Cosa ci insegna la natura? – tra Pasolini e Pievani

Il problema della natura agli esami di Maturità
7 Luglio 2025

 

NOTA DELL'AUTORE: Alcuni dei testi citati li ho incontrati grazie al corso "Principi di antropologia filosofica dell'Università di Bologna", tenuto da Claudio Colletta. Poiché il corso offre una bibliografia approfondita in relazione ai temi trattati nell'articolo, ritengo opportuno rimandare alla pagina dedicata sul sito di UNIBO: https://www.unibo.it/it/studiare/insegnamenti-competenze-trasversali-moocs/insegnamenti/insegnamento/2024/432259

 

Alla maturità, quest’anno, ci si aspettava Montale. Invece è uscito Pasolini, ma non quello delle lucciole o delle Ceneri di Gramsci. La commissione ha proposto una poesia giovanile, un’appendice del diario che Pier Paolo Pasolini teneva nei primi anni ’40, durante la guerra, e che “appare ancora molto lontana dai più noti componimenti civilmente impegnati dell’autore”. Non sono la prima a insinuare che in questa sorpresa ci sia, se non la volontà, almeno la scelta obbligata di “disinnescare” Pasolini. L’interpretazione suggerita al ministero sembrerebbe spingere gli studenti in direzione di una lettura del testo romantica, sottintendendo la possibilità di un commento in chiave ecologica/ecocritica:

 

In questa poesia l’autore osserva la natura mettendola in relazione con la propria esistenza. Facendo riferimento alla produzione poetica di Pasolini o di altri autori o ad altre forme d’arte a te noti, elabora una tua personale riflessione sulle modalità con cui la letteratura e/o altre arti trattano il tema del trascorrere del tempo e della relazione con la natura.

 

È necessario chiedersi, allora, se abbia davvero senso parlare di “natura” in relazione a Pasolini. A scuola mi è stato presentato come quello della scomparsa delle lucciole (l'articolo, in realtà, uscì sul Corriere della Sera con il titolo Il vuoto del potere in Italia). Eppure, nemmeno in quel contesto Pasolini usa mai il termine natura per riferirsi a “l’insieme degli esseri viventi, animali e vegetali, e delle cose inanimate e minerali che si trovano sulla Terra” (Treccani).

 

Il dibattito intorno alla nozione di natura fa parte della nostra tradizione filosofica e letteraria, così come la doppia accezione del termine: quella indicata sopra, e quella di natura umana, ritenuta particolarmente rilevante quando si parla di autori come Rousseau, ma anche di Sade, di cui Pasolini adattò Le centoventi giornate di Sodoma. Rousseau, con la sua difesa della natura umana (buona), porta inevitabilmente a Sade, che identifica, anche lui, nella natura (maligna) dell’uomo quelle pulsioni secondo cui sarebbe auspicabile vivere perché: “L’egoismo è la prima legge della natura” e quindi “se la sventura perseguita la virtù, la prosperità accompagna quasi sempre il vizio”.

 

Più di un secolo dopo, l’economista e filosofo inglese John Stuart Mill si confrontò con le idee di Rousseau, pur senza condividerne necessariamente le posizioni. Ad esempio, il suo approccio utilitarista alla libertà si pone in netta contrapposizione con la teoria del contratto sociale. Se per Mill la morale non era un dato naturale, ma il risultato di fattori sociali e, soprattutto, dei doveri del singolo nei confronti della società di cui fa parte, considerava invece le leggi della produzione economica come naturali. Mill, tuttavia, era ben consapevole delle criticità del proprio modello, tanto da introdurre il concetto di fallacia naturalistica. La fallacia naturalistica consiste nel derivare proposizioni normative (ciò che dovrebbe essere) da proposizioni descrittive (ciò che è). Non si può dedurre il giusto dal naturale, o ciò che è buono da ciò che esiste in natura. Secondo Mill, per evitare di cadere nella fallacia naturalistica sarebbe sufficiente un po' di consapevolezza. Oggi, tuttavia, il rapporto tra natura e normatività è molto più complesso.

Poiché il pianeta (o meglio, la sua abitabilità per l'uomo) è minacciato (dall'uomo stesso), viene spontaneo interrogarsi sull'atteggiamento etico da assumere nei confronti dell'ambiente. Di conseguenza, è lecito chiedersi, anche guardando al nostro patrimonio culturale e letterario, se vi sia un rapporto tra natura e morale e come questo si sia evoluto. Lorraine Daston, in Contronatura, pone la domanda in questi termini:

 

Perché gli esseri umani, in tante diverse culture ed epoche, guardano alla natura, in modo pervasivo e persistente, come guarderebbero a un principio normativo per la condotta umana? Perché la natura dovrebbe servire da gigantesca camera d’eco per gli ordini morali costruiti dagli umani? 

 

Anche Bruno Latour, antropologo francese, ha approfondito, nel corso di una serie di conferenze (contenute in La sfida di Gaia), il rapporto tra natura e morale, concentrandosi sulla funzione normativa dell’espressione natura, poiché questa:

 

pretende di orientare l’intera esistenza secondo un modello di vita che obbliga a scegliere fra modi falsi e veri di essere al mondo. In questo caso, il potere normativo che ci si aspetterebbe piuttosto di trovare sul versante “cultura” o “società” risulta essere chiaramente imputato, al contrario, al lato “natura”. 

 

In Italia il filosofo Telmo Pievani, incluso anche tra le tracce di Maturità (proposta B3), ha trattato abbondantemente il tema. Tuttavia, l’estratto scelto (dalla rivista “Under The Volcano”), preso fuori dal contesto dell’articolo completo e della produzione saggistica di Pievani, può essere frainteso negli stessi termini in cui può essere frainteso Pasolini. Ecco un altro estratto di Pievani, altrettanto divulgativo, da "La natura è più grande di noi. Storie di microbi, di umani e di altre strane creature" (Solferino, 2022):

 

La natura è più grande di noi perché non si lascia imbrigliare nelle nostre categorie mentali. La natura non è una persona (quindi non è né maschio né femmina), non è un agente intenzionale, non fa nulla per un fine. Non ci premia e non ci punisce, essendo del tutto indifferente alle nostre sorti. Contiene in sé tutto ciò che noi riteniamo assurdo e abominevole, e allo stesso tempo tutto ciò che ci pare bello, meraviglioso, armonioso.

 

Pievani è troppo lucido per lanciarsi in una difesa spassionata del concetto di natura, consapevole che tale posizione si sposa bene con le ideologie totalitarie. La teoria della razza, promossa prima nelle università da una moltitudine di sedicenti antropologi e  abbracciata calorosamente da movimenti come quello Nazional Socialista in Germania, presuppone infatti una distinzione "naturale" tra le diverse “razze” umane.  Oggi il movimento tradizionalista che sta prendendo piede tra le nuove generazioni americane ricorre spesso a una retorica “naturalista” per giustificare bigottismo, xenofobia e sessismo. Ma non serve avventurarsi in un Red State per scontrarsi con certe posizioni: basta andare a un raduno di una qualsiasi associazione pro vita (qui in Italia ce ne sono tante). Il disegno teorico-propagandistico a cui si appoggiano è molto chiaro: l’aborto sarebbe qualcosa di artificiale e quindi sbagliato, mentre per le donne la maternità e il lavoro domestico sarebbero espressioni di una femminilità “naturale” e quindi giusta.

Eppure anche Pasolini, marxista, si pronunciava contro l’aborto, pur riuscendo (con capriole dialettiche degne delle prostitute hegeliane in Kafka sulla spiaggia) a rimanere fermamente anti-natura.  Nel suo pezzo d'opinione uscito per il corriere della sera nel '74 leggiamo, dopo la sviolinata sulla sacralità della vita, che l'aborto:

 

"renderebbe ancora più facile il coito – l’accoppiamento eterosessuale – a cui non ci sarebbero più praticamente ostacoli. Ma questa libertà del coito della “coppia” così com’è concepita dalla maggioranza – questa meravigliosa permissività nei suoi riguardi – da chi è stata tacitamente voluta, tacitamente promulgata e tacitamente fatta entrare, in modo ormai irreversibile, nelle abitudini? Dal potere dei consumi, dal nuovo fascismo". 

 

Personalmente non sono d’accordo, ma mi diverte pensare che Pasolini disprezzasse il rapporto eterosessuale al punto da auspicare la riduzione dei contatti genitali tra uomo e donna allo stretto necessario: "tutti, dico, quando parlano dell’aborto, omettono di parlare di ciò che logicamente lo precede, cioè il coito". Se Borges ha scritto che “gli specchi e la copula sono abominevoli poiché moltiplicano il numero degli esseri umani”, Pasolini, nel suo ultimo romanzo incompiuto, Petrolio, dà corpo a questa massima nel personaggio di Carlo. Carlo, ingegnere Eni cattocomunista, si affaccia al tardo capitalismo da una casa affittata ai Parioli e si sdoppia, si divide in Carlo Polis, socievole e brillante, e in Carlo Tetis, sensuale e violento. I due Carlo sembrano condurre esistenze del tutto diverse, ma spesso prendono l’uno il posto dell’altro. Insomma, leggere Petrolio è un casino, anche perché (come se due Carlo non bastassero) a un certo punto il nostro, dopo essersi accoppiato con la madre e le sorelle, guardandosi allo specchio si accorge di essere diventato femmina. A quel punto Carlo (non si capisce nemmeno più quale) decide di tirare fuori il meglio dalle circostanze in cui si trova: nella passività sessuale sperimenta la più alta realizzazione, riceve “la grazia”.  I temi di Petrolio sono tanto intimi quanto (bio)politici. Se l’interpretazione biografista ha sempre voluto leggere in questo romanzo un resoconto del (presunto) conflitto interiore vissuto dall’autore in relazione alle sue inclinazioni sessuali, Petrolio rimane, in primo luogo, un romanzo sul potere. Potere anche sessuale, certo, ma soprattutto politico ed ecologico. Dopotutto si chiama Petrolio, e il protagonista è un ingegnere dell’ENI. Non serve scivolare nel complottismo sul delitto Pasolini per riconoscere gli elementi politici del suo pensiero e della sua opera (che oggi dovrebbero essere dati quasi per scontati).

In conclusione, credo che quanto avvenuto quest’anno sui banchi dei licei italiani sia più che scandaloso. Per riprendere Latour:

 

Poiché da molto tempo la morale è oggetto di dispute feroci nelle nostre società, ogni tentativo di stabilire un giudizio etico a partire dall’invocazione della natura apparirà come il travestimento, a malapena velato, di un’ideologia.

 

La politica che promette un “ritorno ai valori tradizionali e alla natura” ambisce a ripristinare quei rapporti di forza da cui sembrava ci stessimo allontanando. Il mondo auspicato da chi si appella alla natura per parlare di morale, infatti, non è verde: è in bianco e nero. C’è una “naturale” divisione tra razze, alcune delle quali “naturalmente” prosperano a scapito di altre; mentre nella sfera intima e familiare l’uomo sottomette “naturalmente” la donna, di cui si serve come si serve, sempre “naturalmente”,  del territorio che abita. Il Il mondo, però, è più complesso di così. E lo è anche la morale. Pasolini lo sapeva bene, tanto da riservare un ruolo centrale, in tutta la sua produzione artistica, ai rapporti di forza: non tanto tra uomo e natura (qualsiasi cosa s’intenda con il termine), quanto fra uomo e uomo. Nel ‘75, quando scriveva delle lucciole sul corriere della sera, aveva ben chiaro che se l’umanità dovesse estinguersi la causa andrebbe individuata nell’umanità stessa, e non nella “ribellione” di potenze naturali antropomorfe. Il mondo che abitiamo non è vendicativo né violento, anche se spesso ci appare così, perché non è facile da capire. Un punto di partenza, però, può essere individuato in un cambio di prospettiva: bisogna ripensare il concetto di natura, perché quello che viene insegnato a scuola è datato. La natura non è un insieme di esseri viventi e oggetti inanimati estranei da noi, non è un grande "altro" da cui ripararsi o contro cui combattere, bensì una rete di relazione fittissima di cui facciamo parte.

 

 

 

*Immagine di copertina da James Brown: Opus contra naturam