Con gli sradicati

Su "La domanda della sete" di Chandra Livia Candiani
24 Gennaio 2024

 

 

La domanda della sete (2020) di Chandra Livia Candiani è un libro senza requie in cui è assente ogni forma di guerra: si tratta di un paradosso che può esistere solo sotto lo sguardo di chi è riuscito a risolvere nel suo animo le tendenze dilanianti del vivere e sulla carta le fa convivere. Le poesie di questa raccolta, come tutte le poesie della Candiani, hanno uno stile arruffato e selvaggio, spettinato, e qualunque lettore credo che rimarrebbe anzitutto colpito dalla non consequenzialità dei versi. Tale processione delle parole però è tutto fuorché ingenua e accidentale, o peggio esibizionista — sarebbe anzi meglio dire che può darei che sia ingenua e accidentale, ma a un livello più alto di quello a cui la vita quotidiana normalmente scorre: ciò che a uno sguardo idiota e privato appare complesso e immotivato, da una prospettiva più coscienziosa — potremmo dire dalla prospettiva della meditazione e di una certa spiritualità — risulta invece limpido, trasparente e fluido.

Tra le varie istanze opposte che tirano il libro in un verso e nell’altro e che lo rendono quindi un libro leggibile all’infinito e da un’infinità di lettori che scelgono di essere attenti, mi viene da sottolineare come uno dei fulcri trainanti la coppia residenza-fluidità.

Mi pare che il libro insista estremamente sul bisogno di casa, intesa come nido in cui si stemperano tutte le guerre e in cui domina il riposo, ed è sempre un bisogno di casa vissuto in senso relazionale. Per quanto non ci sia una dominanza della seconda persona singolare, ossia del vocativo, del dativo o in genere di una persona-desiderio a cui rivolgersi, ogni momento di riposo e di pace è sempre legato a una relazione con l’altro, in qualunque forma questo “altro” scelga di presentarsi. Tale dimensione relazionale in cui si realizza l’aspirazione al nido è così profonda che anche l’io non può che essere vissuto attraverso la spaccatura con sé stesso: ciò che siamo nelle poesie della Candiani è un essere mediato e franto a partire dalla stessa percezione che abbiamo di noi. Non c’è un evento psicologico che ha disunito l’uomo, ma l’uomo si conosce naturalmente come disunito tra mente, corpo, cuore, desideri e solitudini, e nella tensione verso la pace cerca di ricollezionarsi.

 

 

Cosa vuoi corpo?

Piccolo cuore notturno

che mi tira per la manica

spella il sonno

dimmi di cosa manchi

parlami con una testa diversa:

qualcosa è sparito

tu

sei accaduto

all’insaputa di me

proseguendo.

[…]

 

 

oppure ancora:

 

 

Dove ti sei perduta

da quale dove non torni,

assediata

bruci senza origine.

Questo fuoco

deve trovare le sue parole

pronunciare condizioni

di smarrimento dire:

“Sei l’unica me che ho

torna a casa”.

 

 

Tale frattura naturale rappresenta la condizione di partenza di un percorso in cui la seconda tappa è l’amore per la scoperta del mondo. I versi pullulano di un panteismo dichiarato e quella stessa divisione che il poeta avverte in sé, la avverte pure in tutto ciò che ci circonda.

 

 

[…]

Credo agli alberi spogli

che scrivono se stessi in cielo,

ai versi che rallentano

fino al sonno degli uccelli.

Credo nei fili e negli equilibri

precari, nei sentimenti

all’aperto, provati dalle bufere

spezzati dal tempo

della durezza e dell’abbandono.

Credo a quando mi ascolti

raccolto intorno al futuro

come un chicco di riso

e a quando parli senza

intenzione alcuna

[…]

Non esistono posti sicuri

ma custoditi da animali sì

protetti da ali e musi e zampe sì

noi ci vogliamo il bene

delle case a mezzanotte.

 

 

Ma l’intento della Candiani non è solo didascalico nei confronti di tutto questo universo che vive di precari equilibri; l’osservazione infatti si fa più fitta e acuminata, fino a scorgere in tutto questo un’angoscia e un’inquietudine, ossia la famosa domanda della sete. Gli spiriti che affollano il libro sono tutti inquieti in cerca di una risposta, in cerca di un arrivo da qualche parte — ogni cosa è vista nella sua essenza di “sradicato” in cerca di radici (Vivo all’insaputa di me / ho aspettato tutti / poi ho preso l’avvio / ho volato molto lenta / senza fare pieghe / strani / nell’aria caritatevole / con gli sradicati. / A scuola dalla neve muta).

Eppure non è l’angoscia a prendere il sopravvento, non sono il dolore e la divisione a far urlare chi scrive. Tutt’altro.

La vera molla poetica è invece ciò che risponde alla domanda della sete, ossia lo scorrere dell’acqua che pervade tutto il libro nelle sue forme più varie: la pioggia, i ruscelli, gli oceani, le nuvole, la neve e il ghiaccio. È in questa ricerca d’acqua che nuota ogni cosa: l’uomo, gli innamorati, gli uccelli, gli alberi, le case, le stelle, le comete e il cosmo. Vivere franti e aver bisogno di una casa conduce al vivere nel mare dell’essere, in costante movimento nel fiume del divenire.

Ecco quindi che il binomio residenza-fluidità si articola in una visione dell’esistenza dove il tutto è più della somma delle sue parti, ma nel tutto non va persa mai nessuna individualità. La consapevolezza del dolore e del desiderio danno sostanza a ogni fiato, è nel dolore e nel desiderio che si avvera al di là di noi che gli esseri umani si percepiscono; e il dolore e il desiderio si rispondono poi con l’intorno che parla.

Essendo impossibile comprimere un libro così complesso e per sua definizione evasivo rispetto a ogni classificazione e puntualizzazione, mi viene da dire per concludere che La domanda della sete parla di una domanda d’acqua e di furore, di uno squassamento interiore ed esteriore che porti pace, e della mutevolezza incomprensibile dell’universo come via per la serenità. Il lettore raggiunge questa consapevolezza nella lettura non attraverso una descrizione distaccata, ma attraverso una partecipazione intima a questa entropia che domina il cosmo e la poesia stessa. In questo modo le parole, le poesie e il libro non si fanno semplicemente specchio della visione dell’autore ma diventano un altro degli spiriti folli e innamorati di cui parlano, e noi con loro ci trasformiamo, entrando nell’universo.

 

 

Chiamami dalle alte ombre

chiamami imperativa

intimamente, chiamami fuori

da queste gravi leggi, dalle ancore

nelle correnti senza rapide

delle opinioni sensate.

Chiamami come creatura spaventata

filo d’erba nel respiro serrato

delle foreste in città

delle case ammonticchiate nel sonno

delle automobili abbandonate nelle vie

come scheletri di dinosauri tristi.

Bisbigliami che a casa è ora

di accendere le luci

fammi sentire un odore

di pane e gelsomini,

poi strappa piano

dal mio asino buono

quel che di me resta.

Madre nostra

delicatissima feroce.

 

*

 

Grande albero

come ti vedo bene

perché non sei me

felice che siamo due

che forse non ci capiamo

che sei fermamente bello

che forse non mi vedi

che ci sentiamo

che facciamo vita.

Sono così felice

che siamo due

e non voglio fare uno.

Amico mio.

 

*

 

Io mi inchino a te pioggia

per la scompostezza dei tuoi gesti

il tuo ignorare la clemenza

e affratellarti al fulmini,

la tua rigorosa indisciplina

il lancio di lame

e le perle roteanti,

per finezza e fluidità

per imperativi e adagi

mi inchino a te

per il bere animale,

le lingue che devotamente zitte

ti leccano salvando

ali pelle squame,

per i colloqui vegetali

e la passione del vento

mi inchino

nella mia irrilevanza.