Il Fauno e Artù, Bembo e il vulcano

Sulla poesia di Giuseppe Nibali
4 Giugno 2024

Immagine: We Walked the Earth, installazione di Uffe Isolotto

 

 

 

Il De Aetna di Pietro Bembo, 1496 (in realtà 1495, a dispetto di quanto riporta la dicitura), è il primo incunabolo in lingua latina della tipografia di Aldo Manuzio; quelli prima erano in greco, con l’apposito alfabeto, eccettuate le note al testo, redatte in latino e per le quali era stato predisposto un carattere ad hoc. Ma in questa occasione il bolognese Francesco Griffo deve preparare nuovi punzoni che siano all’altezza di un testo di classe come quello del giovane Bembo, e tira fuori quello che poi diventerà il font bembo, che infatti non si chiama così per sbaglio. Il Griffo è talmente maniacale da realizzare fino a quattro versioni diverse dello stesso carattere, con lo scopo di rendere la scorrevolezza della scrittura a mano da autentico umanista, e sarà di nuovo lui, sempre nell’ottica di trasferire su carta stampata la grafia tradizionale, a inventarsi il corsivo come stile tipografico: per cui, quando succede questo, per esempio, il merito è direttamente di Francesco, che purtroppo finì probabilmente vita e carriera giustiziato in seguito all’omicidio del suo genero, con una spranga di ferro o addirittura (e qui siamo nel mito) proprio con un punzone di quelli che si usano per la stampa. Già solo per questo motivo il De Aetna è un testo fondamentale nella storia della letteratura mondiale; come se non bastasse, è scritto anche molto bene. Il giovane Bembo inscena un dialogo in cui lui e suo padre discutono sulla natura dell’Etna, approfittando del ritorno di Pietro dalla Sicilia, dove ha studiato il greco presso il leggendario Costantino Làscaris, sapiente e profugo da Bisanzio dopo la caduta di quest’ultima, e ha avuto modo di assistere a un’eruzione del vulcano dopo averlo scalato. I due così parlano un po’ di fisica (nel senso antico) e di storia, poi si salutano: Bembo jr si congeda dal padre, mentre Bembo sr (Bernardo) si ritira cogitabondo nella sua biblioteca. Mi viene in mente su questa linea Eucariota, un libro di Giuseppe Nibali uscito sul finire del 2023 per la collana Gialla di Pordenonelegge che è giocato in buona parte su colloqui con figure paterne, come in questa poesia:

 

Nello spogliatoio della piscina c’era un posto

che non ci andavo mai perché era un posto

dove c’era il mistero e io non mi piaceva il mistero.

Quella volta invece ci sono andato, era la zona

dove gli uomini adulti parlavano che erano cavalieri

e sarebbe tornato il tempo dei cavalieri, io ho sentito

un grande freddo in quel posto che quella volta

non c’era nessuno, ho inspirato tutto il gelo che c’era

e ti amo mi ha detto il male e come faccio

a non riamarlo io che non chiedo altro.

Tornando ho fatto a corsa quei quattro passi fino alla via,

ho stretto forte mio padre gli ho detto che non avrebbe dovuto

lasciarmi mai, gli ho detto del freddo che mi aveva preso il cuore

e del mistero che mi aveva fatto tutto triste d’un colpo solo.

E per nessun motivo.

 

O in questa:

 

Un teschio tiene papà sulla scrivania un teschio di cane

dice che capita che il cane ringhia prova l’attacco,

che lui non ha pazienza dice: e allora prende il

bastone e il cane continua allora prende la pala

e stavolta gli rompe la testa beve il sangue dice

che rende forti e poi gli stacca pure il cranio.

Scherza il papà, fa la mamma, il teschio è di un lupo

passato dalle valli comprato tempo prima e lui

non è come i cani e i gatti che stanno con gli umani il lupo

non ci fa niente se lo ammazziamo.

 

L’aspetto più interessante del dialogo tra Pietro e Bernardo risiede probabilmente nella dinamica tra il padre e il figlio, entrambi perfetti umanisti, ma di due epoche ben distinte, come si evince soprattutto dal loro approccio all’Etna: da una parte abbiamo Bernardo che sciorina esempi e teorie sui vulcani tratte dagli antichi ma che sono in realtà aria fritta (letteralmente: fa dipendere i terremoti dal vento che entra dai crateri dei vulcani e agita la terra da sotto); dall’altra Pietro che, come è stato già constatato da altri, applica allo studio della natura il metodo impiegato nell’indagine filologica, che richiede imprescindibili riscontri frutto di dirette osservazioni. Ma il risultato non è un’anticipazione del metodo scientifico, tutt’altro: padre e figlio rimangono su piani distinti e faticano a venirsi incontro. Bernardo Bembo conosce le cause di tutti i fenomeni trattati e non esita a illustrarle al figlio, il cui ruolo viene notevolmente ridimensionato rispetto a quanto ci aspetteremmo prima di leggere il dialogo: Pietro non ha l’autorità di raccontare le cause di nulla, può soltanto raccontare le cose che ha visto ma senza capirle veramente; per quello c’è bisogno di Bernardo che arriva e chiarifica tutto. La seconda delle due poesie di Nibali che ho riportato ci mette dinanzi alla stessa situazione: l’intero testo è occupato dall’improbabile spiegazione del padre per il teschio canino sulla scrivania e dalla smentita di quest’ultima da parte della madre, la sola capace di confutare il delirio di potenza del papà squartatore di cani. Al figlio/figlia rimane esclusivamente lo spazio del primo verso, quello della semplice constatazione (Un teschio tiene papà sulla scrivania un teschio di cane), di cui però sfuggono le cause. Nibali e Bembo ci raccontano entrambi di un mondo ricevuto in eredità: lo possono descrivere, ma la possibilità di spiegarlo viene loro negata.

E prima di Eucariota, Scurau, 2021 per Arcipelago itaca; non fai in tempo ad aprirlo e sai già cos’è che va [o]scurandosi (per il senso dell’espressione etnea, strettamente legato allo scorrere del tempo, alla “es dunkelt” tedesco, rimando alla postfazione di Tommaso Di Dio): proprio al centro della copertina color pergamena, con un paio di rettangoli azzurro cielo (dentro quello superiore si legge: Giuseppe Nibali, autore del libro), ti ritrovi stampato un minotauro completamente nero, una sagoma di fatto, che se ne sta accovacciato come a dire: “adesso sono fermo, ma è un attimo e io scatto, quindi occhio”. Di occhio (e mano) ne ha avuto Ilaria Mai, autrice del minotauro che ritroviamo sul finire del libro, poco prima dell’ultima sezione, non più completamente nero, ma che al suo interno lascia distinguere un paesaggio scabro e roccioso: ha accolto in sé un po' di mondo. Quando uno vede il Minotauro, bene o male pensa: labirinto, uomo-bestia, antropofagia, isola di Creta, filo di Arianna, Teseo eroe. E quando si pensa così rispetto al libro di Nibali ci si prende anche abbastanza, con le dovute riserve. Il labirinto è insito nella forma in cui si presentano le poesie della raccolta, che iniziano tutte o quasi con la lettera minuscola, come se ognuna di queste comparisse inaspettatamente dopo una svolta del labirinto che non lasciava vedere cosa ci fosse oltre; uomini e bestie ci sono eccome (Che bestia sei. Che bestia sei mentre aspetti col muso l’acqua -; siamo ancora uomini. Anche i morti. Tutti. ; alcune pregano (anche i maschi) per un nuovo accoppiamento / con lo stesso toro); antropofagia o violenza dal carattere cannibalico-predatorio quanta ne vuoi. L’isola non è Creta, ma la Sicilia (lo si evince da certi toponimi o dall’ultima sezione in lingua etnea); non abbiamo fili di Arianna ma grovigli e nodi (nel notturno si muove il tessuto della terra), cavi al massimo, che non indicano vie d’uscita ma complicano ulteriormente la questione, col tempo che stringe mentre si sta facendo sempre più tardi (La spola muove un ordito impronunciabile: / sarebbero finiti i giorni). Si registra invece una totale assenza di eroi. Questo è un elemento di cui bisognerà ricordarsi tra un po’: per ora bisogna capire di cosa parla Scurau. Anche senza eroi, il segno della poesia di Nibali è tassiano, soprattutto di quel Tasso poeta di notturni che ha scritto la Gerusalemme Liberata ed è riuscito a riportare il senso dell’epica in un’epoca in cui, se avevi voglia di leggerti qualcosa di recente che non fosse un trallallero trallallà di franchi cavalieri invulnerabili che si prendono a mazzate e desideravi un bel drammone con azione, al massimo dovevi accontentarti della Avarchide di Luigi Alamanni, che ha avuto il merito indiscusso di rispondere a una domanda che nessuno si era mai posto prima: è una buona idea riscrivere l’Iliade ambientandola al tempo di Re Artù e coi personaggi del ciclo bretone? L’Alamanni non ha avuto dubbi: 25 canti (uno in più dell’Iliade; il tentato superamento è manifesto), e l’ha pure scritta molto bene (qui il testo completo: https://books.google.it/books?id=R7vl9EExPsIC&printsec=frontcover&dq=ava... ). Non fosse arrivato Tasso qualche decennio dopo, forse sarebbe questo il nostro capolavoro della letteratura “cavalleresca” post-ariostesca. Ma se ora proviamo ad accostare al libro di Nibali un paio di ottave tassiane che a me piace definire “madrigali maligni”, per via della potenziale vicinanza metrica tra ottava e madrigale di soli endecasillabi e l’argomento paesaggistico, declinato nella chiave molto particolare che vedremo, riusciamo a toccare qualche snodo cruciale che accomuna le loro produzioni e le rende chiare. Di tutti i madrigali di Tasso, il più famoso è sicuramente Qual rugiada o qual pianto, che fa:

 

Qual rugiada o qual pianto

qual lagrime eran quelle

che sparger vidi dal notturno manto

e dal candido volto de le stelle?

 

E perché seminò la bianca luna

di cristalline stille un puro nembo

a l’erba fresca in grembo?

Perché ne l’aria bruna

 

s’udian quasi dolendo, intorno intorno,

gir l’aure insino al giorno?

Fur segni forse de la tua partita,

vita de la mia vita?

 

E via così, partecipazione emotiva col mondo naturale e delicatezza nel descriverne i moti fisici in chiave affettiva. Ma facciamo un confronto fra questa lirica e un “madrigale maligno” dalla Liberata e vediamo che aria tira:

 

Ma già distendon l’ombre orrido velo

che di rossi vapor si sparge e tigne;

la terra invece del notturno gelo

bagnan rugiade tepide e sanguigne;

s’empie di mostri e di prodigi il cielo;

s’odon fremendo errar larve maligne;

votò Pluton gli abissi, e la sua notte

tutta versò da le tartaree grotte.

 

L’occasione di questo sconvolgimento è un maleficio scagliato contro i crociati dagli infedeli, poco prima di una battaglia determinante per gli esiti dell’assedio a Gerusalemme. Al di là del notturno gelo prelevato da Inferno II (quindi una sede infernale, in linea con la materia trattata), qui assistiamo a un capovolgimento della rugiada lacrimosa che diventa in questa sede rugiada di sangue sulle piante; vediamo praticamente una luna di sangue, di certo non una bianca luna. Se il primo testo esaminato si articola intorno all’opposizione fra candido e oscuro, il secondo ruota attorno all’oscurità e al rosso del cruore. L’ottava risulta potenziata per il lettore (o la lettrice) che conosce il madrigale Qual rugiada o qual pianta, perché gli consente (o le consente) di cogliere pienamente il sovvertimento completo dell’ordine naturale che sta avendo luogo in questo momento: il mondo come ce lo sta raccontando ora Tasso non ha spazio per rugiada e lacrime catartiche che si potrebbero versare insieme alla natura per consolarsi, ma è solamente anticipo di una strage che è già in atto. Il mondo dei madrigali maligni utilizza il lessico e le forme del madrigale tradizionale; rispecchia, ma non è capace di consolare. Qualcosa di simile lo si potrebbe dire anche per Scurau, specialmente riguardo all’incapacità di consolare e al misurarsi con una oscurità in cui si distingue soltanto il sangue. Leggiamo due poesie di Nibali che nel libro compaiono una dopo l’altra:

 

carcasse, visi morti: si agita luce nei cavi,

un maglio sfronda il consorzio umano e

ne nascono. Ne muoiono.

 

La placenta respinge i colori più antichi, altri

piovono sulla terra chimica: una piccola duna cede;

un altro grumo è caduto, bambina non è il Male,

solo andiamo verso il tempo del tempo. Tua pelle,

forse del viso quella che guardi stesa sul corpo,

tua pelle forse del dorso, e così scopri in petto

una gabbia in polimeri ciano e oro, un cuore

in poliuretano. Non gridare. I seritteri filano maglie

di sangue coagulato, coprono il cratere deserto

del ventre, suturano la struttura

 

*

 

nel notturno si muove il tessuto della terra,

le case, i resti d’osso, ombre nell’ombra una

sull’altra e alla via nuove bambine imparano

il dolore: sul porto, dentro la ritirata del treno,

Gheta ha sfiorato la scritta sul muro: se hai

paura urla e grida sempre nel seguire

la serpentina di cemento per le cave.

 

I collegamenti fra il madrigale maligno e queste due poesie vanno dal piano quasi molecolare del sangue (rugiade tepide e sanguigne vs maglie / di sangue coagulato) a quello della mole totalizzante della terra (la terra invece del notturno gelo vs piovono sulla terra chimica o si muove il tessuto della terra), o comunque del quadro più ampio del tempo notturno, le ombre (distendon l’ombre orrido velo vs ombre nell’ombra una / sull’altra), e in generale della paura, del male, dei mostri. L’atmosfera dominante è comune, questo è il libro dell’eruzione dell’Etna-mondo.

Non tutti sanno che dentro l’Etna c’è re Artù. Lo si può imparare dal Detto del gatto lupesco, un componimento poetico della prima letteratura in volgare del nostro medioevo, che di oscurità ha qualcosa da dirci in tutti i sensi. In primis, perché è un testo oscuro, nel senso di criptico, che ha dato filo da torcere ai suoi lettori da quando lo hanno ritrovato in un manoscritto tra gli infiniti accumulati dal Magliabecchi. Lo si capisce già dal riassunto che suona circa così: il protagonista esce di casa ma si fa distrarre pensando a capo chino a un suo amore e sbaglia strada. Incontra due cavalieri che gli chiedono: chi sei, e lui dice “Sono il gatto lupesco, e a me nessuno la dà da bere quindi occhio alle bugie”. Allora i due si presentano come Bretoni e lo informano della loro quête, la ricerca di Artù dentro il Mongibello (Etna): 

 

Cavalieri siamo di Bretagna,

ke vegnamo de la montagna

ke ll’omo apella Mongibello.

Assai vi semo stati ad ostello

per apparare ed invenire

la veritade di nostro sire

lo re Artù, k’avemo perduto

e non sapemo ke·ssia venuto.

Or ne torniamo in nostra terra,

ne lo reame d’Inghilterra.

 

E così fanno, dal momento che la ricerca è stata infruttuosa. Il gatto riparte e si ritrova nel deserto, dove c’è solo un eremita, a cui rivela il suo intento: vuole andare in Terrasanta a trovare l’uomo che aspetta il ritorno di Cristo. Quindi esce, si perde, torna indietro. L’eremita allora gli indica una croce in mezzo al deserto: il nostro gatto attraversa distici di novenari/octosyllabes alla maniera della tradizione in langue d’oïl ricolmi di bestie selvagge, e poi chiude così: 

 

Ma·ssì vi dico, per san Simone,

ke mi partii per maestria

da le bestie ed anda’ via,

e cercai tutti li paesi

ke voi da me avete intesi,

e tornai a lo mi’ ostello.

Però finisco ke·ffa bello.

 

in maniera quantomeno sbrigativa. Non sarebbe fuori luogo leggere il finale come “che fa bello”, inteso il tempo; magari mi sbaglio da una prospettiva di storia della lingua italiana, ma questa rilevanza conclusiva data al chiarore atmosferico amplifica l’altro motivo che rende oscuro questo testo, l’oscurità letterale in cui si svolge la vicenda: 

 

Allor guardai e puosi mente

e non vidi via neuna.

L’aria era molto scura,

e ’l tempo nero e tenebroso

[...]

e quasi non vedea neente

per lo tempo ch’iera oscuro

 

Domanda delle domande, che spontaneamente sorge quando ci si approccia al Detto del gatto lupesco: ma come fa un gatto a essere lupesco? Di nuovo, c’entra l’oscurità. Nel 1989 Annamaria Carrega individua una soluzione convincente: una storica confusione tra lupo e lince nelle fonti greche (lupo alla licaone-licantropo, per intenderci, fonicamente più vicino alla lynx, con quel “cs” finale e la “n” in mezzo che si perde per strada senza troppa fatica). Perché la lince? Perché è un gatto che vede bene. Il gatto lupesco, più che un gatto con un appetito da lupo, è un gatto con l’occhio di lince, che ci vede molto, molto bene: talmente bene che in tutta il detto la maggior parte del tempo non vede nulla (la strada che perde, il buio circostante), e si apre all’insegna di un fallimento di ricerca, quello deii cavalieri bretoni non hanno visto traccia di re Artù, e tornano sconfitti. L’unico a vedere qualcosa è l’eremita, e vede una croce; il gatto ci vede chiaro solo quando guarda con la mente alla crocifissione (guardate la copertina de Il gatto lupesco di Sanguineti, con quel suo singolo occhio in bella vista). Accostandoci a Scurau e Come dio su tre croci (libro di esordio di Nibali, nel 2013), lasciando il medioevo e tornando a Nibali, se teniamo a mente queste considerazioni sul Detto possiamo notare con più chiarezza certi elementi salienti di questi libri. In primis, e questo è ovvio, l’oscurità, come evince dal titolo stesso di Scurau (e ne abbiamo già parlato). Potremmo chiamare in causa anche il fattore linguistico, con da un lato la lingua pre-fiorentinizzata del Detto, dall’altro il dialetto siciliano di Scurau; più interessante forse considerare che, se l’aspetto “lupesco” del gatto non ci riporta alla sfera del lupo vero e proprio (appetito proverbiale, pericolosità etc etc), questi aspetti sono invece presenti nella poesia di Nibali, che (almeno) di facciata, si presenta come tale, e corre a volte anche il rischio di sembrare un po’ compiaciuta di questa sua dimensione più gore. Apro a caso il libro: Adesso la strada è il campo / del sangue; Né esiste / il mondo fuori dal mondo, anche se piange la donna / con le gambe sbucciate sul sudario e anche strappa / e graffia cotenna intorno dai maschi adulti

 

 Abbaiamenti gravi come spari, l’ululato dei lupi rimasti; scendono zitti dalle rocce, né attaccano né giocano, solo guardano il viavai di gente sulle rive. Il manto come una guerra di colore, l’ultimo sangue crollato giù dai denti

 

 Il lupo che sbrana c’è, ma come nel caso del Detto è soltanto l’aspetto più evidente: al posto di lupesco potremmo mettere linceo, per lo sguardo. Sempre nel Detto, lo sguardo del protagonista è chiaro solo quando si punta sulla croce in lontananza nel deserto (luogo selvaggio). Colpisce allora non solo che il primo libro di Nibali si chiami Come dio su tre croci, che dunque rievoca la stessa scena fondamentale per la quête del gatto lupesco, ma anche che una delle poesie in cui questo tema appare più scoperto si chiuda, dopo l’apertura su uno strascico vedovale, così: su tutto si stenda la materna croce / e bene in vista. La croce che è sia oggetto con cui pregare che strumento di tortura che rimanda alla violenza (al cruore) della crocifissione qui si mostra in tutta la sua ambivalenza, come a dire: rassicura che ci sia ma ricorda al tempo stesso una tragedia, e può rassicurare solo perché la ricorda, e viceversa. Sempre in questo libro si registra inoltre la presenza di paladini, non del mondo bretone come quelli del Detto, ma dal mondo franco: Ruggero D’Altavilla, Orlando, soprattutto in questa poesia:

 

L’ultimo valoroso Orlando

nella spada il sangue

pesto dei marciapiedi

la sabbia bianca di calce

sporcata ai silenzi

non c’è un futuro

che non sia di vigna

vergine d’adolescente incendio

non c’è uno sparo – m’insegnavi –

né una scarpa che non tenda

all’edera

che non perda inchiostro. 

 

Uno dei testi in esergo al libro chiarisce la provenienza autobiografica di questo elemento nell’immaginario di Nibali, ma è interessante notare almeno altre due cose. La prima, che in Scurau non ci sono paladini, solo un maglio, che abbiamo già visto; la seconda, che se in questa poesia il sangue sta nella spada (che si suppone lo abbia versato), in Scurau lo si incontra mentre sta venendo versato. Non può più stare sulla spada di Orlando, non a caso in questo testo l’ultimo: è stato rimosso dall’immaginario ciò che aveva causato lo spargimento di sangue, e con questo solo si rimane. Non voglio entrare nel discorso della madre che si fa in questi due libri perché non saprei venirne fuori: solamente registro che l’ultimo poesia di Scurau si chiude con un coniglio scuoiato, ovviamente col coltello:

 

[...] No mentri na putenti cutiddata nto sternu,

d’unni cola u sangu, annunca a carni s’annirichisci.

 

[...] Nel frattempo una forte coltellata nello sterno, / da dove colerà il sangue, altrimenti la carne si annerisce.

 

Questi due testi condividono: una lama (spada o coltello), il sangue che sparge, il colore nero (inchiostro come sangue nero, la carne che annerisce). Il sangue va sparso per evitare che la carne vada a male, questo nero da scongiurare: rilette alla luce di questa poesia di chiusura, le scene cruente del libro vengono giustificate, ma non in maniera catartica. Bisogna liberarsi del sangue, con tutto ciò che comporta (Metastasio, Siroe, parla Cosroe: parte del sangue mio verso nel figlio, il sangue è il dispositivo più evidente dell’ereditarietà, Cosroe volendo versare il sangue del figlio sta anche versando il suo. Cosa sarebbe accaduto se fosse stato invece quest’ultimo ad avere avuto questa pensata?). Siamo tornati al mondo in eredità di cui si era parlato con Bembo.

Il padre di Bembo comincia il dialogo nell'ombra (piacevole) dei pioppi (vegliare, non vegliare, poesia / cobalto, padre, nulla, pioppi: zona di confine, siamo sempre lì, anche con De Angelis), che poi abbandona per camminare col figlio lungo un torrentello. Quello dei pioppi non è un riferimento buttato lì: Bernardo rivendica con orgoglio che si tratti proprio di quei pioppi celebrati in versi latini dal riminese Augurelli (oggi oggetto dello studio di Gianluca Furnari)

 

Erit in Noniano populus, quam Bembeam populum vocent: ita mihi quidem videtur illas aeternitati commendasse suis carminibus Aurelius noster. Quare,

 

Quae vitreas populus arduo 

Bembeas ad aquas vertice tollitur,

Vivum cespitem obumbrans

Intonsa bicolor coma

 

Ci sarà a Noniano un pioppo che è possibile chiamino pioppo Bembiano: così a me per davvero sembra che quelli all'eternità abbia consegnato coi suoi versi il nostro Aurelio. Per cui,

 

Il pioppo che con l'alta cima

presso le limpide acque di Bembo si innalza,

ombreggiando il prato vivace

con la fronzuta chioma bicolore

 

(La traduzione dal latino di questo estratto dal De Aetna, e da tutti gli altri a seguire, è di Salvatore Cammisuli)

Insomma, Bernardo è fiero di questi pioppi, tanto da dare loro il nome di famiglia: il pioppo Bembiano include sia lui che Pietro, e quelli a venire. Ma il ritorno sul pioppo è dovuto a un albero che a Noniano, dove si sta svolgendo il dialogo, manca: raccontando della sua gita etnea, Pietro menziona il grande numero di platani che crescono sulle sponde del vulcano, al che il padre replica che desidererebbe poter riempire tutta la villa di platani:

 

[Parla Bernardo Bembo] vedi quante file di bellissimi alberi ho piantato per te, sia nostrani, sia di origine straniera? E se avessi avuto anche dei platani, mai, me vivo, essi si sarebbero seccati, e ora tu avresti dove poter meglio invitare Fauno, ed egli dove venire più volentieri.

 

La discussione prosegue un altro po’ sul platano, albero di Platone (come ricorda anche Cicerone: Platone-platano, il primo sotto l’ombra di Socrate, il secondo che invece dà ombra a chi passa, e siamo già finiti nelle delizie del concettismo), e in generale sul bisogno avvertito da Bernardo di lasciare una degna eredità a Pietro, dal momento che una volta che me ne sarò andato, mi accadrà più frequentemente di essere da te più biasimato che apprezzato. Bembo junior prova a replicare e a rassicurare il padre, ma Bembo senior lo interrompe subito: era tutto un test per verificare la capacità di giudizio del figlio, e in questo modo Bernardo si scherma, non si affronta davvero il problema del mondo-villa dato in eredità. Quel riferimento a Fauno non è casuale: si tratta di un personaggio di rilievo nella produzione in versi latina di Pietro Bembo, tanto da occupare una posizione di primo piano nei suoi epigrammi. Ma quelli in cui il Fauno compare vengono diffusi a stampa dopo la sua morte: prima per leggerli bisognava chiederglieli, a Bembo, seguendo l’esempio, per esempio, del Varchi che fece così tramite lettera per averli. Fauno è da intendersi come nome proprio, non come una specie magica, tipo Mr. Tummus, ma come ancestrale divinità italica ibridata al Pan greco; nel coro di pastori, ideale epigramma di apertura in cui dei pastori invocano il dio chiedendone a ripresa la salvaguardia (Noi pastori tuoi seguaci ti preghiamo, / o Dio che tu protegga noi e le nostre cose, in originale Pastores tua turba te rogamus, / nos et res tueare Dive nostras, con marcata e sacrale allitterazione in questi due versi di ritornello), Bembo lo chiama anche col nome di Incubo, per non perdersene nessuno; incubo perché induce visioni. Attenzione: questo Fauno non è un fauno alla Mallarmé che si sveglia e si accorge di correre il rischio di innamorarsi di un sogno. Il Fauno di Bembo è una figura comica, che insegue vanamente le ninfe di cui è innamorato e da cui riceve un rifiuto dopo l’altro, come nel caso di questo componimento (https://www.skuola.net/versioni-latino/bembo/carmina/libro-unico/fauno-a... ). Spicca l’argomentare affabulante di Fauno, che pezzo per pezzo ricollega le parti del proprio corpo che più possono suscitare ribrezzo a quelle simili e dunque lodevoli di altri dei: il viso arrossato (dal sole) come quello di Febo (Apollo) che è il sole; corna come le ha Bacco (attributo che troviamo in Nonno di PANopoli, oppure, più vicino a Bembo per età, il Bacco con satiro di Michelangelo); peloso come Marte, barbuto come Ercole, e zoppo come Vulcano (per restare in tema) che comunque è sposo di Venere. Come a dire: possiamo ridere di Fauno, senza però dimenticare che non solo è una potenza divina, ma è un mix di divinità; la situazione poi ritorna in caciara negli epigrammi successivi, in cui prendono voce le ninfe che deridono Fauno e quest’ultimo in seguito non riprenderà più parola. Ma queste scene stonano un po’ con il tono solenne e da rituale del primo epigramma: essenzialmente questo Fauno è sì una figura comica, ma soprattutto grottesca, vicina a una di quelle facce di bronzo che mordono il battente sulle porte dei palazzi nei centri storici, o ai musi di leone che stanno alle basi di certe sedie d’epoca, le prime mostruose ma rese innocue e anzi colpite per bussare dagli stessi anelli che stanno mordendo, i secondi altrettanto orribili e ciononostante schiacciati a terra da chi ci sta mettendo il peso per sedersi. Lo possiamo dire grottesco perché rappresenta (e qui siamo con Bachtin) un luogo diverso di produzione di vita, di generatività tramite un capovolgimento delle dinamiche che ci si aspetterebbe: la creatura terribile che viene usata per uno scopo quotidiano, privata dei suoi consueti poteri e investita di nuovi. Questo ha profondamente a che fare con il ruolo che Fauno gioca nel De Aetna. Per Bembo il suo personaggio, il protettore della sua poesia, è il dispositivo da opporre al mondo di Bernardo, che non è disegnato per includere Fauno; se ricordiamo, la digressione sul platano prende spunto dal fatto che un giardino senza platani è un giardino dove non si può invitare Fauno come si desidererebbe. I platani stanno sull’Etna, e Fauno è di casa da quelle parti, come ricorda Bembo stesso: Dicono che quella fonte (nei dintorni dell’Etna, ndr.) appartiene a Fauno: persino Mallarmé chiude il Pomeriggio di un Fauno con la visione del piede (bianco) di Venere sulla lava (rossa) solidificata (nera) dell’Etna (anche nell’epigramma bembiano di cui si parlava prima l’elenco di dei è chiuso da Venere), quindi è come una presenza che Pietro si è portato dietro dal suo soggiorno di studio. Bernardo è come se dicesse: non c’è davvero posto per il tuo fauno qui. E proprio su questa nota si chiude il dialogo, con Bembo padre che dice che non esistono favole vere perché sono tutte false, e con Pietro che ha un momento arguto: dato che tutte le favole sono false, allora una favola falsa è una vera favola. Quindi propone al padre di stare a sentire una favola su Fauno; Bernardo però non ha tempo per queste cose, e prendendo congedo dal figlio si chiude in casa: Ma, poiché il giorno già volge al declino, entriamo nella villa: queste inezie pastorali, però, vanno raccontate sotto le ombre e in mezzo agli alberi, piuttosto che in casa. Avendo lui detto queste cose ed essendo noi già entrati in casa, posi fine al mio discorso; lui, cogitabondo, si diresse in biblioteca. Sottinteso: qui non c’è posto per le tue favole, per il tuo Fauno, né nel giardino fuori (dagli alberi inadatti) né in casa. Ma questo un po’ finale criptico smette di risultare tale se lo si mette in relazione con l’iniziale tendenza del padre a spiegare le cause di un mondo che non ha visto ma che, nonostante sia il figlio a raccontarglielo, pretende di conoscere meglio di quest’ultimo; di certo niente tempo per le favole. Ripeto: Fauno è il dispositivo della favola grottesca che Bembo ha da opporre al mondo ereditato da padre. Il minotauro sulla copertina di Scurau, che prefigura i suoi scenari grotteschi (sempre nel senso di Bachtin) che non sono presenti solo in questo libro, mi spinge a riconoscere nella poesia di Nibali un dispositivo simile a quello di Bembo, e a chiedermi: com’è fatto il Fauno di Nibali? E qual è il mondo a cui lo sta opponendo?

Su come sia fatto questo suo Fauno ci siamo già fatti un’idea: spargimenti di sangue, parti e nascite inquietanti, una grande bestialità diffusa, violenza esibita (da Eucariota: Qui i primi / atti di cannibalismo hai prima rotto il bacino / della compagna poi hai tirato nel sangue la gamba / la coscia si è straziata tra le acacie). Nibali ha questo bel congegno che suscita sconcerto fra le mani, e quando andiamo a leggerlo lo stiamo mettendo in moto. Ma rimane il problema: a che mondo lo sta opponendo?

Pietro Bembo non è mai arrivato fino al cratere dell’Etna: le notizie su quest’ultimo le ha apprese dal resoconto di prima mano del frate Urbano Bolzanio, che gli racconta della bocca del Vulcano. Come per i cavalieri incontrati dal gatto lupesco, la missione che lo porta a scalare il vulcano è fallimentare, lui che non raggiunge la cima, loro che non ci trovano Artù (su Artù nell’Etna almeno questo articolo http://naturalizzazioneditalia.altervista.org/artu-lantico-re-di-un-regn... ): in Scurau, libro dell’eruzione, non c’è posto per i cavalieri normanni di Come dio su tre croci, o come questi che vanno al vulcano e vengono sconfitti. Se però ritorniamo alla prima poesia citata in questo articolo, che veniva da Eucariota e in cui si era già parlato del mondo in eredità, possiamo ritrovare questo immaginario che fa capolino:

 

Nello spogliatoio della piscina c’era un posto

che non ci andavo mai perché era un posto

dove c’era il mistero e io non mi piaceva il mistero.

Quella volta invece ci sono andato, era la zona

dove gli uomini adulti parlavano che erano cavalieri

e sarebbe tornato il tempo dei cavalieri [...]

 

il tempo dei cavalieri che è quello che dovrebbe tornare, stando alle dinamiche della vicenda, nel momento in cui farà la sua ricomparsa Re Artù riportando il tempo delle avventure, che è quando potevano succedere le cose che consentivano ai cavalieri di seguire una, appunto, avventura per perfezionarsi; l’imperfetto da sogno/gioco riallacciato al al mondo adulto/paterno (e penso alla prima sezione di Vangelo elementare, di Gianluca Furnari, alla dinamica del gioco in cui in famiglia il bambino si può interfacciare col proprio genitore in maniera sovversiva ma protetta) è anche quello impiegato dalle grandi narrazioni in prosa in langue d’oïl per raccontare le vicende delle due grandi corti, quella franca e quella bretone, con quei salti nel tempo grammaticale del racconto che a noi risultano estranianti. Nonostante l’idea di un tempo dei cavalieri sia un tema più sviluppato in quest’ultima tradizione, l’immaginario di Nibali dipende in buona parte dalla prima, di area carolingia: lo abbiamo visto con L’ultimo valoroso Orlando, ma ci sono altri esempi, espliciti come in questo caso di Eucariota o nel primo libro: Non ritorneremo a Roncisvalle / ma mentivi - o era Brasilia? / un buco e due cosce di pane / nascoste a Magonza / a tradire le tue lacrime; o una poesia dedicata a un Ruggero d’Altavilla trasfigurato; del resto, che la Chanson de Rolande fosse un gioco di infanzia fatto col padre ce lo dice Bernardo Pacini (non Bembo) nella postfazione, oltre all’esergo di una poesia firmata dal padre: Ora ascoltami: si fa rosso / il tempo spadaccino dei nostri / normanni siciliani e cupo il cilicio / che devo lasciarti alla schiena [...], che ci fa subito pensare al tempo dei cavalieri che apre l’ultima sezione dell’ultimo libro di Nibali. Considerando questo fatto, e la seconda parte della poesia, viene da pensare che il mondo a cui Nibali oppone il suo Fauno anti-eroe abbia a che fare almeno in parte con quello ultra-codificato dell’epos cavalleresco, che sta lì a indicare un mondo adulto e valoroso nel senso di abbondante di valori, di norme (e qui potremmo sprofondare nella norma-serpe del Galateo in bosco dove Zanzotto insegue il mondo fatto di norme, che siano nella vita sociale o nella composizione in versi, del Della Casa, seguace di Bembo, e noi ritorneremmo al De Aetna, e avremmo fatto il giro), ma anche, e forse soprattutto, sorretto da una mascolinità esasperata e brutale nella sua violenza: apro a caso una scena di battaglia dalla sezione sulla Marca di Gallia del Lancillotto del lago dal ciclo della Vulgata: Lo colpisce allora con la spada sui denti, che ha tutti scoperti e insanguinati, e lo trancia fino alle orecchie e dice che Dio lo abbandoni se, non avendo altro modo di vincerli, si tratterrà dall’ucciderli per pietà di loro. E quello cade a terra.

 

 carcasse, visi morti: si agita luce nei cavi, / un màglio sfronda il consorzio umano e / ne nascono. Ne muoiono. Quest’ultimo passaggio viene sempre da Scurau, lo abbiamo già incontrato prima. Ovviamente non dico che questo modo di raccontare la violenza al tempo presente indicativo sia prerogativa della letteratura cavalleresca, che la riprende dall’epica latina, che la riprende dall’epica greca, che la riprende non so da dove nel nulla dei filologi; però è interessante riscontrare nella poesia di Nibali questa convergenza di mondi e linguaggi, capire che questo suo Fauno entra nel linguaggio del mondo a cui si oppone, non tanto per decostruirlo ma per depotenziarlo: come il Fauno di Pietro conquista passo a passo il luogo su cui Bernardo prova a esercitare la sua supremazia nel sapere. Nibali fa qualcosa di simile con il mondo dei cavalieri e le atmosfere grottesche ed eroticizzate che ci introduce; l’innovazione che immette in quel consolidato sistema di violenza serve a renderlo una cosa sessuale (da qui la presenza ricorrente di madri partorienti, placente e fluidi). Come nel De Aetna, il campo di battaglia è sempre il vulcano (L’eroe non si muova mentre / i nostri futuri tu e io lo esaminano e la lava / si raffredda s’indura e si fa pietra la Terra / in un tempo [rieccoci col tempo, ndr] che è uguale e diverso da ogni tempo [..]”, da Eucariota), la catastrofe feconda (Bembo si sorprende di quante piante crescano sulle pendici dell’Etna). E così penso a Jogo di Jujutsu Kaisen (cercatelo) che è un ciclope col mantello maculato (da lince, leopardo, e siamo di nuovo al gatto lupesco che guarda nell’oscurità) che sulla testa ha un piccolo vulcano, incarnazione della paura dell’umanità verso le catastrofi naturali: ma se aguzziamo un po’ la vista vediamo che a quel vulcano si sovrappone pericolosamente per forma l’iconica torre di raffreddamento di una centrale nucleare. In Eucariota Nibali trasforma l’Etna in una centrale nucleare, in particolar modo quella di Chernobyl che diventa spazio del post-catastrofe e soprattutto il luogo in cui riesce a fare i conti col sistema mondo. Se in Scurau avevamo trovato Né esiste / il mondo fuori dal mondo, anche se piange la donna / con le gambe sbucciate sul sudario e anche strappa / e graffia cotenna intorno dai maschi adulti, questa scena in cui nonostante la scena macabra raccontata non esiste un mondo, del quale pure sentiamo la necessità, che sia fuori da questo sistema in cui ci si trova ad agire, invece l’ultima sezione di Eucariota, con il suo tour allucinato per Chernobyl, tra pesci grossi come gatti, un contesto corale di turisti da tutto il mondo, o meglio, da Giappone e America, due estremi del nostro planisfero, Oriente e Occidente, in mezzo Chernobyl, e una compagna di viaggio, senza nome, che entra nel sarcofago di acque radioattive (un po' alla un'anti-Gita meridiana di Mussapi) e prende la voce solo nel momento in cui dissolve sono entrata dentro di me che sono dentro (penso alla Serie del passato remoto di Giulio Mozzi che si apre con una simile anti-nascita di Venere all’insegna della dispersione nella schiuma e non della concentrazione di questa), riprende il problema di Nibali dell’assenza di un mondo fuori da quello ereditato e si chiude con questa poesia: 

Non cessiamo di stupirci che la carne

possa essere alimento per chi ha carne 

tra loro si chiamano coi versi quando vengono 

mutilati o uccisi e bisogna mangiarli, offrirli

tagliare loro la testa e i piedi divorarne le membra

fatte in pezzi, pasteggiare con le viscere calde

e le frattaglie, mentre conserviamo i resti 

sotto le pietre.

È cosa ripugnante e proibita nutrirsi di carne di donna

in quanto veniamo tenute alla stregua di galline

pecore e mucche, cioè per procreare. Nel sarcofago

al coperto, cose di polpa noi siamo vive.

Tumulate abbiamo trovato il silenzio

nel silenzio abbiamo scoperto i suoni.

Non esiste più male. Niente esiste.

 

Questo testo lo vediamo articolato intorno a due negazioni, in apertura di primo e ultimo verso (non cessiamo, non esiste): nel primo verso c’è lo stupore per una reciprocità che sembra essere però finalizzata alla reciproca distruzione, che quindi è autodistruzione. Fino al primo punto c’è un catalogo della scissione e della re-integrazione della carne nella carne; il secondo periodo ci fa capire che sta ancora parlando la compagna senza nome di prima, ma proiettata in un coro più ampio; invece, la sezione di chiusura abbraccia l’autoannullamento, e risolve il problema dell’assenza di un mondo fuori dal mondo in questa maniera: dato che non esiste un mondo fuori da questo, allora neanche questo deve e può esistere. Come se all’apice del libro, quando stanno venendo a galla tutti i principali elementi della poetica di Nibali di cui abbiamo parlato fino a questo momento, lui decidesse di moltiplicare tutto per zero. Lo zero trasforma in zero gli altri numeri perché, ovviamente, li annulla; tuttavia, annullare per lo zero significa rendere uguale a se stesso un’altra cosa, ed è quello che succede anche a Nibali, che orchestra questa voce femminile e poi lascia che venga annullata dalla zero del mondo. Il sistema libro qui diventa pericoloso, e infatti qui finisce: Bembo non vede il cratere dell’Etna, i due cavalieri bretoni non trovano Artù, il gatto lupesco si pianta nell’oscurità del luogo selvaggio, e rimane a guardare l’ultima bestia del deserto, la gran bestia baradinera, che nessuno sa che animale sia, tanto che gli studiosi azzardano niente di meglio che un gioco onomatopeico (che significa: siamo a corto di idee); “quando la musica si ferma i tamburi tacciono e si aprono / gli occhi della bestia. Indossa un copricapo d’ossa / esce dalla tenda forte e bello come Cristo / batte sul cuore una due volte / per partecipare alla specie; Controllano sotto il becco dei passeriformi, / gli uomini del parco [di Chernobyl, ndr.], nessuno uguale all’altro / ogni animale qui è sempre uno soltanto / differente, distinto dalla specie, Nibali presenta come soluzione al problema di essere distinti dalla specie quello di uniformarsi allo zero della dispersione, come Pusterla che chiosa Sartre con l’inferno è non essere gli altri. Implicitamente: il paradiso, il mondo fuori dal mondo, sarebbe essere gli altri, impedendo al male, alla gran bestia baradinera, di frapporsi fra i singoli, impedirgli di esistere.

Ma come soluzione non tiene, e la poesia di Nibali rimane sull’orlo del cratere, con la responsabilità di completare il suo viaggio e di non annullare quello che c’è nel vulcano, e che ha contribuito lei stessa a mettere nel vulcano, facendone uno zero che ci mette tutti in pace, ma piuttosto di salvarlo.