Fin dalle sue prime comparse nella poesia italiana, il verme è stato difficile da leggere senza ricollegarlo a quel "verme che non muore" infernale del Vangelo di Marco. In questo modo il verme (inteso come generica creatura strisciante) è stato investito di una forte sfumatura morale (alla morte e alla decomposizione, di cui il verme è agente, segue il giudizio sulla vita che l'ha preceduta) che si è mantenuta anche per altre vie. Per esempio, nel disfacimento dei corpi operato dal verme si può vedere un disvelamento: elimina il superfluo finché non arriva letteralmente all'osso della questione, ma non lo fa in una maniera piacevole. La selezione che abbiamo fatto include poesie di entrambi i tipi: abbiamo Jacopone da Todi e i controriformisti (o riformato cattolico) Angelo Grillo e Gche intendono il verme soprattutto in quel primo senso; gli autori e l'autrice più recenti, Boito con il suo verme da racconto gotico, Zanzotto che fa divorare al suo verme il (Giovanni) Della Casa, uomo di lettere del Cinquecento autore del Galateo, e Anedda col lombrico dopo la tragedia, sembrano impiegarlo invece nel secondo senso. A fare da collante tra i primi e secondi abbiamo scelto un testo di Alfonso Varano, che intende il verme in maniera tutta sua, esaminando il modo in cui una volta tagliato a metà rimane comunque in vita, ma in due forme indipendenti, che come immagine può funzionare anche per i rami di questa tradizione a cui qui abbiamo fatto solo accenno.
Antonella Anedda (1955)
DA IL CATALOGO DELLA GIOIA (2003)
V
È la lettera del verso e del verme che vive e vede ciò che è vano
11 SETTEMBRE 2001
Seguo la scia di luce dentro i mesi, nella cripta autunnale
ascolto la prima pioggia sulle grondaie.
Settembre - dice il calendario a metà consumato con figure
d'insetti sopra i fogli. Quasi ottobre anticipano i gusci di
lumaca uno per ogni giorno a disdire con lentezza la paura.
Loda queste creature di terra, il volo breve, l'anno paziente che
disegna: contro il fuoco, contro il cielo celeste della fede.
In basso, nell'orto, la raggiante architettura dei lombrichi, un
velo di formiche sotto il melo. Mi inchino al fango, ai moscerini
alla lumaca, alla fatica con cui mi sale sulle dita.
Andrea Zanzotto (1921-2011)
DA IL GALATEO IN BOSCO (1978)
(Lattiginoso)
Lattiginoso e mielato bruco
che avesti un’intervista speciale
uno scoop – oggetto il Della Casa –
ripungi ripungi tutto
a tutti e tu a tutto
nella sempre rinviata essenza
appena mimetizzato tubo digerente
la sigla del tuo grifo onnipresente
smorfie-volti di smorfia
ammicchi di ripicca uncina
e atterrisce dal giù della ruina
donde tubo per tubo è venuta
la grifità del grifo
che è poi la voltità del volto
secondo quello schema
che si è coerentemente svolto
e finalmente è giunto al sodo
nel cranio nettato allo shampoo, residuato,
fuori da ogni modo
e maglia d’alimentazione
e catena di Sant’Antonio
e battaglia – sputato
sputato fuori dalla bordaglia
Bah, qualcosa d’altro che te cranietà voltità
da te grifo per grifo, bruchìo per bruchìo, squisc a squisc,
si scrampi fin lassù sui trampoli e sulle liane più eteree del bosco
fino alle sue più alte e ridenti raggiere di piova
alle sue più fini lettere algebriche ed algoritmi
in prova
sempre più sbilanciati in avanti in fuori
e senza pudori: frangersi
di cartilagini in iridi di ritmi
ire viticci spire –
nero autoscatto
di spore sopori.
Arrigo Boito (1842-1918)
DA RE ORSO (1864)
Lapide, bara, sudario
A mezzanotte - lo scarafaggio
Incontra un vermine - sul suo sentier.
« Hai l'ossa rotte - fratel coraggio!
Grida beffandolo - l'insetto ner. »
E il verme: « Ho corso - la terra e il mare,
« Solcai la faccia - del mondo intier.
« Cerco Re Orso. » -
- « Se il vuoi trovare
« È là da un secolo - nel cimiter. »
Risponde il vermine:
« O scarafaggio
« Ti dia la luna
« Buona fortuna. »
- « Tu arriva al termine
« Del tuo vïaggio. »
E a giorno ed a vespero - e a notte e a mattina
Un verme cammina;
Coi lividi muscoli - si gonfia e rappiglia,
S'allunga e assottiglia.
Già verso un sarcofago - più e più si strascina,
Più e più si avvicina.
Già tocca il sarcofago. - E sotto la lapide
V'è un picciolo buco,
E l'orrido bruco
Già in quel penetrò.
Passata è la lapide. - Sull'oro del feretro
V'è un picciolo buco,
E l'orrido bruco
Già in quel si cacciò.
Passato è già il feretro. - E in mezzo al sudario
V'è un picciolo buco,
E l'orrido bruco
Già in quel si gittò.
Passato è il sudario. - V'è dentro un cadavere!
Già il verme lo tocca!
Gli sputa sul teschio!
Gli morde la bocca!
Già il morto terribile
L'avello spezzò.
Re Orso
Ti schermi
Dal morso
De' vermi!
Lontan fra le tenebre
Un urlo gridò.
Alfonso Varano (1705-1788)
DALLE RIME SCHERZEVOLI
Questa va bene. Ascolta, o Nice: è questa
una similitudin, che suggella.
Vidi tagliar in due la viva vesta
d'un tal verme, che Polipo s'appella;
Ma la troncata sua parte, che resta
verso il capo, allungossi in coda, e quella
verso la coda produsse una testa.
D'un si fér duo. L'è storia, e non novella.
Anch'io divisi a stento Amor, che m'era
greve, e di quel due nacquerne ad un tratto:
l'un ti dipinge dolce, e l'altro fiera.
L'un dice a me: Tu sei perduto affatto.
L'altro soggiunge: Ama costante e spera.
Prodigio egli è ch'io non diventi matto.
Giacomo Lubrano (1619-1693)
DALLE SCINTILLE POETICHE
MORALITÀ TRATTE DALLA CONSIDERAZIONE
DEL VERME SETAIUOLO
Si assonna per poco tempo,
e muta le prime spoglie.
Breve sonno, meccanico ridtoro
al Baco industrïoso i sensi toglie:
e nel vegeto sen d'apriche foglie
hanno i Vermini ancor gli estasi loro.
Siede sognando, e medita il lavoro
quasi de l'arti sue fabro s'invoglie;
poscia, a vestirsi in più lucide spoglie,
apre languidi lumi a veglie d'oro.
L'ozio stesso è virtù. Così Natura
a' miracoli suoi forma la culla,
ché interrotto operar manca, e non dura.
Solo chi suda in vano e si trastulla
di adulati capricci a l'ombra impura
con più reti di ragno abbraccia un nulla.
Angelo Grillo (1557-1629)
DALLE RIME SPIRITUALI
Fra le tombe de' morti horrende, e scure,
fra l'oßa ignude, e i cadaveri, e i vermi,
putridi parti, e fracide pasture,
itene spesso, o pensier vani, e infermi.
Quivi lasciando l'altre indegne cure,
a contemplar ciascun di voi si fermi,
quali hebber forme già, quali hor figure,
quai già varj ripari, hor quali schermi.
Indi scendete ove nel foco eterno
per morir sempre han gli empi immortal vita,
fra stridi, urli, bestemmie, e stuol nocente:
poi l'imagini offrite a l'egra mente;
ch'havrà con morte, contra morte aita,
e con l'Inferno vincerà l'Inferno.
Castellano de' Castellani (1461-1519)
DALLA MEDITAZIONE DELLA MORTE
In man la falce acerba Morte tiene
e taglia, ronpe e spezza e nulla teme:
sì che pensate a queste cose bene.
O quante volte l'uva acerba preme
questa morte crudel che mai non posa,
tal ch'ogni sterpo per lei piange e teme.
O vita accerba, afflitta e lachrimosa,
hoggi lieto e giocondo e doman lasso,
tal è hor prun che già fu giglio e rosa.
Miseri, riguardate in questo sasso,
entrate d'entro et odorate un poco,
voi che prendete in questo mondo spasso.
Vermin, puzza e sterco è il nostro loco,
fetor, che chi gustassi un'hora a pena
forse il peccar non gli parrebbe gioco.
Quest'è, mortal, la vostra mensa amena:
pascer col corpo varïati vermi;
che ciò pensando, ell'è pur dura cena.
Federico Frezzi (metà XIV secolo - 1416)
DAL QUADRIREGIO
Di quelli morti tra la gran rovina
Un si levò, che solo il cuoio, e l'osse
avea, e verminose le intestina.
E disse: «Poiché noi siam nelle fosse,
son nostri alunni, e compagni li vermi.
O fine oscuro delle umane posse!
E, perché questo io meglio vel confermi,
guatate i corpi fracidi di noi;
per me' vedergli alquanto state fermi.
Qual'ora siete voi, ed io già foi;
e quale io sono tutti torneranno
que' che son nati, e che nasceran poi.
In questo loco papi meco stanno,
imperatori, re e cardinali;
né più che gli altri qui potenzia hanno.
Perché all'estremo tutti quanti eguali
ne fa la morte, al ben felice atroce,
e tarda e dolce agli infelici mali.
Oh lasso me! l'indugio quanto noce!
E quel, che si de' fare, averlo fatto,
o quanto acquista del tempo veloce!
Io perdei Pisa, e poi Lucca in un tratto:
e questo il fe' la mia pigrizia sola,
ché non soccorsi, com'io potea, ratto.
Io fui già Uguccion dalla Fagiola».
Poi come morto ricadde supino,
ratto ch'egli ebbe detto esta parola.
Dante Alighieri (1265-1321)
DALL'INFERNO
E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.
Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.
Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
Iacopone da Todi (4° decennio XIII secolo - 1306)
DALLA CONTEMPLAZIONE DELLA MORTE
Quando t'aliegre, omo de altura,
va', pone mente a la sepultura.
E loco pone lo tuo contemplare,
e pensa bene che tu di' tornare
en quella forma, che tu vide stare
l'omo che iace en la fossa scura.
- Or me responde tu, om sepelito,
che cusì ratto d'esto monno e' escito!
O' so' i bei panni de che eri vestito
ch'ornato te veio de molta bruttura?
- O frate mio, non me rampognare,
che'l fatto mio a te pò iovare:
puoi che i parente me fiero spogliare
de vil celicio me dier copretura.
- Or ov'è il capo cusì pettenato?
Con cui t'aragnasti che'l t'ha sí pelato?
Fo acqua bullita, che'l t'ha sí calvato?
Non te c'è opporto piú spicciatura.
- Questo mio capo ch'abi sì bionno,
cadut'è la carne e la danza d'entorno:
nol me pensava quann'era nel monno,
ca entanno a rota facea portatura.
- Or o' so' l'occhi cusí depurati?
For de lor loco sí so imitati.
Credo che i vermi li s'ho manecati:
del tuo regoglio non àber paura.
- Perduto m'ho l'occhi con che gía peccanno,
guardanno a la gente, con issi accennanno.
Oimè dolente, or so' en el malanno,
che'l corpo è vorato e l'alma en ardura.
- Or ov'è'l naso ch'avíe pro odorare?
Quegna enfertate el n'ha fatto cascare?
Non t'èi poduto dai vermi adiutare:
molto è abbassata sta tua grossura.
- Questo mio naso, ch'abi pro odore,
caduto n'è con molto fetore:
nol me pensava quann'era en amore
del monno falso pien de vanura.
[...]
- Or chiama i parente, che te venga adiutare
e guarden dai vermi, che te sto' a devorare:
fuor piú vivacce a venirte a spogliare:
partierse el podere e la tua ammantatura.
- No i posso chiamare, che so' encamato;
ma faime venire a veder mio mercato!
Che me veia iacere colui ch'è adasciato
a comparar terra e far gran chiusura.
Or me contempla, oi omo mondano:
mentre èi nel monno, non esser pur vano;
pénsate, folle, che a mano a mano
tu serai messo en granne strettura.