
Immagine di copertina: "Hirsch", Gerhard Richter
1. Ai critici, gli pseudo-dicenti, cultori del sapere e dello stato dell’arte
Tra le più giovani autrici (e autori) mai selezionate all’interno dei Quaderni, Silvia Atzori con la silloge Appunti per un sacrificio ci consegna la conferma di quello che già da qualche tempo era un sospetto: si è tornati a fare canone all’interno della produzione poetica italiana.
Se pensate che questa sia un’affermazione fin troppo azzardata, significa semplicemente che non leggete abbastanza poesia; sicuramente non quella che sta facendo, ormai da anni, scuola nella giovane poesia italiana. Chiaramente la difficoltà di riconoscere questa possibilità di canone passa anche da due scontati fattori. Il primo riguarda ovviamente l’ignoranza inconsapevole dei critici che guardano alla produzione poetica italiana solo e esclusivamente basandosi sul nome in copertina, se infatti non sei – come direbbe Corona – nel circoletto, non esisti. Il secondo fattore invece trova fondamento nell’incapacità di chi dirige e controlla ciò che fa canone in poesia oggi. Affondando il dito nella piaga, questa è un’incapacità tutta basata sulla scarsa curiosità degli addetti ai lavori verso anche solo la possibilità di acquisire (seriamente) nuovi strumenti, teoremi o paradigmi più efficaci per fare autenticamente critica del contemporaneo. Per comprenderci, mi basterà riproporre in questa sede una frase che mi è state detta durante un convegno da un amico, professore dell’università: «Superati i quarant’anni nessuno legge più niente, se non se stessi». Ovviamente sperare ora, come soluzione, nel cambio generazionale dovuto alla possibile abdicazione da parte di chi evidentemente non è più in grado (posto che lo sia mai stato) di stare al passo con il mondo, non solo appare infattibile ma del tutto ridicolo. Non c’è distanza tra le lotte di ieri e quelle di oggi: i re senza corona difendono il loro prestigio fino alla morte, e quest’ultima sembra l’unica possibilità rimasta alla Poesia per evitare di deperire in coda a tutta una serie di scritture senili che hanno poco o forse nulla da dire, anche a sé stesse. Pure qui, sia figurativamente che letteralmente, una sentenza lapidaria – rispetto al fenomeno appena descritto – potrebbe quasi sicuramente emergere attraverso una semplice indagine statistica sul tasso di mortalità tanto nei vecchi quanto nei giovani autori italiani dai primi anni duemila a oggi. Sono convinto, per sentimento o forse per illusione, che non emergerebbero troppe differenze tra questi due dati. Detto ciò, dicevamo, si è tornati a fare canone o quantomeno, volendo anche essere quanto più scettici e demo-cristianamente schierati, ci troviamo oggi più che mai davanti alla costituzione di una nuova linea poetica chiara, ben definitiva.
Il processo con cui si è arrivati a tutto questo però, a differenza di molte se non tutte le linee poetiche precedenti, trova origine non tanto in un singolo gruppo di autori affiatati, vicini tra loro sia personalmente che letterariamente (neometrici; gruppo ’92; ákusma; prosa in prosa), quanto piuttosto in un panorama estremamente variegato di singole scritture, uno che qualsiasi critico oggi in Italia non si azzarderebbe mai a canonizzare, non tanto per chissà quali grandi motivazioni ma perché non esistono più critici letterari di taglio estetico ma solo di taglio filologico e/o linguistico (il cui stato primordiale risiede nel recensorio). Il canone di cui parliamo qui è un canone che ignora polisemanticamente le formalità, un canone cioè che guarda al contenuto, al messaggio contenuto nel testo, ciò che va ben al di là di ogni sperimentalismo formale e che forse restituisce una dimensione di “senso” alla dimensione letteraria. Non a caso si sente dire da diverso tempo, nell’ambiente della bolla letteraria, di quanto i giochetti linguistici delle vecchie guardie non interessino più nessuno, nemmeno i critici letterari impelagati nel loro mondo da publish or perish.
Arriviamo al dunque. Il canone in cui si iscrive Atzori è un canone dell’atmosferografico, quel canone cioè che si fonda sull’indagine atmosferologica generale (Dal Bianco, Broggi, Basile Baldassarre, ecc.) o, come in questo caso, su di alcune specifiche atmosfere (unintentional, atmospheric site specific).
Atmosferografico? Atmosfere? Non è difficile credere che leggendo queste parole la quasi totalità degli addetti ai lavori (articolisti, critici, recensori, ecc.) non avrà minimamente idea di cosa si stia parlando. L’atmosferografia infatti è la branca per così dire letteraria di una corrente filosofica, l’Atmosferologia (Griffero; 2017), alternativamente detta anche Nuova Fenomenologia (Schmitz, 2011; Böhme, 2010). Una breve distinzione: Atmosferologia e Nuova Fenomenologia sono sì, per un’infinità di motivi la stessa cosa, ma per “sobrietà teoretica” precisiamo che esistono alcune piccole differenze e che nel nostro caso specifico si predilige tendere (senza assolutizzare) alla teoretica dell’Atmosferologia, quella corrente cioè sviluppatasi principalmente, in Italia e non solo, in seno a Tonino Griffero. Un altro piccolo appunto: fino a oggi, come mi ha potuto confermare anche lo stesso Griffero, non si è mai parlato in senso applicativo di Atmosferografia se non nei termini di una tesi di dottorato sulla letteratura russa, svoltasi tra l’altro presso la sua stessa cattedra. Il terreno tanto teoretico quanto pratico che ci si pone davanti è quindi ancora del tutto inedito e inesplorato; ma non per questo impossibile da sondare, anzi.
Per farla breve, evitando anche inutili giri, cerchiamo ora di elencare una serie di concetti fondamentali e preliminari con cui potersi affacciare all’Atmosferologia e quindi all’Atmosferografia (di cui non vi è ancora una trattazione specifica).
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Fenomeno: «è un fenomeno per qualcuno in un certo momento uno stato di cose di cui colui che si pone la questione non può seriamente negare che si tratti di un fatto» (Schmitz, 2011).
1) Qui non si ha la pretesa di stabilire qualcosa che sia certo e per sempre.
2) La fenomenologia di più vecchia data sceglierebbe come fenomeno direttamente le cose, “ciò che si mostra” (Heidegger), “le cose stesse” intenzionate (Husserl). La fenomenologia diventa un orientamento di ricerca specifico quando tende ad avvicinare la base d’astrazione all’esperienza vitale volontaria, a penetrare più profondamente in quest’esperienza, nello stato di cose (atmosfera) che la determina.
Atmosfera: «prius qualitativo-sentimentale, spazialmente effuso, del nostro incontro sensibile col mondo.Qualcosa che è «cronologicamente all’inizio e obiettivamente al sommo della gerarchia» (Griffero, 2017)
3) Un’atmosfera è, in questo senso, l’occupazione sconfinata di uno spazio privo di superfici nell’ambito di ciò di cui si vive la presenza. Il movimento si definisce come cambiamento di luogo e l’immobilità come persistenza nel luogo.
Proprio-corporeo: «proprio-corporeo è ciò che qualcuno può sentire di sé, e come appartenente a sé, nello spazio peri-corporeo che lo circonda […] sentirlo senza ricorrere né ai cinque sensi, spacialmente alla vista e al tatto, né allo schema corporeo percepito […] Il corpo-proprio, così come lo sentiamo, possiede una sua peculiare dinamica, il cui cardine è l’impulso vitale, formato da tendenze alla contrazione e all’espasione.»
(Schmitz, 2011)
4) Ogni coinvolgimento affettivo si dà primariamente e originalmente nel corpo proprio. La rielaborazione persona, che sia una resa e/o una resistenza al coinvolgimento affettivo, può dargli forma e conferirgli uno stile, un’impronta personale. Il coinvolgimento affettivo fornisce all’evente coscienza la possibilità di una consapevole scoperta di sé attraverso l’impulso vitale.
5) «privo di superfici è anche lo spazio del nostro corpo proprio, contrapposto allo spazio del nostro corpo fisico, rappresentato con posizioni e distanza dallo schema corporeo percettivo» (Schmitz, 2011)
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«bisognerebbe ammettere che l’autore di un’estetica di questo tipo condivida con il lettore o ascoltatore queste esperienze percettive, quasi fossero qualcosa di universalmente umano […ciò non è] affatto scontato. La percezione, anzi non può essere semplicemente intesa come una facoltà di base data, ma come qualcosa che si sviluppa nella storia della cultura e della vita, […] in un percorso evolutivo socio-culturale» (Böhme, 2010).
Chiaramente, bisogna dire, perché, sì, bisogna dirlo: «non si è affatto sicuri che ciò che pratichiamo ordinariamente come percezione, o che ci si impone subito negli esempi come percezione, sia un fondamento adatto per un’estetica di questo tipo». Non possiamo ridurre questo schema teoretico a un Augé qualsiasi o a un Morton qualunque, siamo davanti a una filosofia teoretica, un’estetica cioè con un suo impianto tanto teorico quanto teoretico ben consolidato, compatto, capace anche di affacciarsi a ogni aspetto della nostra vita odierna (il che spiega in parte la sua pervasiva diffusione all’interno della giovane poesia italiana). A tal proposito, mentre la critica letteraria dorme e cova gelosamente i suoi allori, l’Atmosferologia non cade dal pero (a differenza di altri): questa corrente di pensiero è da anni entrata in dialogo con diverse discipline quali per esempio l’architettura, la psicologia o la sociologia. Per comprenderci, si sta svolgendo proprio in questi anni il primo dottorato di Sociologia atmosferologica presso una cattedra di Sociologia delle emozioni (Università degli Studi di Napoli Federico II). Dico questo solo per farvi rendere conto tutti che siamo davanti a uno di quei famosi spartiacque a cui si può assistere durante un determinato cambiamento storico (rivoluzione delparadigma). Ciò è sempre successo e sempre succederà [vedi il passaggio storico da Kant a Hegel, da Hegel a Nietzsche (Deleuze, Lefebvre, Bataille) o da Heidegger a Hermann Schmitz].
In senso letterario, giusto per fare un po' di ordine, citiamo ora brevemente solo alcuni dei testi poetici che rientrano nel canone atmosferografico (inconsapevolmente) e a cui potrebbero aggiungersi almeno un’altra dozzina testi, pubblicati soprattutto in tempi recenti: Andrea Inglese, La distrazione (Sossella, 2008); Alessandro Broggi, Noi (Tic, 2021); Alessandro Broggi, Sì (Tic, 2024); Stefano Dal Bianco, Paradiso (Garzanti, 2024); Riccardo Frolloni, Amigdala (Nino Aragno, 2024); Demetrio Marra, Non sappiamo come continuare (autopubblicazione, 2024); Antonio Perozzi, on land (Prufrock Spa, 2024); Lorenzo Basile Baldassarre, Transizione continua (inedito); Silvia Atzori, Appunti per un sacrificio (XVII Quaderno di Poesia Italiana Contemporanea, Marcos y Marcos, 2025). Tutti uomini tranne Atzori? In verità ci sono molte più scritture del femminile che stanno vertendo su questa linea come per esempio quella di Rebecca Garbin (Male minore, Vallecchi Firenze, 2024), di Berenice Valerio (testi in rivista e/o inediti); di Valentina Murrocu (Un oscuro sentire, Niederngasse, 2025), ecc. Lo dicevo già prima, potremmo aggiungere qui diversi nomi. Penso che in ogni caso anche quei pochi nomi utili, quelli finora citati, ci bastino a comprendere in questa sede l’estensione di questo possibile canone. Attenzione! Come detto precedentemente, ciò non significa che tutto faccia brodo. Ci sono numerose accortezze ed espressioni che ci possono far comprendere se effettivamente ci troviamo di fronte a un testo atmosferografico. Il gioco si fa quindi più complicato di quanto sembri, qui non siamo davanti a un paper sul tema urbano di qualche doc o postdoc che si occupa di poesia contemporanea, non vogliamo cioè sistemarci una bella pubblicazione in fascia A (che fa sempre curriculum). Qui si punta a cercare di comprendere gli argini che permettono di includere o meno un testo all’interno di questo nuovo canone.
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Estratti da Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali (Griffero, 2017):
Percepire un’atmosfera significa perciò cogliere nello spazio circostante un sentimento, in definitiva la cosa più importante per l’uomo implicata da ogni successiva precisazione sia sensibile sia cognitiva. Significa essere afferrati da un di-più, e proprio «a questo di-più, che eccede la fattualità reale e che tuttavia sentiamo con e in essa, possiamo dare il nome di ‘atmosferico’» (Tellenbach 1968: 47), ravvisandovi un’eccedenza rispetto al luogo di gran parte di ciò che «‘resiste’ a un atteggiamento ‘rappresentazionale’» (Franzini 2006: 72). In breve, una ‘differenza’, una ‘risonanza’ dello spazio vissuto, che l’atmosfera riempirebbe, ma non come «un oggetto materiale che va a riempirne un altro,
aderendo alla forma che quest’ultimo gli impone» (Minkowski 1936: 86), piuttosto come una vibrazione (non necessariamente sonora) in cui si incontrano e addirittura si fondono isomorcamente e predualisticamente percetto e percipiente.
2. Agli appassionati, gli studiosi, curiosi lettori di nuove idee
Prendiamo adesso come riferimento alcuni componimenti di Atzori, dandone una lettura che possa chiarire, nella critica letteraria e non solo, almeno uno dei possibili approcci atmosferografici in relazione alla arcinota figura del fantasma:
Il silenzio e il sonno erano quasi indistinguibili,
La creatura ha solo un ricordo, quando
la madre l’ha posata a terra
perché gli spiriti allenassero col pianto la trachea. Uno spazio
non assegnato ancora dietro al nome [1].
La predazione [2] qui è possibile al contrario.
[…]
[1] uno spazio che quindi esiste prelinguisticamente.
[2] la predazione è esperienzialità improvvisa e possibile solo al contrario, perché avviene che l’io, convinto di essere ancora fautore e creatore del suo mondo, scopre – una volta catturato da ciò che lo circonda – di essere la preda e non il predatore, il cacciato e non il cacciatore di spiriti (come infatti avviene in molte delle trame che ruotano su questo tema specifico). perché c’ho i demoni ‘ngap –direbbe un amico mio.
Spiriti, spettri e fantasmi – diciamolo subito – esistono veramente, almeno nella misura in cui io li avverto, li esperisco. Se infatti l’atmosfera ci attraversa, invisibilmente, grazie alla sua natura quasicosale, la predazione, in un tentativo raziocinante, diventa il disperato e sempre manchevole tentativo di intenzionare figure dalla natura quasi-cosale. Gli spiriti, nella letteratura come nella nostra vita,hanno una funzione estremamente specifica: dare forma ai rapporti di agentività emotiva che si riflettono su di noi a partire dallo spazio che ci circonda, da quelle sue affordances inspiegabili e, come in questo caso, così inquietanti.
Spiriti, spettri o fantasmi, in forme e gradi diversi, sono il disperato tentativo dell’inconscio di soggettivizzare le significatività prodotte da un’atmosfera, da quei suoi «significati ontologicamente radicati nelle cose e nelle semi-cose» (Griffero, 2017). La letteratura quanto la filmografia tenta di fare questo: confinare all’interno di una silhouette comunque sempre sfuggevole, evanescente, atmosfere quasi-cosali; dare forma e nome a tutte quelle forze (spesso negative) presenti in quello spazio, agenti in quel determinato campo.
(piccola digressione sul tema).
Il che ci spiega anche come, in antitesi completa rispetto alle tantissime rappresentazioni filmiche e letterarie, l’opera di Ghostbusters (1984) sia l’unica opera autenticamente capace di opporsi ai fantasmi. Ghostbusters è la riproduzione cioè quanto più fedele di un’utopia solarpunk, di un vero e proprio sogno anti-capitalista. Nessun Campanella potrebbe reggere il confronto. In termini realistici, Ghostbusters racconta la poesia-azione di un gruppo di positivisti che tenta di combattere e sconfiggere i fantasmi che infestano la città di New York, cioè tutte quelle forze invisibili del campo che, in quegli anni specialmente, attraversano e consumano la mente dei poveri newyorkesi.
Siamo nel pieno della Reaganomics (1981-1989) e la Grande mela è passata da essere una città dai mille volti a quell’isterica e egemonica rappresentazione della speculazione finanziaria della borsa, dei privati. L’Upper East Side diventa il centro delle gioie e delle invidie di una città. I dandy della finanza prendono il controllo di tutto persino del settore immobiliare. Non a caso nel 1983 viene inaugurata la Trump Tower.
Attenzione! È in questo senso che va letta quest’opera. Ghostbusters a oggi è infatti l’unica testimonianza che abbiamo capace di istruirci su come sconfiggere davvero gli spettri e i fantasmi del Capitale. Ghostbusters ci illumina su come nel genere comedy si nasconda il primo manifesto utile alla dissoluzione di quel mondo fatto atmosfere del negativo, performatività, crisi continue e speculazioni. Per dirla in altri termini, Ghostbusters insegna “la rivoluzione come Festa”. Come direbbe un amico – il giullare è il primo, autentico rivoluzionario.
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Gli stadi della materia avevano confini fluidi [1].
Quel giorno il vento bruciava le maschere
come cani sotto la morsa del sale. L’uomo
non riuscì mai davvero
a stringere il cappio attorno alla belva.
Qualcosa di atroce scorreva nelle vertebre [1]: il nome
più antico
incastrato nei denti.
[1] l’atmosfera data la sua natura non ha confini cartesianamente circoscrivibili. La puoi percepire quando ci sei già immerso completamente. Scopri di esserne fuori quando già non ne sei più affetto.
[2] l’esperienza atmosferica ci coinvolge proprio-corporalmente, afferra il nostro Leib. Avverti «qualcosa di atroce scorrere nelle vertebre», qualcosa che ci attraversa e che non si sa da dove tragga la sua origine se non a partire da qualcosa di già pre-esistente, prima del soggetto, a partire cioè da qualcosa di più profondo, di «più antico».
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Ha sentito le dita della dea
sfilarla dalla veste poco prima. Guarda:
l’acciaio ha morso l’osso della cerva. Ora sa
che forse ha ricordato il sangue
sfiorarle appena il bordo delle cosce.
Sono stata salvata. Poi
ho dovuto negarmi a ogni luogo [1]
Ho sentito il colpo sulla nuca.
L’ha confuso con il sangue della cerva. Ricorda
di aver guardato il padre
ultima resistenza al nascondimento.
Non sono stata salvata. Io
che per prima ti ho chiamato col tuo nome,
ho sottratto alla funzione il mio spettro [2].
[…]
[1] bisogna necessariamente negarsi all’incontro estatico con l’atmosferico se non ci si vuole perdere, ma il gioco tra la predilezione di un piano di pura esperienza e un altro, quello raziocinante, non ha soluzione. Si oscilla così come in un pendolo tra la salvezza dell’estatico e la salvezza dall’estatico; vige un superamento del principio di contraddizione in questo senso? Potenzialmente sì, ma l’incontro estetico qui, a differenza di quanto accade per esempio in Paradiso di Dal Bianco, non viene abbracciato perdutamente. La paura, il dubbio e la precarietà (invalutabile) dell’esperienza guida Atzori verso una forma del testo tra percezione, incubo e distorsione dell’io-lirico.
[2] lo spettro intendibile atmosfericamente si configura come il tentativo di ricomprendere in una o più creature (simboliche) la natura quasi-cosale del fenomeno atmosferico. Qui lo spettro assume il possessivo, l’io lirico prende forse coscienza dell’intenzione e del desiderio di ridurre l’emozione a oggetto quantificabile, o quantomeno qualificabile sul piano del personale attraverso uno più pronomi, attraverso anche oggetti simbolici, amuleti.
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Stava seduta accanto al cacciatore, alla maschera, al corpo
della preda, un aperto geranio.
Cosa più che ritrarne lo scempio poteva generarle un amuleto.
Raccogliere il dolore come si manifesta,
solo questo si aveva da stringere [1]
nei palmi pulsante come materia viva. Un corpo
si disfa giorno dopo giorno: le vertebre allentano la stretta, la pelle
sarà levigata da urti e abrasioni,
gli organi produrranno cortocircuiti
masse nere che non migrano, esercizi di materia andata in tilt.
Un corpo, soprattutto, o una grammatica [2].
[1] ma poi ecco l’ennesima scoperta: si può cogliere il dolore solo per come si manifesta, nella sua quasi-cosalità del tutto vaga e sfuggevole se non per quel percepire che si può afferrare, che stringe assolutamente su di noi.
[2] il corpo-proprio è l’unico supporto su cui si può avere fede di ciò che ci accade intorno. Qui l’opposizione della lettera “o” diventa anche congiunzione (per vicinanza dei termini) di una grammatica, una grammatica dei corpi. L’io-lirico con il suo corpo è infatti un ricettacolo, per le significatività spazialmente effuse, un ricevitore di segnali e rimandi anche segnici che permeano inconsciamente in chi in primis quella scena la esperisce. In seconda istanza nasce così la traduzione linguistica, il tentativo di tradurre quanto più efficacemente ciò che si è appena esperito. La poesia è una questione di fissare i termini, quelli più adeguati, forse, quelli giusti.
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Le cose che si dimenticano
tutte a portata di pochi movimenti.
Tra il dito e il suo riflesso nel bicchiere
anni di pratica senza riconoscimento.
Anche stanotte hai sognato la passiflora
per colpa della febbre dei lampioni sul vetro.
Hai scavato la cicatrice bianca dell’assenza.
Prendere il bicchiere e sollevarloportarlo alle labbra come un rituale, ma niente
di ciò che hai visto e fatto ha sentimento.
Le cose che si dimenticano ti osservano
dalla luce spenta, dalla soglia calpestata.
Dalla finestra da cui non c’è scampo,
dall’ostilità del cancello [1].
Elencarle tutte in ordine casuale [2], come
carte tradite da un improvviso maltempo.
Sai
che non guariranno col sonno.
[1][2] tutto ciò potrebbe per certi versi ricordare anche altre ipotesi come quella proposta da Morton attraverso magari quell’interpretazione degli “oggetti” (o iperoggetti) che rivede, in questi stessi, una certa produzione di sensualità uniche. Ovviamente ciò non ci convince del tutto o, meglio, ciò non sembra essere del tutto corretto. Ciò che determina più attentamente l’emergere di un certo valore estetico-percettivo, all’interno di questo componimento come anche all’interno dell’intera raccolta di Atzori, è il disporre preciso di elementi, la configurazione di una composizione, di un quadro. Un elenco di elementi che si sovrappongono, che si stratificano leggendo. La disposizione di cose tipica dell’atmosfera, attraverso la disposizione segnica, può arrivare così a delineare un’immagine, anche se vaga, simile a quello che si può vedere davanti alle vaghe opere di Gerhard Richter.
Il gioco di prospettive in questo senso è quindi essenziale all’interno del discorso atmosferografico. Ogni scelta, anche se indotta da questo esperire così particolare, viene sottoposta a una logica del taglio, della prospettiva. Bisognerà quindi, in questo come in altri casi, porsi sull’asse di un comprendere. Bisognerà capire, ora più che mai, il “come” delle cose, attraverso cioè quale forma di introiezione si esprime questa esternalità così invadente, il come il soggetto (dentro e fuori la narrazione) si trova posizionato nei confronti di questo tode ti con un valore in primis prelinguistico e pre-intenzionale.
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Tra i vari saggi citati, segnaliamo in primis:
Tonino Griffero (2010), Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali, Mimesis, Milano, 2017.
Hermann Schmitz (2009), Nuova Fenomenologia. Un’introduzione, trad. a cura di Tonino Griffero,
Christian Marinotti Edizioni, Milano, 2011.
