Davvero noi dobbiamo qualcosa a chi ci ha preceduto? Magari a un anziano familiare, oppure alle leggi che hanno fissato per noi quelli che oggi sono, letteralmente, dei morti; o forse a una millenaria tradizione letteraria? Recentemente edito da Garzanti, Mario Santagostini, questa volta autore del Libro della lettera arrivata, e mai partita, affronta questo problema riuscendo a coniugare da una parte la consueta speculazione in versi, sulla scia, per esempio, dell’ipotesi riguardante l’esistenza di due paradisi in Nuove poesie (1999) («forse, il paradiso è anche / un paradiso più alto / due paradisi più alti, l'altezza pura, / la vita normale allontanata / dall'idea del bene»), dall'altra un nuovo ritmo del discorso poetico, scandito dalla presenza ricorrente di coordinate disgiuntive che conferiscono un’atmosfera di dubbio e incertezza. Ecco solo alcuni esempi:
«E anche l’eterno / è un ripiego. O lo è stato una volta. / Anche il silenzio ? Sì. / Non sono come vogliono, o non ancora.» (pag. 12); «– Nella piazza alla periferia nord, o su una spianata con gli altoparlanti inchiodati agli alberi, tirano su un palco. O lo stanno smontando.» (pag. 51); «E una città celeste è abitata da corpi densi, pesanti. O già argentati. Per questo luccicano, o splendono, come delle gibigiane.» (pag. 95); «O quelle contrazioni erano / l’ultimo linguaggio / del corpo. O già di qualcosa d’altro.» (pag. 130).
Questo accorgimento sintattico trova un corrispettivo nella struttura dell'intero libro e nelle note a esso posposte. Tanto i titoli delle sezioni di cui si compone il volume quantoquelli delle singole poesie non ambiscono a chiarirne al lettore i contenuti, ma si fanno anzi oscuri privando così i lettori di un possibile (e forse consueto) appiglio. Per esempio, la sezione intitolata Uscire di città si concentra, a dispetto del titolo, su paesaggi urbani e suburbani, sullo sfondo di una Milano che Santagostini ha visto espandersi fino ad inglobare entità urbane prima autonome, ponendo così in discussione i confini della città stessa. Dove inizia la città? Dove finisce? Prosegue forse nell’aldilà, come sembra indicare lo spazio dedicato all’idea delle città celesti?
Sempre in linea con i temi cardine di mistero e possibilità (della realtà stessa, dato che con le disgiuntive Santagostini pone sullo stesso piano versioni incompatibili di uno stesso evento, delle interpretazioni stesse che il lettore ne dà) sta l’aneddoto della corrispondenza epistolare tra una bambina che ha smarrito la propria bambola e Kafka che ne fa le veci, indirizzando per qualche mese alla bambina lettere che finge siano state scritte proprio dalla sua bambola: «Impiegava delle ore, a volte interi pomeriggi, sopra quei fogli. Lavorava con accuratezza. Come chi dà vita alla materia. O la restituisce, dopo che è andata persa.» (pag. 114) Lettere arrivate, perché lette dalla destinataria, e mai partite, perché scritte da un mittente inesistente. Diventa chiaro che gran parte del libro si concentra proprio su questo mittente, e in modo particolare sul suo autentico grado di esistenza: inesistente, ma fino a che punto, se in qualche maniera riesce a comunicare col destinatario? Senza addentrarsi nelle finezze ontologiche che Santagostini non indulge, è più interessante osservare come questo dubbio di pura astrazione (si vedano i tre «ho pensato» che danno avvio al discorso nella seconda, terza e quarta poesia del libro, nella sezione intitolata, per l’appunto, Ho pensato che la vita è un ripiego. E non so a cosa. oppure i vari “pensa” e le affini esortazioni che scandiscono l’andamento delle prose nella quarta sezione) riesca a essere declinato in una chiave più esperienziale nella morte del padre dell'autore, prima presentato in un “trittico” che si concentra sulle sue apparizioni nei sogni dell’autore, poi in una sezione interamente dedicata a lui. Così la speculazione diventa l’indagine di un rapporto che prosegue oltre la sua fine “stabilita”, partendo da un topos classico come l’apparizione in sogno di un morto, che in questo caso porta a una nuova serie di domande: mio padre esiste ancora? In che modo? Come esistono i morti? È possibile parlare di postcreatura? «Testa di mosca, occhi di mosca, / di cristallo, niente occhi, / Nessuno (sic) sa / cosa è una postcreatura. / Se una forma di vita. / Alata, non alata. Cieca, non ancora cieca. / O è già altro.» (pag. 124-25)
Credo che questa domanda sia il perno del libro, perché vediamo come non sia articolato per paradossi ma per esempi di questa comunicazione tra il nostro piano di realtà e quello delle postcreature: i fiori recisi («E, per certi fiori / anche l’inanimato ha un tempo, / è qualcosa di dolente.» pag. 135), Giandante X, eclettico e rimosso artista milanese, e persino il libro stesso, che diventa risposta e nuovo tassello di questa corrispondenza (nella sua duplice accezione, quindi sia comunicazione epistolare che affinità) tra vivi e morti. Come per le precedenti, anche quest'opera di S. è fitta di richiami intratestuali tra i diversi componimenti e intertestuali con le sue altre opere, uno su tutti il tuono: intertestuale perché l’uomo che grida imitando il tuono appare anche nel precedente libro dell’autore Felicità senza soggetto (2014); intratestuale perché viene sì menzionato nei pressi di uno dei richiami alla morte del padre nella sezione Uscire di città (dandoci qualche indizio in più sulla natura di questo grido) ma anche nel corso della sezione che ruota attorno alla figura dell’artista Giandante X («E un fulmine, quando torna alla sua nuvola», pag. 80). L’esempio del tuono è particolarmente significativo perché, pur trattandosi di un’immagine già comparsa in Felicità senza soggetto, viene impiegata in questo contesto attraverso una chiave che è assolutamente coerente col resto del libro, ossia sull’idea (non paradossale, per le ragioni riportate sopra) che il tuono preceda il fulmine: quindi, ancora una volta, il tema della possibilità e della compresenza di varianti inconciliabili viene elaborato attraverso questa immagine altamente significativa che concorre a mettere sottosopra le modalità della comunicazione tra esseri a cui siamo abituati e che questo Libro della lettera arrivata, e mai partita, ha chiaramente l’intenzione di stravolgere. Non si tratta solo di «giochi linguistici» che «squadernano» i morti (pag. 131), come afferma Santagostini nell’ultima poesia della sezione incentrata sul genitore, dando quasi l’impressione di tornare sui propri passi; invece, è necessario tenere a mente la prima poesia della medesima sezione:
«Non sogno più mio padre.
Certo, sono passati degli anni,
da quando è mancato.
E forse, adesso vorrebbe far valere
il suo diritto elementare
a tornare in vita.
Lo abbiamo avuto tutti, quel diritto. Oggi
ci sembra qualcosa di perso,
ma c’è stato.
E mio padre pensa – me lo sono guadagnato.
Forse, non è così.
O non ancora, almeno.
O non ha fatto abbastanza.
Non mentre stava con noi, e nemmeno dopo.
Soprattutto, dopo.» (pag. 119)
Piuttosto che ascrivere la chiusa di questo testo all’ironia, linea interpretativa scoraggiata dai richiami a Sereni, particolarmente evidenti se si confronta la poesia appena presa in esame a La spiaggia da Gli strumenti umani, sarebbe più produttivo interrogarsi sulle responsabilità dei morti verso i vivi, invertendo così il consueto rapporto di ossequio o rigetto che si viene a stabilire con chi ha preceduto il presente e capovolgendo gli rapporti di forza inerenti all’idea stessa di tradizione. Provare a prendere sul serio questa possibilità, e vedere se il modo in cui interagiamo col mondo risulta ancora così fondato: una volta morti, i morti hanno fatto abbastanza per noi?