Sabrina Amadori – poesie inedite

La terra è madre di se stessa
8 Gennaio 2025

Nella poesia di Sabrina Amadori bruciare è costruire luce. Eppure la parola buio è quella che compare più spesso all’interno della sua silloge, di cui un estratto è comparso nell’antologia: “La poesia che si fa città” a cura di Tommaso Di Dio e Paolo Giovannetti (Zacinto Edizioni, 2024). Questo buio non fa tanto pensare alla notte— più a una scatola, a qualcosa di chiuso e finito. Sebbene sia “ancorato” da una cerva e al suo interno si profilino oggetti naturali, come un albero o un campo, la domanda che regge questa raccolta è sulla casa: «Che donna sei se non ami la tua casa?». Alla dimensione della casa corrisponde quella del corpo, in funzione di ventre vuoto (per mia madre sono un ventre vuoto), di bambola mutilata, ma anche di punto di fuga, di luogo dove potersi sentire finita. Amadori con la sua poesia non cerca una riconciliazione con la maternità, né con quella concezione ingenua di femminile mistico/naturalista che vede nella donna l’anello mancante tra uomo e natura. Se oggi è glamour parlare di divino femmineo, di streghe e profetesse la cui intuizione non è capace di rispondere alle domande, legittime e razionali, dell’inquisitore maschio, Amadori non guarda a queste recenti svolte della cultura pop con occhi ingenui. Aderisce piuttosto a un pensiero vicino a quello proposto da Karen J. Warren nella voce della Stanford University of Philosophy dedicata alla filosofia femminista ambientalista: «La lingua* femminilizza la natura in contesti culturali che considerano le donne e la natura inferiori agli uomini e alla cultura con cui si identificano. Madre Natura (non Padre Natura) viene violentata, dominata, controllata, conquistata, minata; i suoi (di lei, non lui) segreti vengono penetrati, e il suo grembo (gli uomini non ne hanno uno) viene messo al servizio dell'uomo di scienza (non donna di scienza, o semplicemente scienziato). Il legno vergine viene tagliato, abbattuto. Il terreno fertile (non potente) viene coltivato e il terreno incolto è inutile o sterile, come una donna incapace di concepire un figlio». Proprio il terreno, incolto e sterile, rappresenta la destinazione della poesia di Amadori. Non era infatti il fuoco degli incendi boschivi a spaventare, ma il buio intorno: Dafne da alle fiamme il bosco, e se la terra è fertile quando è cenere, la terra è madre di se stessa.

Nota alla lettura a cura di Rebecca Garbin

 

 

Quando ho iniziato ad avere paura.

Un campo bruciava nel buio.

 

 

Quando ho iniziato ad avere paura

ero un campo:

avevo cominciato a costruire luce.

 

*
 

[…] I judge you as the trees do
by dying

Margaret Atwood, You did it, Power Politics

 

 

Sono la parte più sola di me
                           (sono stata la parte più sola)
l’argine che non tiene il centro.

 

Le sughere amano il fuoco

 

come le pigne che bucano il buio
per precipitare i semi sulla terra.

 

 

Saresti stata una brava madre.

 

*
 

Una cerva ancorava il buio.

 

Scorrevo senza fermare cercare

di restare appartenere a una casa

a una forma a una donna che cura

 

una cerva che corre una luce nel buio.

Una cerva spoglia nel buio.

 

*

Poi sono guarita.

 

Che donna sei se non ami la tua casa?
L’albero aveva finito di bruciare

 

come parte della perdita. Avevo bisogno
di un luogo per sentirmi

 

finita.

 

*
 

Che donna sei se non pensi di morire.
                                   

                                    Dafne dà alle fiamme il bosco:

 

un tronco morto brucia dall’interno.

 

*
 

La terra è fertile quando è cenere.

                  
                  «Saepe pater dixit: “Generum mihi, filia, debes”;
                    saepe pater dixit: “Debes mihi, nata, nepotes”.»*

 

Le piante madri sopravvissute all’incendio
decidono quando disperdere il seme.

 

 

La terra è madre di se stessa.

 

 

*Le Metamorfosi di Ovidio, Libro Primo, vv. 505-506.

 

*
 

Quando non sarò abbastanza grande
per andare in giro da sola?

 

Il corpo ci darà una fuga per cui combattere
buie creature di luce:

 

mutilare le bambole per sentirci vive

*
 

Per mia madre
sono un ventre vuoto.

 

Sono un ventre. Vuoto.

 

Il corpo è di tutti
quelli che mi pesano la pancia.

 

Sabrina Amadori (Milano, 1992) ha conseguito la laurea magistrale in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Pavia. Docente specializzata, lavora come insegnante di sostegno nella scuola media. Ha pubblicato la raccolta di poesie “Vuoto frontale” (Capire Edizioni, 2020). Alcuni suoi testi sono apparsi nell’antologia “Zenit poesia – Progetto < 40”, volume secondo (La Vita Felice, 2016), su La Bottega di Poesia di Repubblica (sezioni di Bari e Napoli) e all’interno di diversi blog e riviste online, tra cui: Rai Poesia, Inverso, Poeti Oggi, Clandestino, La Macchina Sognante. Sue poesie sono state tradotte in spagnolo dal Centro Cultural Tina Modotti e in catalano sulla rivista online “Lletres Bàrbares”. 
Una selezione di suoi testi è stata pubblicata nel secondo volume dell’antologia “La poesia che si fa città”, a cura di Tommaso di Dio (Zacinto Edizioni, 2024).