Etica del poeta minore

Leggere oggi Giovanni Filoteo Achillini (1466-1538)
17 Novembre 2023

 

A Mario piace leggere i poeti cosiddetti minori delle varie epoche perché lo interessa affiancare, alla lettura dei poeti veramente grandi, la lettura di quei poeti minori che attorno ai maggiori fanno, per così dire, da contorno e da paesaggio. In verità lo affascina l’idea che un poeta possa essere considerato un poeta minore, che il mondo dei poeti si divida in poeti maggiori e poeti minori, e non ad esempio in buoni poeti e cattivi poeti: anche un poeta minore è un poeta a tutti gli effetti, pensa Mario, è un poeta a tutto tondo, un vero poeta, i cattivi poeti non esistono, esistono i poeti e i non poeti, e i poeti si dividono in maggiori e minori.” In Le ripetizioni Giulio Mozzi dedica alcune pagine (dalla 132 in avanti) al rapporto tra i fantomatici poeti maggiori e quelli minori, riconducendo la frequentazione di questi ultimi a un preciso atto d’amore. Io raccolgo questo spunto e lo riconduco alla mia frequentazione del bolognese Giovanni Filoteo Achillini, vissuto fra fine Quattrocento e inizio Cinquecento, che i più ricordano per la sua notevole collezione di antiquarie, meno per i suoi versi, e che io ricorderò come l’autore a cui ho dedicato (o immolato; o consacrato) un anno di studio per elaborarci una tesi. Arriva il momento di rendere conto di questo impegno preso nei confronti di Achillini, che di certo non si esaurisce nel semplice individuare nelle sue opere corrispondenze interne, modelli e percorsi sotterranei, cosa che comunque ho fatto ma che ora non mi interessa condividere; invece, per adempiere alla promessa stretta, occorre fare i conti con Achillini e consentire, a ben vedere, proprio ad Achillini di fare i conti con il tempo in cui l’ho letto, soffermandomi su tre domande che fanno da sfondo al resto dell’articolo: cosa c’è al cuore dello stile di Giovanni Filoteo Achillini; cosa ha da dirci sulla letteratura contemporanea; perché ha senso soffermarsi su un poeta minore.
Rimando per le info biografiche e non alla voce del dizionario biografico degli italiani curata da Teresa Basini (qui: https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-filoteo-achillini_%28Dizio... ) ideale guida spirituale di questo articolo assieme agli altri studiosi e studiose che hanno consacrato il loro impegno verso quello che, a tutti gli effetti, è un poeta minore che nel fare i conti con la sua fortuna presso i posteri è stato sconfitto clamorosamente: ha composto una selva di rime che esiste solo in forma manoscritta, alcune epistole satiriche, e soprattutto due ponderosi poemi didascalici: un romanzone di argomento mitologico in ottave, chiamato Viridario, andato felicemente a stampa, e il Fidele, rimasto infelicemente inedito, nonostante l’ambizioso (e riuscito) disegno di scrivere un poema in terzine  sul modello dell’oltretomba dantesco in cui figura come compagno di viaggio Dante e che è mille versi più lungo della (Divina?) Commedia. Ad accomunare il tutto l’ossessione didascalica: non è senza un certo grado di disordine assoluto che Achillini sciorina lo scibile dell’epoca disseminandolo in trattazioni sapienziali interminabili ma non accessorie. Le sue opere poetiche, da questo punto di vista, rappresentano un serbatoio geniale di cultura e sapienza che nei casi migliori non risulta calata dall’alto, bensì calata in un contesto vivace e personale. Qui la battuta pronta è dietro l’angolo, il dettaglio umanizzante sempre in agguato: fa arrossire Dante dopo averlo accusato di aver copiato il Convivio da un’opera di cui lui è il solo ad averci mai dato notizia, il fantomatico Consesso di Guido Guinizzelli, e muove tale accusa facendo parlare lo stesso Guinizzelli, mentre Petrarca ride della situazione; per favorire la memorizzazione di frasi con “et” consiglia di immaginarsi i personaggi che stanno rappresentando i termini uniti dalla copula impegnati, appunto, a copulare; chiude una eterna e dottissima digressione sulle arti magiche ricordando al lettore che il miglior incantamento per conquistare l’amore di una donna è ricoprirla d’oro e argento; è grato a Dio e Maria di essere nato umano, maschio e, soprattutto, bolognese. Ma le opere più discusse di Giovanni Filoteo Achillini sono un tempio di rime (una antologia, tempio eretto dai singoli mattoni-componimenti) formato da testi di autori da tutta la penisola e oltre in ricordo del poeta allora celebre, e allora da poco morto, Serafino Aquilano, e un trattato che nel 1536, tardivamente rispetto al canonico 1525 delle Prose di Bembo, riafferma una posizione cortigiana (dunque per una lingua ibrido-locale) rispetto alla questione della lingua.
Piuttosto che toccare le ragioni del successo di queste opere (riscontrabile sul piano bibliografico: nella maggioranza dei compendi di storia letteraria l’Achillini si è guadagnato qualche menzione esclusivamente in virtù di queste opere letterarie, per il loro fortunato, o calcolato, coincidere con questioni di grado “maggiore” come la questione della lingua o la ricezione di Serafino Aquilano presso i suoi contemporanei), vorrei evidenziarne una particolarità: entrambe, infatti, presentano un comune dato strutturale che riguarda il posizionamento dell’Achillini all’interno di queste. Nel tempio di rime, il posto di rilievo è dato all’Aquilano, naturalmente, e a tutti i poeti che hanno contribuito coi loro testi; ma tra questi, naturalmente, l’Achillini ricopre un ruolo di maggiore autorevolezza, in quanto mente dietro alla raccolta, e dunque una posizione centrale e al contempo defilata. E allora non può essere un caso che la sezione più nota del suo unico poema in versi andato a stampa sia quella in cui fa un lungo elenco di illustri personaggi bolognesi e di letterati italiani coevi. Si tratta di un’operazione inversa rispetto alle collettanee (che sagacemente in questa sezione non manca di riportare all’attenzione dei lettori con un envoi rivolto alla figlia di Serafino Aquilano): invece di riportare molti testi di diversi autori per un autore, propone un solo testo di un autore (se stesso) per molti autori. Di nuovo: una posizione defilata, dal momento che pone altrui virtù all’attenzione del lettore, ma centrale, dato che la scelta di chi esporre e chi no rimane sempre dell’Achillini. La stessa cosa avviene nel dialogo sulla lingua: in ossequio alle tendenze del genere, l’Achillini non è presente nel dialogo, ma si trova nella sua villa a Sasso (oggi Marconi) intento a comporre poesie; tuttavia, i personaggi lo chiamano in causa di continuo, ne espongono le idee, lo rendono il protagonista assente trasformandolo in un argomento di conversazione. E sembrerebbe che sia stato questo il suo risultato principale, rendersi argomento di conversazione: Achillini è stato uno specialista nel far parlare di sé, che si trattasse di imprese letterarie, della sua strabiliante collezione di antiquarie, dell’Accademia del Viridario, delle sue doti musicali, o delle sue conoscenze linguistiche, che sicuramente avranno suscitato qualche stupore nei suoi contemporanei. Ma oggi la sua collezione è dispersa, delle sue doti linguistiche e musicali restano poche testimonianze, non si hanno praticamente notizie delle attività dell’Accademia, e le sue opere si sono rivelate un flop, tanto che il suo secondo poema, nelle sue intenzioni il capolavoro della sua carriera, è sopravvissuto solo in due esemplari manoscritti, peraltro incompleti. Si intravede dietro le opere di Filoteo un incessante impegno nell’autopromozione che si concretizza nella ricerca di convalide individuate andando a colpo sicuro, come se l’argomento illustre e dotto fosse di per sé sufficiente per fare illustre la sua poesia, che tuttavia non è senza valore o interesse, anzi. I suoi versi sono carichi di potenzialità che rimangono in secondo piano per via dell’esigenza di accontentare un certo tipo di lettore che, nel momento in cui l’Achillini ha perso di influenza e di capacità autopromozionale (ricordiamo che potrebbe aver fondato la più antica Accademia italiana) si è rapidamente estinto.
L’aspetto più forte, comune a tutte le sue opere, è l’ossessione: gli elenchi che stila non sono di durata ragionevole, e rispetto all’intento di condividere sapere con i lettori, frastornati dalla mole immensa di versioni alternative sulla nascita delle città italiane (come accade nel Fidele), si rivelano assolutamente controproducenti; ma rispetto all’intento di orchestrare catalogazioni manicali sono ammirabili e riuscitissime. Anche nelle sue poesie, Achillini si comporta come se avesse a che fare con una collezione di antiquarie: dispone le parole per sonetti, ottave e terzine come se le stesse ordinando dentro teche o scaffali, che danno il meglio non se esaminate una ad una, ma se colte in una volta sola, apprezzando le corrispondenze fra diversi ripiani, le sequenze ripetute, i contrasti. Come in questo sonetto sulla scrittura:

 

Ho scripto, scrivo e scriverò d’amore

se’l mio scriver scrivendo ascrive pace.

O mia scripta scriptura fatte audace

e scripta pace scrive pel scriptore.

 

Se ben scrivendo scrivo il mio dolore,

scriptura scripta scrive o scriptor tace.

Scrivendo scriverò il scripto fallace

che mi scripse chi io ho scripto in mezo il Core.

 

Scripta scriptura scripta per mio male

non te scriver per me scripta scriptura,

scrivete scripta in scripto homicidiale.

 

Per che mia scripta è scripta, scripta cura,

la qual ch’io ho scripta: e scriver non mi vale,

e tua scripta mi è scripta sepultura.

 

 

Di casi simili i versi di Achillini abbondano, ma difficilmente questa cifra stilistica riesce a diventare qualcosa di più di un estro creativo e farsi completamente programmatica, soffocata com’è dall’ansia progettuale di imporsi all’attenzione calcando modelli sicuri, schemi assodati. La vicenda letteraria di Achillini lancia alla scrittura contemporanea, in particolare quella poetica, un monito molto preciso: in un sistema dove l’autopromozione è diventata componente strutturale e i lettori pare quasi di andarseli a cercare uno a uno di persona tra festival, laboratori e presentazioni di libri, l’esempio della carica ossessiva della poesia di Achillini che finisce sommersa e diluita dall’eccesso di zelo nel completare un progetto studiato a tavolino per essere appetibile a un lettore raro (in quanto si è concorsi in primis nella sua creazione) è un avvertimento molto concreto. Così anche l’elenco di poeti bolognesi nel Viridario e il tempio di rime ricordano dinamiche da antologia o quaderno collettivo, con il rischio, come nel caso specifico dell’Achillini, che a sembrare più rilevante non sia tanto ciò che è stato scritto, ma solo il fatto di averlo scritto. un’ultima osservazione sul riuso di termini specifici nelle opere in versi di Achillini la si può fare seguendo la parola “chiave”. Quest’ultima, che non è una parola frequente del vocabolario di Achillini, si ripropone sia nel Viridario che nel Fidele secondo modalità praticamente identiche; ma prima di considerarle preferisco riportare un lacerto dalle rime giovanili, dove in un altro sonetto sulla scrittura si menziona: chi per altra chiave / verga sue note. Qui la chiave è una chiave cifrata, che non apre ma chiude il senso delle parole, tenuta a mente dal poeta nel momento in cui compone i propri versi e che nel contesto del sonetto è sinonimo di difficoltà e di oscurità. Allora la mezione di una chiave nella sede proemiale sia del Viridario che del Fidele è un riconoscimento di una analoga oscurità nelle proprie opere, dichiaratemente difficili; tuttavia, questa volta la chiave viene consegnata al lettore e diventa una possibilità di apertura: 

 

Pertanto eccoti la disserrante et ingegnosa chiave de la chiusa porta la quale aprire non ti gravi, et in quello [giardino, cioè lo stesso Viridario] a tuo libito e piacere senza alcuno mio respetto entra. (dalla dedicatoria del Viridario)

 

Perhò disserra con la fidel chiave

l’oscuro ingegno tuo serrato et chiuso

ch’io farò leve il gran principio grave. (dal primo canto del Fidele)

 

È interessante notare i cambiamenti e gli spostamenti da un passaggio all’altro; se nelle rime la chiave è generica e non attribuita ad alcun autore nello specifico, nel Viridario la chiave è ingegnosa ed è Achillini stesso a fornirla all’ideale lettore che potrà quindi avere accesso all’opera. Soprende allora che nel Fidele a ricevere la chiave sia Achillini, e che la chiave non sia ingegnosa ma fidel, volta a disserrare proprio l'oscuro ingegno che nel Viridario era la chiave di lettura, con la sua ingegnosa chiave; non è più il libro a essere oscuro, ma la mente dell'autore personaggio, che deve svelare a se stesso le vie contorte della propria opera. Qui si ritorna all’ansia da ricezione di Achillini, che escogita opere oscure ma desidera a tutti i costi che vengano capite pienamente senza alcuna ambiguità: da qui il bisogno di precisare nel minimo dettaglio la natura della chiave per accedere al significato progettuale del poema, che però corre il rischio dell’eccesso di chiarimenti. Sembra che Achillini voglia comporre opere difficili e oscure, ma che si preoccupi talmente tanto di farci sapere di aver scritto con difficoltà e oscurità da sfociare inesorabilmente nell’esposizione dottrinale più mascherata che cifrata. Eppure Achillini dispone degli strumenti necessari per compiere un’operazione simile, che rimangono in ombra rispetto all’esigenza di guadagnarsi plauso dei contemporanei: la sua opera si muove attorno a questi due fuochi, ed è chiaro quale sia diventato poi quello predominante. Ma la presenza dell’altro fuoco, che viene spesso eclissato ma non cancellato dal bisogno di riconoscimento, resta percepibile nell’opera di Achillini e mantiene il suo potere di attrazione, riconoscibile nel momento in cui ci si accosta alla sua produzione.

Non è un caso che la Confusione personificata sia il pericolo principale a cui Achillini cerca di sfuggire nel Fidele: l’abbondanza di stimoli e direzioni in cui portare la propria opera, l’ansia di produrre la chiave adatta e interessante per il maggior numero possibile di lettori disperdono l’impegno messo nella stesura in versi. Il monito che arriva dalle opere e dalla diffusione di Achillini rimane invariato per la società letteraria contemporanea, che, andando dietro al progetto di soddisfare le esigenze di micro-gruppi di lettori e le loro logiche cortigiano-aziendali di potere e celebrazione, non può sperare in risultati altri dall’essere letta quel tanto che basta a far parlare di sé e meritarsi una fugace menzione per questo nell’indice di un generoso manuale di storia letteraria. Ritorniamo così ai poeti maggiori e minori, e mi chiedo: chi è arrivato prima? Sono gli autori maggiori a generare i minori, oppure i minori a generare i maggiori? Dobiamo capire se preferiamo adottare un sistema in cui guardiamo ad alcuni autori talmente eccellenti da rendere tutti gli altri inferiori, oppure un altro in cui da una miriade incalcolabile di scritture ne sono emerse alcune rispetto alle altre. La scuola ci abitua a padroneggiare il primo sistema: niente è all’altezza (quindi è una questione di statura) di Dante o Leopardi: la tradizione come paletti piantati in fila uno dopo l’altro, con la presunzione di essere statica e inamovibile, ignorando gli smottamenti del terreno che la possono riconfigurare in modi inaspettati (come nel caso delle già citate Prose di Bembo che contribuiscono a screditare l’opera in versi di Boccaccio, nonostante sia padre dell’ottava). La seconda concezione guarda alla tradizione come a un Averno, dunque un lago che copre tutti i morti (scrittori) che riescono occasionalmente ad emergere, nel senso letterale del termine. C’è chi riesce a stare di galla più a lungo, chi si sporge di più (quindi è una questione di posizione), ma si tratta di uno stato temporaneo, per non dire precario, che pure per questo non perde di valore. Studiare i poeti minori è un atto d’amore che risponde a una richiesta (quella dell’autore) di attenzione che ha un’evdenza e un’urgenza che non potrebbe essere espressa con maggiore chiarezza. Rispondere a questo appello è un gesto di totale e concreta disponibilità verso un altro, e in quanto tale ha una fortissima valenza educativa: in primis verso se stessi, dal momento che ci si abitua a prendere sul serio una scrittura poetica come se fosse quella di un autore maggiore e quindi disponendosi nel migliore dei modi per coglierne la portata che emerge (come detto sopra) dalla superficie apparentemente omogenea dei minori. Ma non è secondario il fatto che così facendo si stia partecipando al compimento di un destino, quello del poeta, di Achillini in questo caso, che mezzo millennio fa ha composto con l’esatta speranza che accadesse ciò che accade nel momento in cui viene letto, introiettato e quindi rimesso in circolazione, e avere la possibilità di fare un dono simile a qualcuno scomparso da cinquecento anni aiuta, e questo è l’aspetto più importante, a fare questo dono anche a chi scrive oggi che ha un identico, se non più drammatico perché in fieri, bisogno di adempimento del destino della propria opera.