Crestomazia di fossili

Sette secoli di poesia paleontologica
6 Giugno 2023

 

Come avremo modo di vedere, andare a ricercare poesie della tradizione letteraria italiana che abbiano per oggetto la fossilizzazione (l'insieme di fenomeni naturali che permettono la conservazione di resti di organismi vissuti nel passato) non è un'operazione proprio banale: teniamo a mente anche solo il fatto che ce ne vuole di tempo (parliamo del 1700 circa) prima che la parola "fossile" acquisica il significato odierno. Come si comportava uno scrittore antico dovendo descrivere qualcosa che non aveva una spiegazione soddisfacente, e che avrebbe messo poi in crisi la comune opinione sull'antichità della Terra? E in che modo l'immagine del fossile è stata reinterpretata una volta fatta luce sulla sua natura? Qui propongo alcune delle poesie che mi sono sembrate partiocolarmente calzanti e apprezzabili, partendo dalla lettura di Cecco d'Ascoli e Fazio degli Uberti, autori di due fortunati poemi didascalici di età medievale, seguiti da alcuni versi di Lorenzo de' Medici sul'ambra e da una traduzione cinquecentesca delle Metamorfosi di Ovidio; infine, una tappa su un passaggio poco noto dell'accademico linceo Francesco Stelluti prima di aprirsi a un nuovo filone di autori influenzati dalle scoperte della paleontologia attraverso un testo del settecentesco Mascheroni, fino ad arrivare alla contemporaneità di Giacomo Zanella (con un testo paradigmatico), Pompeo Bettini e Giuseppe Bonaviri e autori oggi viventi quali Roberto Mussapi e Federico Italiano.

 

 

Cecco d'Ascoli (1269-1327)
DALLA "ACERBA"

 

Molte montagne in esseri di pietra

sono converse, se guardi le ripe,

ché dalla terra natura s'arretra.     

Potenzia natural regge e compone

e fa di terra pietra e dure stipe;

e ciò si mostra per bianca ragione.

 

Di fronde vista però vidi impressa

nel duro marmo, che, quando e' si strinse,    

nel mezzo delle parti stette oppressa.

Nel molle tempo, come cera al segno,

mostra nel duro sì come dipinse

Natura, che di forma non ha sdegno.

 

 

Fazio degli Uberti (1345-1367)
DAL "DITTAMONDO"

 

E così fui, di novella in novella,
oltra il braccio del mar ch'Arabia bagna,
a Idomea che Edom così appella.

 

Forte è il paese, che tien di montagna,
ed èvi tanto grande la calura,
che, 'l sol quand'è in Leon, ciascun si lagna.

 

Non vi sono casamenti d'alte mura:
per le spilonche e sotterra vi stanno,
cercando quanto posson la freddura.

 

« Tra loro e Palestina gran selve hanno;
però, disse Solino, il cammin nostro
di vèr sinistra fie con meno affanno.

 

Ma vienne e nota ben com'io ti mostro.»
Indi mi trasse, ove Andromade fue
incatenata dove stava il mostro.

 

Ancor nel sasso le vestige sue
li piacque ch'io vedessi, a ciò ch'io fusse
del miracolo grande esperto piue.

 

 

Lorenzo de' Medici (1448-1492)

DA "AMBRA"

 

Zeffiro s’è fuggito in Cipri, e balla
co’ fiori ozioso per l’erbetta lieta:
l’aria, non piú serena, bella e gialla,
Borea ed Aquilon rompe ed inqueta.
L’acqua corrente e querula incristalla
il ghiaccio, e stracca or si riposa cheta.
Preso il pesce nell’onda dura e chiara,
resta come in ambra aurea zanzara.

 

 

Ovidio nella traduzione di Giovanni Andrea dell'Anguillara (1561)

DALLE "METAMORFOSI"

 

Io cento miglia già lontan dal lito
Con gli occhi, c’ hanno seggio in questa fronte,
D’ostreche, e conche un numero infinito
Vivi, et altre opre assai del salso fonte.
E da persone degne anche ho sentito
Essersi ritrovata in cima al monte
Un’anchora antichissima, e fu segno,
Che ’l mar v’hebbe altra volta imperio, e regno.

-

et procul a pelago conchae iacuere marinae [vidi],
et vetus inventa est in montibus ancora summis; [...]

 

 

Francesco Stelluti (1577-1653)

DA "IL PEGASO: EPITALAMIO NELLE NOZZE DI DON FEDERICO CENI E DONNA ISABELLA SALVIATI"

 

E là talor de lo squamoso armento
con cavo legno il molle albergo preme,
di cui non sol l'algoso fondo intento
osserva allor, che l'aquilon non teme:
ma cerca ond'è che regolata l'onda
or coprir usi or discoprir la sponda.

 

Ben cento poi su quelle salse arene
di varie forme oggetti estinti ei mira;
alcun ve n'ha, che la sembianza ottiene
di duro sasso, onde natura ammira,
se già col teschio anguicrinito infusa
quivi non ha la sua virtù Medusa.

 

Ma la cagion non pria di ciò n'intende,
che un novello desio l'onda gli desta;
poiché non ben dagli altrui detti apprende
come di salsa qualità si vesta:
ond'alto sì per non usata via
sen vola il suo pensier, ch'il ver ne spia.

 

 

Lorenzo Mascheroni (1750-1800)

DA "INVITO A LESBIA CIDONIA"

 

Altre si fero, in van dimandi come,
carcere e nido in grembo al sasso: a quelle
qual Dea del mar d’incognite parole
scrisse l’eburneo dorso? e chi di righe
e d’intervalli sul forbito scudo
sparse l’arcana musica? da un lato
aspre e ferrigne giaccion molte: e grave
d’immane peso assai rosa da l’onde
la rauca di Triton buccina tace.
Questo ad un tempo è pesce ed è macigno;
questa è qual più la vuoi chiocciola o selce.
      Tempo già fu che le profonde valli,
e ’l nubifero dorso d’Apennino
copriano i salsi flutti; pria che il cervo
la foresta scorresse, e pria che l’uomo
da la gran madre antica alzasse il capo.
L’ostrica allor, su le pendici alpine,
la marmorea locò famiglia immensa:
il nautilo contorto a l’aure amiche
aprì la vela, equilibrò la conca;
d’Africo poscia al minacciar, raccolti
gl’inutil remi e chiuso al nicchio in grembo,
deluse il mar: scola al nocchier futuro.
Cresceva intanto di sue vote spoglie,
avanzi de la morte, il fianco al monte.
Quando da lungi preparato, e ascosto
a mortal sguardo, da l’eterne stelle
sopravvenne destin; lasciò d’Atlante,
e di Tauro le spalle, e in minor regno
contrasse il mar le sue procelle e l’ire:
col verde pian l’altrice terra apparve.
Conobbe Abido il Bosforo; ebbe nome
Adria ed Eusin; da l’elemento usato
deluso il pesce, e sotto l’alta arena
sepolto, in pietra rigida si strinse:
vedi, che la sua preda ancora addenta!

 

 

Giacomo Zanella (1868)

SOPRA UNA CONCHIGLIA FOSSILE NEL MIO STUDIO

     

      Sul chiuso quaderno
di vati famosi,
dal musco materno
lontana riposi,
riposi marmorea,
dell’onde già figlia,
ritorta conchiglia.

 

      Occulta nel fondo
d’un antro marino
del giovane mondo
vedesti il mattino;
vagavi co’ nautili,
co’ murici a schiera;
e l’uomo non era.

 

      Per quanta vicenda
di lente stagioni
arcana leggenda
d’immani tenzoni
impresse volubile
sul niveo tuo dorso
de’ secoli il corso!

 

      Noi siamo di ieri:
dell’Indo pur ora
sui taciti imperi
splendeva l’aurora:
pur ora del Tevere
a’ lidi tendea
la vela di Enea.

 

      È fresca la polve
che il fasto caduto
de’ Cesari involve.
Si crede canuto
appena all’Artefice
uscito di mano
il genere umano!

 

      Tu, prima che desta
all’aure feconde
Italia la testa
levasse dall’onde,
tu, suora de’ polipi,
de’ rosei coralli
pascevi le valli.

 

    Riflesso nel seno
de’ ceruli piani
ardeva il baleno
di cento vulcani:
le dighe squarciavano
di pelaghi ignoti
rubesti tremoti.

     
      Nell’imo de’ laghi
le palme sepolte;
nel sasso de’ draghi
le spire rinvolte,
e l’orme ne parlano
de’ profughi cigni
Sugli ardui macigni.

 

       Pur baldo di speme
l’uom, ultimo giunto,
le ceneri preme
d’un mondo defunto:
incalza di secoli
non anco maturi
i fulgidi augúri.

 

      Sui tumuli il piede,
ne’ cieli lo sguardo,
all’ombra procede
di santo stendardo:
per golfi reconditi,
per vergini lande
ardente si spande.

 

      T’avanza, t’avanza,
divino straniero;
conosci la stanza
che i fati ti diero:
se schiavi, se lagrime
ancora rinserra,
è giovin la terra.

 

      Eccelsa, segreta
nel buio degli anni
dio pose la meta
de’ nobili affanni.
Con brando e con fiaccola
sull’erta fatale,
ascendi, mortale!

 

      Poi quando disceso
sui mari redenti
lo Spirito atteso
ripurghi le genti,
e splenda de’ liberi
un solo vessillo
sul mondo tranquillo,

 

      Compiute le sorti,
allora de’ cieli
ne’ lucidi porti
la terra si celi:
attenda sull’áncora
il cenno divino
per novo cammino.

 

 

Pompeo Bettini (1862-1896)

L'ACCETTA DI SELCE PREISTORICA

 

L'accetta preistorica
sembra un'arme innocente,
buona a grattar la cotica
od a nettare un dente;
pur la scheggia silicea,
più valida dell'ugna,
in qualche fiera pugna
percosse ed ammazzò.

 

Del bisavo antropoide
essa illustrò le gesta:
forse dei cinocefali
ruppe la dura testa;
indi uccisore e vittime
giacquero in una fossa
ove con lenta possa
la terra li succhiò.

 

Nè spenta è per millennii
l'ira di quei vissuti;
l'arme di selce ha spigoli
lacreanti ed acuti
che attestano la torbida
legge di creazione:
ogni carne è boccone
e il vinto si macella.

 

Questa vetrina è squallida
e deserta è la sala;
un secco odore azoico
dai minerali esala:
pietre ghermite ai culmini,
o scavate dai fondi,
o cadute dai mondi
con orbite di stella.

 

Che profondo silenzio,
che mistero di sasso!

Io la mano sul cranio
dubitando mi passo,
e sento che la scatola
d'osso non è ben forte;
ho un brivido di morte
all'idea del cimento.

 

O tomba geologica,
abisso mal frugato,
dove dall'assassinio
ogni vivente è nato,
e ci trasmise l'anima
per incognita via;
guizzo di poesia
nell'eterno spavento!

 

 

Giuseppe Bonaviri (1979)

DA "IL DIRE CELESTE"

 

L'oceano Tenebroso

 

I ragazzi Ozabèl, Alìfio e Sàmir,
lasciati vento, ristoppie e grilli
dalla terra di Qamùt,
cantando chiaro approdarono
sul lucente satellite.
Nel mare humorum non c'erano
orizon chelidonio acque
ma rive sassose d'itterbio,
zirconio, erronea gravitazione.
Alìfio e Sàmir attoniti
per quell'astro senz'ombra
perduto il senno si impietrirono
nell'oceano Tenebroso.
Ozabèl li chiama per le rupi
del mare crisium e li cerca
nelle eccentriche orbite lunari:
il suo grido è lì, non si espande
nelle sue orme immortali
e sui cinerei fossili pesci;
dalla terra Bewar
per ellissi parabole e cerchi
ne detrae le sorti sull'
Effemeride.
Gli ebeti omini lo seguono
con chioccìi sui neri picchi.

 

 

Roberto Mussapi (2000)

DA "IL RACCONTO DEL CAVALLO AZZURRO"

 

«Lo scheletro diventò fossile, s'impresse nelle pietre:
memoria di te, memoria dell'essere
connesso e unificato dalle vertebre.
La nostra storia era inziata nelle acque dolci o salmastre,
dominate dagli artropodi:
giganti senza vertebre, coperti da enormi scheletri,
muniti di chele potentissime.
I primi vertebrati avevano una bocca piccola e immobile,
si alimentavano filtrando sabbia e fango.
Poi la bocca divenne mobile e lo scheletro passò nell'interno
e il corpo dievenne bello come quello di un nuotatore.
Fuori dall'acqua il clima umido favoriva le foreste
di felci e piante altissime nella cui ombra
vivevano gli invertebrati: lumache, ragni, scorpioni.
Le pinne, liberate dall'acqua, divennero arti,
e il peso del corpo gravò sulla terra.
Gli anfibi, e poi i rettili,
i dinosauri che nei tuoi sogni riaffiorano,
le ombre gravi di un passato da uccidere,
la parte di te sconosciuta e straniera,
il mostro che ha preceduto la tua origine.
[...]»

 

 

 

Federico Italiano (2010)

DA "L'INVASIONE DEI GRANCHI GIGANTI"

 

Integrato in corazza di silicio

 

Integrato in corazza di silicio,
            nel quarzo, vorrei essere,
un tenace profeta del neolitico,
             testicolo del tempo,

 

 

              vorrei che mi scoprissero
              in una fossa laterale,
in un cunicolo non deflorato
da speleologi domenicali,

 

              vorrei essere rinvenuto,
              il rinvenuto feto,
             come i miei famigliari
avrebbero preferito lasciarmi

 

adagiato, con le braccia incrociate,
i palmi chiusi a scodella su spalle
bianche, verso il costato le ginocchia,
               l'ascia deposta al fianco,

 

la mia punta infrangibile di selce
- che già i padri sapevano foggiare,
                con calcoli di fiume
                e gomito di quercia -

 

                e a oriente del mio cranio,
                inciso dalla lotta
nel folto, il pugnale e le frecce,
sentinelle del mio nuovo soggiorno,

 

migrata la mia famiglia verso altre
               grotte e donne ulteriori
               per il mio primogenito
ansioso di comando.