neon, la polarità diseredata dell’inverno: ridefinisce così
il calibro dei colpi di tosse, la posizione del tuono, il colpo di tallone, vuoto
nel sonno repleto a fondovalle, la cura, l’incanto esatto che cessa e dirada.