In questo momento ho di fronte la prima (e unica) edizione delle Rime edite ed inedite di Francesco Stelluti Accademico Linceo. Il libro è uscito nel 1965; Francesco Stelluti ci ha lasciato nel 1653, ma questo è ad oggi l'unico modo per consultare in forma stampata numerosi dei suoi componimenti: nessuno leggerebbe le rime di Francesco Stelluti, autore del sonetto In lode di Amarilli cagnolina bellissima (che ha il coraggio di essere non un accidente isolato ma, al contrario, ben incastrato in una serie di raggelanti componimenti a sfondo canino) senza qualche doppio fine. Il mio è che sto cercando di completare una selezione di poesie che abbiano a che fare coi fossili. Unico vincolo: includere almeno una poesia per ogni secolo tra il 1300 e il 2000. Al momento dell'auto(e per questo irrevocabile)imposizione ho in mente alcuni testi abbastanza calzanti: Sopra una conchiglia fossile nel mio studio, di Giacomo Zanella, indicatami da un amico, qualche poesia dei secoli XX-XXI in cui la parola "fossile" gode di grande popolarità sulla scia del rinascimento dei dinosauri, prima padroni del pianeta, ora delle nostre infanzie, e una poesia di Pompeo Bettini ambientata in un museo, con una bella descrizione del processo di fossilizzazione e che mi piace molto. Ma una volta raccolte queste prime poesie mi rendo conto che non mi viene in mente assolutamente niente per il 1300, il 1400, il 1500, il 1600 e il 1700, il che significa che per più della metà dell'arco di tempo che voglio prendere in considerazione non ho nessuna poesia da collocare. Inevitabilmente, mi fisso e voglio venirne fuori. Comincio con ricerche su Google attraverso parole chiave (dimostrando di non essere capace di condurre una ricerca come si deve), e ovviamente non trovo nulla: in compenso leggo su Treccani che "fossile" originariamente indicava qualsiasi cosa provenisse da sotto la crosta terrestre, anzi: qui https://www.paleonature.org/conglomerate/155-i-fossili-nel-600-e-nel-700... imparo che l'associazione animale pietrificato=animale antico non è affatto scontata. Riprovo con Google. "poesia XIV fossil": niente. "fossil poesia XV": idem. "XVI poesia fossile fossili": nulla. "fossile poesia italiana letteratura XVII": zero. "Poesia fossile XVIII": Letteratura e ricerche geologiche nel secolo XVIII e XIX. Per mia fortuna un gruppo di ricerca dell'Università di Verona si è già fatto questa domanda https://www.dcuci.univr.it/?ent=progetto&id=1579 e ha scritto qualcosa online. Abbondano i nomi di poeti, colti e letterati che tra i secoli XVIII e XIX si sono interessati ai fossili giusto il tanto necessario per scriverci su qualche verso: li leggo e seleziono Lorenzo Mascheroni, anche solo per quel verso in cui evoca il pesce fossile che stringe la sua preda, che mi ricorda la poesia di Pompeo Bettini. Ma a questo punto intuisco che la strategia migliore è ipotizzare quali autori potrebbero aver citato, magari di sfuggita, il fenomeno della fossilizzazione, e sperare di indovinare. Penso a Cecco d'Ascoli e Acerba, provo a cercare con poca eleganza "Cecco d'Ascoli fossili" e trovo questo: https://blog.libero.it/Giacomx21/amp/11322598.html. Qui trovo citati i versi di Cecco d'Ascoli che parlano di fossili, e poi: "Pare proprio che l' Autore conosca i fossili ed il loro processo di formazione." Nient'altro. Tutto mi lascia incantato: la "A" maiuscola di "Autore", lo spazio tra l'articolo con apostrofo e il nome, quel "pare proprio" iniziale. Il resto del sito non sembra presentare alcuna affinità con questo commento, e non riesco a capire perché l’autore del post abbia deciso di caricare proprio questi versi, e con questo preciso commento. Nel frattempo, dopo una infruttuosa lettura del volume Poesia del Quattrocento e del Cinquecento del Parnaso Italiano per Einaudi, decido di semplificarmi la vita e includo, un po' a malincuore, dei versi di Lorenzo de' Medici sull'ambra che avevo inizialmente scartato: l'ambra è, tecnicamente, un fossile, non proprio del tipo che avevo in mente, ma penso che la preziosità di questi versi, che avevo letto da Rinascere: storie e maestri di un'idea italiana di Nicola Gardini, bastino a giustificarne l’inclusione. Restano vuoti solo il Cinquecento e il Seicento. Ecco che mi rivolgo al Dittamondo, altro poema didascalico, questa volta per mano di Fazio degli Uberti, e provo a colmare il vuoto del Cinquecento: cerco la parola "sasso" all'interno dell'opera, e miracolosamente spunta un passaggio in cui il geografo Solino indica a Fazio i resti del mostro che minacciò Andromeda conservati dentro la pietra. Già pronto ad esultare, vado a controllare la data esatta della composizione del Dittamondo: dal 1346. Ho sbagliato clamorosamente, ma ormai affezionato a questo passaggio decido di includerlo lo stesso perché, a differenza di Cecco d’Ascoli, qua si parla di un animale e non una pianta. Rimane vacante il Cinquecento, come il Seicento. Provo a dedicarmi a quest'ultimo, e vado a sfogliare l'antologia Marino e i marinisti. Volume secondo per Mondadori, confidando nella varietà dei temi trattati dagli autori: invano. Provo a sfogliare su google libri le rime di Giovanni Giacomo Lavagna e Francesco Melosio (che hanno scritto dei componimenti particolarmente bizzarri su calamite, riti magici, Carlo Magno innamorato della bella morta e altri ancora), ma non trovo nessun riferimento ai fossili neanche nelle loro opere. A questo punto ritorno a Google, e cerco “Marinismo fossile”. Scorrendo i diversi risultati capito su questo documento https://www.google.com/url?sa=t&source=web&rct=j&url=https://iris.unipa.... dal titolo: Agostino Scilla (1629-1700) e la cultura visuale della historia, fra antiquaria e storia naturale, dell’Università degli studi di Palermo. Tra le ultime pagine trovo una serie di tavole, tra cui ne spiccano alcune provenienti da F. Cesi, F. Stelluti, 1637, Trattato del Legno Fossile Minerale, Roma, Vitale Mascardi. Questo trattato sembra perfetto ai miei scopi, per cui cerco qualche informazione in più: scopro che il testo, pur indicando due autori nel titolo, è in realtà la pubblicazione postuma degli studi di Cesi curata da Francesco Stelluti, suo segretario e linceo; inoltre, questo Cesi di cui si parla è Federico Cesi, non un linceo qualunque, bensì il fondatore dell’Accademia dei Lincei (1585-1630), di cui anche Stelluti fu co-fondatore. Purtroppo non riesco a capire se il primo abbia scritto o meno delle rime, e così provo a cercare anche un eventuale raccolta di Stelluti: che esiste, ed è contenuta nel libro edito nel 1965 di cui ho parlato a inizio articolo. Torniamo quindi alle Rime edite ed inedite di Francesco Stelluti Accademico Linceo curate da Romualdo Sassi. Il solo cognome del curatore costituisce di per sé un segno di buono augurio, sassi come quelli che andavano cercando Cesi e Stelluti e come quelli che vado cercando in queste poesie, che meritano un’attenzione particolare,a prescindere dalla presenza o meno di poesie fossili, che mi auguro comunque di trovare. Lo Stelluti poeta, che a me interessa più dello Stelluti segretario di Cesi, è celebre soprattutto per la traduzione delle Satire di Persio, e per una serie di componimenti in lode di Galileo Galilei o di certe sue scoperte, come quella delle macchie sulla superficie del sole che esalta con un madrigale:
Nessun ciò che non ha può dare altrui;
fu pria detto verace,
ma si rende oggi al suo valor mendace.
Poiché qual luce aver può macchia od ombra,
s’ogni chiarezza adombra?
E pur dan l’ombre e dan le macchie intanto
una perpetua luce al tuo gran vanto.
Traspare da questo componimento una dimestichezza con il gioco contraddittorio e paradossale: sarà l’aver scoperto delle ombre a illuminare la fama di Galilei, ombre peraltro individuate proprio su ciò che essendo solo luce crea le ombre; ma non cediamo alla solita interpretazione che si dà dei poeti barocchi, dediti alla ricerca di facili effetti per meravigliare: il primo verso cita una massima giuridica latina (un brocardo), nemo dat quod non habet, che ad oggi è un principio del diritto civile. Come a dire che la scoperta di Galileo è talmente rivoluzionaria da stravolgere le norme stesse del vivere civile fino ad allora osservate, rese un detto "mendace", falso. Questa idea, così come le luci e le ombre di questo madrigale ritorna anche in un sonetto dedicato a Giovanni Apostolo et Evangelista:
Giovanni è questo, che nel petto accolto
riposò del Signor del Paradiso
allor che seco in su la mensa assiso
giacque in un sonno placido sepolto.
Apostolo beato, a cui fu sciolto
allor, cred’io, con bene aperto avviso
quant’era su nel ciel riposto e fiso
ch’in vel giacea d’oscuritate involto!
E’ d’huopo ad altri onde virtude apprenda,
ond’acquisti saver, senno, valore,
che desto e attento all’altrui dir si renda.
Ma fece acquisto di saver maggiore
GIOVANNI, quando entro l’oscura benda
del sonno gli occhi ei tenne involti e il core.
Qui non ci si può limitare a evidenziare, nuovamente, la paradossalità di Giovanni che non vedendo vede più di tutti gli altri apostoli: bisogna prendere sul serio queste parole dette da uno che aveva fondato l’Accademia dei Lincei, così chiamata proprio per la proverbiale vista acutissima della lince. Ricordiamo anche che l’animale associato all’evangelista Giovanni è l’aquila, sempre per via del primato della vista che le consente di guardare fisso nella luce pura del sole, così come Giovanni guarda la luce di Cristo. Invece qua abbiamo un Giovanni che guarda nell’oscurità, ma in quella di Cristo, che si vela di ombre come il sole di Galilei. Inquadrato questo tema, viene da chiedersi il legame con i fossili che mi ha condotto fin qui, dove non ho ancora trovato nessuna poesia paleontologica. Però mi affascinano i versi di questo naturalista secentesco, come ad esempio l’immortale:
A.A.A.A.A.A.A…
che non è un annuncio alla “cercasi” ma il suono delle trombe del giudizio universale:
risuoneran d’intorno
il tamburo e le trombe
A.A.A.A.A.A.A…
così faran per li tre giorni intieri;
sarà gran strage per tutti i sentieri
“Ammazza, ammazza, ammazza, uccidi, uccidi”
Segue invettiva contro il clero:
Signori e gran Prelati
e contro me sarete infuriati;
sarete castigati.
Ho mentito: mi interessa anche lo Stelluti naturalista, che collabora alla realizzazione di tavole per illustrare tre api ingrandite coi loro particolari per mostrarle come mai erano state viste prima. Di nuovo l’occhio penetrante, che scrive poesie trattando la tarantola letale, la salamandra e i cani (Amarilli cagnolina bellissima che Di Cintia emula già fatta e del Sole / fregia di macchie anch’ella il puro manto , ritornano le macchie solari, l’impressione fortissima della scoperta di semi di buio nel centro della luce, e allora questa poesia su una cagnolina cessa per un attimo di essere un simpatico divertissement e diventa cifra di una ossessione più profonda), o un picchio:
Mentre staman con l’arco teso un picchio
sto per colpir intento, odo che gracchia
a la mia filli intorno una cornacchia
a lei ch’era di via presso un crocicchio.
Ond’io, di mal presago, un altro spicchio
saglio del colle, e da ben folta macchia
vegg’io ch’un lupo incontro a Filli smacchia,
che per timor resto qual marmo in nicchio.
Tost’io là corro ov’è di sassi un mucchio
e tanti e così gravi n’apparecchio,
ch’ardito il segno e a ben colpirlo addocchio.
Lo scaccio alfin, lei giungo, abbraccio e specchio
mi fo degli occhi suoi, la bacio e succhio
sìch’ancor gode il petto, il labbro e l’occhio.
Tralasciando di esaminare le rime evidentemente frutto di un gioco intenzionale e onomatopeico (ricordiamo A.A.A.A.A.A.A…), e notando invece l’infittirsi della rima interna in “acio/accio” con conseguente addolcimento del tono nel momento del bacio, vediamo riproporsi la parola “macchia”, ma in una chiave completamente diversa, in quanto “boscaglia”, associata di nuovo all’occhio, che la fa da padrone nelle terzine in quanto a sonorità: per dire che non basta che ci siano le stesse parole per fare un collegamento tra due testi.
La cosa più importante è che abbiamo appena letto la poesia paleontologica che cercavo per il 1600: “nicchio” significa “conchiglia” (da cui “nicchia”, per la caratteristica forma a conchiglia delle nicchie dove mettere le statue), e il marmo indica il sasso in cui è fossilizzata la conchiglia! Quindi per descrivere lo spavento causato dall’apparizione del lupo il poeta impiega questa ardita similitudine legata al suo campo di studio che qui fa capolino nella forma di una conchiglia fossile! Poi la rileggo e mi rendo conto che in realtà nicchio in questo caso significa probabilmente “nicchia” e che marmo vale “statua”: impietrisco come una statua in una nicchia. Sono abbastanza demoralizzato, e penso di non avere le forze di leggere per intero gli imminenti 720 versi e più de IL PEGASO Epitalamio delle nozze di Don Federico Cesi e Donna Isabella Salviati. Ma a questo punto collego: Don Federico Cesi era l’autore degli studi sui legni fossili pubblicati postumi da Stelluti, quello che mi aveva portato a leggere in primo luogo le rime di Stelluti! Leggo con nuova attenzione il poemetto, che si imposta come un elogio delle imprese scientifiche di Federico Cesi, e finalmente arrivo a un punto in cui si parla delle sue ricerche fossili. Non inserisco qui quei versi perché li ho già inclusi nel precedente articolo (https://vallecchipoesia.it/content/crestomazia-di-fossili ), ci tengo solo a dire che vi compare la parola “anguicrinito”. Trovo molto bello che la collaborazione tra Stelluti e Cesi sui fossili mi abbia condotto a una poesia sui fossili che commemora la vicinanza di questi due studiosi.
E il Cinquecento? Non ho trovato nessun testo assolutamente originale; tuttavia, nel secolo per eccellenza del Rinascimento, ho pensato che sarebbe stato consono inserire un volgarizzamento in ottave per mano di Giovanni Andrea dell’Anguillara di un capolavoro della letteratura latina, le Metamorfosi. Ci si può divertire a vedere quanto si spreme il dell’Anguillara a cavare un’ottava intera da due versi anche abbastanza sintetici: dopo questa maratona attraverso testi altrui, condotta attraverso un criterio da un lato del tutto artificioso e dall’altro rispettosissimo della parola ricevuta in verso, è difficile non simpatizzare con lui.