
la vita non è un luogo pericoloso –
La "Preghiera in febbraio" di Lucia De Carli
Delle poesie di Lucia De Carli (Rimini, 2000) colpisce subito il naturale alternarsi dei registri. La divisione in capitoli della silloge sembra suggerire un andamento narrativo lineare, ma — lo si capisce presto leggendo — il movimento nella poesia di De Carli è più simile a una corsa sul posto, al volo della libellula già protagonista del poema di Amelia Rosselli. Anche qui, il racconto si frammenta, si distorce, si contraddice, in un vero e proprio caleidoscopio di voci.
Se la poesia di De Carli ha un tempo, è quello della giovinezza:
«Vergogna della mente che si aggredisce
e dà nome al confronto,
come una giovinezza che sarà
crepuscolo sotto il cielo di alcuni—
forse anche l’unico abete del bosco
può essere sole d’inverno
la vita non è un luogo pericoloso».
Gli spazi, invece, sono quelli della nostalgia e del ricordo, in netta opposizione con l'oltranza linguistica dell'autrice ("Espertissimo linguaggio / dell’adolescenza!”, scriveva appunto Rosselli). L'immaginario marinaresco non invita all'avventura, rimanda all'amarezza delle partenze e della separazione. Dalla distanza tra due mari che non si fronteggiano — il Baltico e l’Adriatico — emerge la persona a cui la silloge è destinata. Di lei resta un avanzo di un cibo che odiava, lo hjortron, un frutto giallo tipico delle coste del nord Europa.
«Lo hjortron era ultimo
in fondo al barattolo:
ne potevo mangiare poco per cena.
Ma la persona che quel sapore lo odiava
è rimasta lontana da qui;
continua a dirci che i frutti gialli sono acidi
— non fanno paura, me lo ha promesso;
nessuno ha paura dove è lei».
Ad essere sempre più plurale, però, non è l'altro a cui De Carli si rivolge, bensì l'io narrante. La sua poesia è autenticamente lirica in questo senso: siamo tutte le cose che abbiamo amato. Come Cvetaeva nei poemi degli anni venti — ma anche come Mariangela Gualtieri nel suo esordio Antenata (Crocetti, 1992) — De Carli punta a una poesia totale, in cui un io (o meglio un noi) confessionale possa aderire pienamente a un mondo che non è pericoloso.
Fuori dal limite del giardino
un deserto senza pianure
di chi ha in amore l’anonimato,
che è un raro, monotono
caleidoscopio di voci.
Se Lucia De Carli fa sua quella stessa lingua che fu di Rosselli e Cvetaeva, Preghiera in febbraio vuole raccontare la memoria collettiva del distacco— e così anche quella delle cose sognate e desiderate. Il procedimento della raccolta (ad oggi inedita) è regressivo: due componimenti non inclusi in questa selezione si intitolano FINCHÉ SAREMO NEL POSTO GIUSTO, SAREMO BAMBINI. Alla fine, tutto ritorna bianco, del bianco degli inizi: è stato lasciato indietro tutto ciò che non era necessario.
II
NOME DI CITTÀ
primo atto narrativo
In partenza: ciò che non riesco a dire
come inchiostro bianco su un foglio
bianco o grigio di neve,
o forse sei tu—spettatore
che hai aspettato di vedere versi
meno sospetti, per questa storia
il mio quindici di agosto ho pianto
(agosto è il mese terribile)
e non ho più visto nulla
per molto tempo
e oggi ancora non vedo nulla.
“Viva l’Italia”—mi hanno sentita
in febbraio (quella sera sono uscita di casa)
ti condanno a non dimenticare
l’odore di tabacco nelle stanze
e il vuoto dei viali di domenica
e il velluto rosso
e la gloria di patria ritrovata.
Di cosa canto non me lo chiede nessuno—
di cosa canto, una scrittura rimasta parola detta
forte da non sbattere neppure
l’ultima delle finestre.
Hjortron: scrivo solo parole
incenerite dal tuo odore.
Di muscoli fragili frammenti
d’argilla, ferro insapore
frutto dei miei primi passi:
le prime parole definitive
ritorno
sono ritornata!
Vi ho portato un canto in dono,
nella voce ascoltate filamenti
di tabacco, di legno da parete.
So che non vedrete mai la mia neve
mentre io a nord ho perso lo sguardo
lascia che io dorma accanto a te, Ume
om du kan.
Lo hjortron era ultimo
in fondo al barattolo:
ne potevo mangiare poco per cena.
Ma la persona che quel sapore lo odiava
è rimasta lontana da qui;
continua a dirci che i frutti gialli sono acidi
—non fanno paura, me lo ha promesso;
nessuno ha paura dove è lei.
Nemmeno io.
(Lascia che io dorma accanto a te, Ume
om du kan).
Richiamale (ricordi, c’era la neve)
le aquile che rubano le tue prede,
sono consunte le bianche punte:
hanno scoperto lo stendardo
a guerra già inoltrata.
Ho graffiata la coperta di pelle
cibo afrodisiaco per uccelli rapaci
(tu li hai cresciuti fra i capelli
tu li hai nutriti di edera porosa).
Vedo il viso sporco di verde—
giardino di piante velenose
cresciute nel sudore fecondo
e negli aliti bagnati.
Era inverno,
non germogliavano bene o male;
biscotti polverosi celebrano un gioco lontano
ne escono dalla fucina della fortezza
offuscano con l’odore di menta
l’ebbrezza, colla delle tue ciglia.
Piede che rompi il ghiaccio fangoso,
disvela la vecchia primavera,
di pini e boscaglie lebbrose:
ti condanno a non dimenticare
l’odore di tabacco nelle stanze
e il vuoto dei viali di domenica
e il velluto rosso
e la gloria di patria ritrovata.
Canto il febbraio con parole nuove
di umidità tramandata sui muri;
i vecchi cancelli di lacca
ora sono guidati dai marinai,
e una volta noi eravamo belle
con loro
eravamo dolci e belle
e ci vestivamo a festa
per giocare sui teli e sui letti,
ma ora sono fradici di succo di more
e noi preferiamo la terra nuda.
*
XVI
LA DANZA DEL CORO
improvvisazioni rimosse
Come il cavaliere che balla
alla fine della storia,
ci si inventa una morte felice,
più leggera dei fiori pasquali.
(My mind is jumping off the cliff,
life is not a dangerous place)
la vita non è un luogo pericoloso
Siete tutti voi un pattinatore
sopra il confine più ingiusto,
reggere con mani guantate lo specchio
delle camerate più piene:
uno spettro che chiama aiuto
per non sbagliare strada nell’attesa
la vita non è un luogo pericoloso
Vergogna della mente che si aggredisce
e dà nome al confronto,
come una giovinezza che sarà
crepuscolo sotto il cielo di alcuni—
forse anche l’unico abete del bosco
può essere sole d’inverno
la vita non è un luogo pericoloso
La prima giornata a passo
di carovana—fuori, sotto un grigio
di feste e cibi dolci:
sono solo timide paure
contro il canto che non è nulla
di più sconosciuto:
la vita non è un luogo pericoloso
Non ho molto da dire
se non un vento che sporca
ogni cosa che tocca,
lo stesso piumaggio distratto
e il suo pennello che ha perso
la grinta della preda
la vita non è un luogo pericoloso.
Un manichino dai corridoi vuoti
poco riscaldati, la voce che corre—
carezza di muro.
Realtà nella sua massima presenza
che confonde il surreale più ostinato.
Lungo le mie strade di nervi,
un piccolo labirinto disegnato
a carboncino, un aratro
che ricerca il sasso della rottura.
Descrivere: rimbalzo la memoria
contro tutte le finestre,
procedere con la chiave del portone
sempre a due falcate di distanza.
Come la minestra calda che sempre
sarà densa all’arrivo del bambino,
quel dolce amico dei mattoni
rincorre le proprie arie
da sotto il letto (del mio ruscello).
Nel giorno della parola stanca
che è forse domani,
il castello—la sua pienezza
che sta nelle grandi colpe,
ci sarà un ragazzo sulla collina,
sotto la valle, che non avrà più nulla
con cui piangere di felicità.
La lontananza di chi vede
compagnia nell’oggetto vicino
all’ingresso, un cancello
laccato di bianco e scavalcabile
facilmente—eppure io, così poco agile.
Avere una mente che gira
su se stessa lentamente
attorno alla giostra nella piazza
ci permette la latitudine del pensiero,
la corda più filata fra tutte
le tristezze dei nodi da marinaio.
Fuori dal limite del giardino
un deserto senza pianure
di chi ha in amore l’anonimato,
che è un raro, monotono
caleidoscopio di voci.
Non sarete voi a dirmi
di non temere più nessuno,
perché, alla fine dei giorni, voi
cosa siete, qui? Non avete avuto
nemmeno il coraggio di
proclamarvi presenza
davanti a lui.
Che si possano dare colori
al vetro, è il vero miracolo
che questa sera ha ottenuto
giocando con i dadi.
Il desiderio più asciutto:
la gonna bianca che aspetta
pace—dell’essere riposta
sulla pelle al sole.