Giovanna Cristina Vivinetto / Poesie inedite

Di ritorno a casa, nel cortile dove legano le bici / senza farmi vedere mi sono piegata nel buio. / Nel buio ho lavato la mia notte con la sua.
18 Settembre 2025

 

 

Dentro ogni cosa cerchi l’aperto e l’estremo,
la parte insommergibile, la pietra ferma
nel fondale.

 

Dal centro di un tempo lontanissimo
ti sei sentita in difetto con la tua rabbia.
Eppure bastava fare qualche passo indietro,
spingere la schiena contro l’ultima barriera,
contro la sera – per vedere nitidamente
il punto inevitabile dove ogni tormento svapora
e si confonde con il bordo più nero del mare.

 

Hai cercato per anni questa angolazione
e non ti sei accorta che era lì, conficcata
nel buio che hai attraversato per andartene.

 

Ora sai che non esistono luoghi
ma solo esitazioni dentro l’intollerabile
prospettiva di un’isola, tentativi che la mente
impone a se stessa per dire:
ti sei mossa da qui – ti sei mossa
ma non ti sei salvata.

 

 

*

 

 

Oltre questo segno non posso andare.
Non c’è traccia di ruggine ma un gomito
terso di cielo alto e senza compassione.
La vita che ho desiderato talvolta mi abbaglia.
Cosparge una luce polare nello spazio,
lo frantuma e il corpo alzandosi col suo peso
scava una nicchia nel buio che avanza
tra il comodino e la cesta di panni da lavare.

 

L’angustia della mente deforma il piano
di realtà dove agisco e penso e sono ancora
una. Prima non c’era ma adesso esiste
la possibilità che tutti i miei io di polvere,
tutti gli involucri di pelle lavati dal sonno,
possano ritornare sotto forma di statue
senza vento o fili di ferro perennemente
appuntiti contro lo sterno.

 

Forse per questo una volta eravamo
uccelli maestosi contro lo sconcerto
della notte o miti animali fermi nello spavento,
piccole capre, serpenti, rane di fiume,
creature senza la coercizione di una lingua,
silenziose sempre.

 

 

*

 

 

Non avevo che qualche ossuto strumento
per parlare – stare insieme agli oggetti,
farne cunicoli, canali di scolo dove
scorrere, diluirmi o restare in silenzio dilatandomi
dentro l’acqua. Potevo chiamarli
oppure allontanarli ma non potevo uscire da me.

 

Per guardare c’erano cose minuscole
che non gridano vendetta – piume, spille,
fogli dove talvolta si screziava un verbo.
Potevano vedermi per come ero, vera
e imprendibile, veloce come margini di bufera.
Eppure come ero, non lo ricordo più.

 

Attraversare le stanze, ripercorrerle
avanti e indietro, piegarsi sul pavimento.
Nel movimento la polvere si stacca dagli oggetti,
si innalza verso un punto di pace tra la finestra
e il buio. C’è stata una tristezza qui, è vero,
e ora sai soltanto la sua distanza, la nebbia
che si è posata su ogni cosa vista, toccata.

 

Anche oggi abbiamo avuto corpi mortali,
corpi difettosi ma alti, pieni di luce e di vento.

 

 

*

 

 

Ho costruito un altare per ogni separazione.
Non la morte ma un suono più tenue
come l’incrinarsi cupo del ghiaccio sotto i piedi.
Chiamavo e voi in risposta accorrevate
perché non sapevate fare altro che rispondere.
Il mondo lassù era di una lucidità opprimente.
Qui potevo avere nomi che non raschiassero
ma una penombra come un sasso dentro l’acqua di fiume.
Opaca ma fitta di peso. Chiusa nel fondo. Esausta.
Il rovo, l’albero nella luce, il nodo che si scioglie
se lo tocchi. La vita che è seguita è stata
questo ricompattarsi di masse lontanissime
con galleggianti verde smeraldo sulla superficie.
Avrei potuto unire i punti come segni su una mappa.
Avrei scoperto dove conduce il dolore.

 

Ma non c’è niente che possa ferirmi
in questo rettangolo di terra in cui mi sdraio,
nessuno che possa dirmi: alzati, sciocca,
lei non vive più ma danza leggera sulla sabbia
e ti soffia i granelli sugli occhi con il suo
andarsene, la sua assenza ti rimane schiacciata dentro la gola.

 

Di ritorno a casa, nel cortile dove legano le bici
senza farmi vedere mi sono piegata nel buio.
Nel buio ho lavato la mia notte con la sua.

 

 

 

 

Fin dal primo di questi testi inediti di Giovanna Cristina Vivinetto chi legge è chiamato a discutere un dato esistenziale che riguarda ciascuno: "Dentro ogni cosa cerchi l’aperto e l’estremo, / la parte insommergibile, la pietra ferma / nel fondale".

 

L'atmosfera è nostalgica e un po' inquietante, del tutto estranea, quasi ostile alla materia trattata. Rimanda alle stanze d'infanzia, ai luoghi abbandonati, alla dimensione del sogno o del ricordo fittizio. Vengono quindi ripresi alcuni dei temi dell'ultima silloge dell'autrice, Dove non siamo stati (Rizzoli, 2020), anche se ad occupare un ruolo centrale è di nuovo il discorso relativo all'identità, già trattato in Dolore minimo (Interlinea, 2018). La lingua però è molto diversa: Vivinetto fa un uso estremo dell'analogia, in favore della quale la metafora viene quasi del tutto abbandonata. La sua nuova poetica risulta quindi dichiarativa senza cedere a soluzioni facili, oracolare senza mai indulgere in un'oscurità semplicistica. Se il personale/lirico in Dolore minimo era necessariamente politico, adesso è esistenziale.

 

Anche se inizialmente sembra che il corpo occupi uno spazio centrale:

 

Non avevo che qualche ossuto strumento
per parlare – stare insieme agli oggetti,
farne cunicoli, canali di scolo dove
scorrere, diluirmi o restare in silenzio dilatandomi
dentro l’acqua. Potevo chiamarli
oppure allontanarli ma non potevo uscire da me.

 

in realtà la mente è altrettanto protagonista:

Ora sai che non esistono luoghi
ma solo esitazioni dentro l’intollerabile
prospettiva di un’isola, tentativi che la mente
impone a se stessa per dire:
ti sei mossa da qui – ti sei mossa
ma non ti sei salvata.

 

Quando si scrive di fuggire da se stessi è impossibile non pensare ai versi più celebri di Torquato Tasso, dal XII canto della Gerusalemme Liberata: "Temerò me medesmo, e da me stesso / sempre fuggendo, avrò me sempre appresso", talvolta attribuiti erroneamente a Seneca o a Petrarca sui social network. Vale la pena soffermarsi sul periodo immediatamente precedente: "Paventerò l’ombre solinghe e scure / che ’l primo error mi recheranno innante; / e del Sol, che scoprì le mie sventure, / a schivo ed in orrore avrò il sembiante". Anche in Tasso il metaforico e il letterale spesso si sovrappongono, tanto che il canto si apre così: "Era la notte, e non prendean ristoro / col sonno ancor le faticose genti". Le ombre quindi non sono (solo) quelle della mente ma ombre umane, molto più terribili perché assomigliano alla nostra figura. Anche le poesie di Giovanna Cristina Vivinetto si svolgono di notte, nel buio dove pensiero e azione si confondono:

 

Di ritorno a casa, nel cortile dove legano le bici
senza farmi vedere mi sono piegata nel buio.
Nel buio ho lavato la mia notte con la sua.

 

Benché in questi testi emergano similitudini con la prima Antonella Anedda (e soprattutto con Marian Moore), credo che il discorso portato avanti da Giovanna Cristina Vivinetto sia del tutto originale nel panorama poetico italiano. È dal secondo novecento che, sul piano filosofico, le tematiche esistenziali si intersecano alle questioni di genere, specie quando si parla di differenza. Se per Simone De Beauvoir il femminile era relegato a una posizione di Altro rispetto all'uomo, poiché le donne non nascono ma diventano tali per cause socioculturali, per Andrea Long Chu il discorso si sposta sul piano ontologico: "il femminile è un sesso universale definito dalla negazione del sé, contro cui ogni politica, incluse le politiche femministe, si ribella. Più semplicemente: tutti sono femmine, e tutti lo odiano". I presupposti da cui parte non sono così distanti dal lamento di Tancredi, che dichiarava di avere in orrore il sembiante, l'altro diverso e uguale a sé, ma le conclusioni sono radicalmente diverse: tutti gli esseri umani sono esistenzialmente femmine ed esperiscono, almeno una volta, la condizione di femminilità intesa sia come sacrificio ritualistico culturalmente motivato, sia come Alterità assoluta, anche se non si identificano come donne. Se tutti odiano essere donne, tutti vogliono essere donne, essere Altro, esistere come qualcosa di estraneo, alieno e affascinante. La difficoltà sta nel fatto che si vorrebbe essere solo desiderati per la propria diversità, anziché reificati e respinti. Da questo nasce la condizione di "deiezione" in cui si trova immerso l'essere umano. Se per Andrea Long Chu la transessualità diventa una lente di analisi, per Paul B. Preciado è una soluzione a quello stesso problema che si poneva Tasso, poiché "non imita niente", ma mette in luce quel principio radicale d'indeterminazione che caratterizza la nostra ontologia, "il bisogno di essere sottomessi a un processo costante di costruzione e decostruzione sociale", abitando tanti futuri possibili. "La soggettività è solo la forma e non il contenuto della filosofia"– potrebbe dirsi lo stesso per la poesia, almeno per quella di Vivinetto. Quanto affermato appare evidente nella tensione tra singolare e plurale, tra prima e seconda persona. Infatti, quando Vivinetto scrive: "L’angustia della mente deforma il piano / di realtà dove agisco e penso e sono ancora / una", è consapevole di quanto la percezione di sé dipenda dalla lingua, da quello stesso strumento fragilissimo con cui lavora. "Una volta eravamo (...) creature senza la coercizione di una lingua, silenziose sempre", e anche: "corpi mortali, / corpi difettosi ma alti, pieni di luce e di vento". In questo scarto sta tutta la nostra libertà, la nostra possibilità di autodeterminazione, di abitare più futuri possibili e riaffermare tutto il nostro passato, anche quello più antico e più lontano.

 

 

 

 

Giovanna Cristina Vivinetto (Siracusa, 1994) vive a Roma, dove si è laureata in Filologia moderna all’Università La Sapienza con una tesi sulla poesia di Franco Buffoni. È insegnante di ruolo nella scuola secondaria. Dolore minimo (Interlinea, 2018) è il suo libro d’esordio, primo testo in Italia ad affrontare in versi il tema della transessualità e vincitore di numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio Viareggio Opera Prima. È stato tradotto in lingua spagnola e in lingua inglese, vincitore negli USA del Malinda A. Markham Translation Prize e semifinalista al PEN America for Poetry in Translation. Ha inoltre ispirato la serie televisiva Prisma, disponibile su Amazon Prime Video e, dal 2025, su Rai Play. Dove non siamo stati (BUR Rizzoli, 2020) è il suo secondo libro, vincitore dei premi Città di Massa, Casentino e San Domenichino, attualmente in corso di traduzione per la pubblicazione negli USA. Apparsa in molte antologie in lingua e in traduzione, è stata inserita tra gli autori dell’antologia destinata ai licei Controcanone. La letteratura delle donne dalle origini a oggi (2022), curata da J.L. Bertolio per Loescher Editore, ed è stata inclusa tra le quarantadue voci femminili nel volume Parole d’altro genere. Come le scrittrici hanno cambiato il mondo (2023) curato da Vera Gheno per l’editore Rizzoli.