
QUALCOSA (UN'ARCADIA DIVINA)
C’è un eden, nei nostri pensieri,
e una terra inviolata
dove non è gemito, né affanni
e un ordine immoto
che elude i vortici della mente:
un’arcadia divina, in cui chi pesca
è pescato, e chi non pesca
contempla
la conchiglia d’oro del mondo
Lo sai anche tu cos’è, questo
rovistare indietro
verso qualcosa che è stato, e non è, forse, mai stato,
neanche per te, infisso
come un idolo nella materia stagnante del nascere,
prima del sangue e del fiato, prima
della mente
e delle opere del tempo,
prima
Mi perdo
in una rada di pensieri strani, che oscillano
come bindelli ragnati. S’impiglia, la fortuna,
tra un’asola e l’altra del tempo, faglie
di allora che si sbriciolano, si staccano,
si ricompongono :
un tralcio di vite, l’uva nera di qualche infanzia,
che pilucchi,
il nero e il fuoco della vita
Soffia qualcosa
Che non è ancora una cosa, eppure la sfiora.
*
QUALCUNO CHE SOGNA
C’è una gioia che non si vede
eppure è lì, che sfolgora, ai margini di una foto
o di una strada,
dove qualcuno eternamente sosta
e piange il suo tempo.
E c’è un’acqua che scorre
nel ventre della terra, e gorgoglia
s’intoppa, freme
prima di risalire al bene della luce :
era scura
e ora brilla, come tanti fuochi
E c’è un’fruscìo, coperto
dai mille gemiti della città
che si perdono in una tazza di sonno
e una fiamma quieta, lunga
che non si spegne
C’è una tavola
e del pane e del vino
e un ospite che dorme,
forse sogna
se lo vedi, non chiamarlo
è solo un bimbo che gioca,
e non sa di sognare
Nella sua ultima opera La materia del contendere Giancarlo Pontiggia costruisce un cammino che dal nulla, prima della mente / e delle opere del tempo, porta al fuoco che arde dell’ultimo componimento dell’opera (In un fuoco), attraverso un soffio imprevisto, perché Soffia qualcosa / Che non è ancora una cosa, eppure la sfiora.
Come può dal nulla nascere un soffio vitale che possa trasformare il nero delle cose in un fuoco splendente attraverso la fede nella verità poetica, un nero brillantissimo che unisce nella sua figura l’opera di Pontiggia, da Con parole remote fino a questo punto?
L’immaginazione bambina si esprime nella capacità di sognare che il poeta invoca sempre, dall’acino d’uva colto da un bambino, fino al vino della tavola della Passione.
I poeti, se conservano questo sguardo bambino, accolgono come fabbri di luce la verità delle cose: il vento si fa oro insieme allo sguardo, il nero si ricompone in un tralcio di vite, l’uva nera di qualche infanzia. Come faremo a capire, come faremo a dire anche noi che l’acqua della vita che gorgoglia era scura/e ora brilla, come tanti fuochi ?
Questa poesia sembra aiutarci accompagnandoci verso una gioia che non si vede/eppure è lì, che sfolgora, ai margini di una foto/o di una strada, stato d’animo pervasivo che riaffiora subito prima dell’ultimo componimento, una gioia che non c’era, /pensosa e umbratile. La vita che ci assale, / e non è né tua né mia. Cos’è questa fiamma quieta, lunga/che non si spegne? Intuiamo che il poeta sempre ci racconta della vita, universale, eternamente presente, di come arrivi a brillare nel fuoco a partire dal sogno, ma con quale grado di intimità ci coinvolge? Ognuno di noi è partecipe dell’eterno che quest’opera suggerisce, oppure è questo un fatto universale di costellazioni lontane?
Forse se guardiamo alle prime parole remote di Pontiggia, vedremo bene questo avvicinarsi della luce, questo rendersi più intima e veramente capace di scaldare. D’altra parte, è proprio nella sua prima opera poetica che vengono delineandosi i tratti dei poeti, fabbri di luce, che frondeggiano ancora come allora, nel tempo antico quando i segni, le costellazioni significavano verità.
da Con Parole Remote, MESSAGGI DALL’ANTICA NOTTE:
Come ardono nella notte
le stelle lucentissime,
il Cigno, le due Orse, Idra,
e la stella del Timone,
quante navi sospese senza un nome
per me che osservo, solo,
fra le stanze,
e il vento è oro
come quando un satellite
attraversa cieli nerissimi, scivola
nell’altra metà
del mondo.
O cose, o perdute, ancora
siete tornate? Fabbri di luce, voi
frondeggiate come allora
nel tempo in cui ogni segno era
un toro, una dea
o una ruota che appena trema
al vostro ronzare. Ma come io, ora,
potrò pensare i vostri
carri lucenti, Orse razzanti, nomi e numeri
possenti? Tanti vi invocano, pochi
vi amano
nella sera dolce distesa.
Argille del tempo,
zigne di fuoco,
solo nelle battaglie
ci colpisce il fato?
Dalla sezione CON PAROLE REMOTE:
6
Di settembre piovoso,
in una sera
sparsa su questa terra
in una sorte che annera
sopra una plumbea materia
tra le cure del mondo
e il tempo che si disfa
con parole remote
in un fuoco tutelare
tra questi ceppi
– vampe
di un antico natale
nella tua ombra,
autunno,
nella tua ombra
Inizia un primo avvicinamento, perché l’ombra porta con sé tutto il nero dei cieli e degli spazi e lo rivolge ad un tu presente e vivo. E il fuoco che è luce non è soltanto fuoco, ma fuoco tutelare. Un fuoco familiare, di un antico natale, sta accanto al tu e dentro all’ombra; la farà risplendere nel modo più alto che assorbe tutti i colori insieme, in una sorte che annera. I versi si accorciano e si distanziano, lo spazio serale entra dominante, insieme con assonanze e allitterazioni sempre più marcate (tempo, plumbea, mondo, ombra; antico, natale, autunno). Il poeta scende – come ricorda nelle note finali sui testi – nella materia dell’umido e dell’uggioso, e quindi delle interrogazioni senza risposta. Con il solo compito di custodire nomi, nati, semi, forme, leggi, condiviso da chi scrive come da chi legge.
Troviamo conferma di questa dimensione di attesa, di ombra che prelude a una rivelazione sacrale di realtà, e la troviamo proprio nelle stesse note finali ai componimenti, scritte a quasi trent’anni dalla loro prima pubblicazione. Dall’ombra nasce l’attesa di un salto, una catabasi verticale dalla quale inaspettatamente si esce luminosi e brillanti, ci si riappropria di quelle costellazioni lontane antiche attraverso il fare poetico.
Ritornare a La materia del contendere porta con sé la dimensione di attesa che si figura in Con parole remote, un preludio all’oltre che si era riproposto un anno prima, nel 2024, con la riedizione Vallecchi. Le cose perdute desiderano ritornare, non come astri lontani ma nell’interiore dell’animo umano, ricostruite dai poeti.
Cosa sappiamo del buio? Forse veramente niente. Tuttavia è qui che l’anima muore per rivivere ancora, è in questo mondo che il fuoco dura per sempre, perché nasce la domanda, dal mistero delle cose immobile si crea attesa, e dall’attesa soffio di respiro, vita, fiamma, che in questo mondo immobile non si spegne.
Da Qualcosa (Un’arcadia divina) abbiamo visto il nero ricomporsi nell’uva nera di qualche infanzia, e improvvisamente il nero e il fuoco della vita andare insieme, ricongiunti dal soffio vitale, un’anima ancora impersonale ma ormai generata (Soffia qualcosa/Che non è ancora una cosa, eppure la sfiora.)
Questa attesa, l’ordine immoto dell’inizio, porta già al fuoco entro la fine del componimento e suggerisce la strada da percorrere: seguire un soffio che sembra leggero a una prima percezione, e che s’intensifica a gradi e raccoglie in sé il fuoco della vita intera. Un’attesa partecipe del caricarsi della fiamma; il tempo – in cui si svolge la vita materiale – prepara ad un oltre, ma in poesia questo oltre anticipa e giunge prima della morte fisica. Accade qualcosa nel tempo necessario di vita perfettamente misurata che prelude all’imprevisto del buio e dell’intuizione poetica, fino al nido di fuoco, la vera logica della vita.
Accostiamo a questa riflessione la poesia Qualcuno che sogna, anch’essa ricordata di sopra, che fa parte ancora del primo svolgersi dell’opera ultima di Pontiggia.
Il bambino richiamato, prima in modo velato nell’uva nera di qualche infanzia, e poi esplicitamente sul finire di questo componimento ci conforta, perché accoglie la parte più profonda dell’essere umano e anzi invita a conservarla per poter sognare veramente. Se a un primo sguardo La Materia del Contendere ci era apparsa come dominata dalla razionalità filosofica e al piacere che quest’ordine mentale suscita, soltanto con questa poesia si svela veramente l’intimità e il senso profondo oltre il ragionamento per opposti, al di là degli elementi antichi e profondamente vivo nell’oggi che tanto abbisogna di questo sentire. È così che leggiamo ne Il mondo nuovo il grande appello rivolto a chi sogna ancora, contro lo svuotamento meccanico contemporaneo (forse sogna / se lo vedi, non chiamarlo / è solo un bimbo che gioca, / e non sa di sognare).
UNA PIUMA D'ORO (MEMORIA DI FENICE)
1
Mi accorgo di non sapere niente del buio,
anche se in molti ne hanno scritto. Il buio
inerte, denso, immoto, che si nutre di sé,
e non ha pace. L’anima che vola via dai suoi tormenti
ne sa forse meno di noi: muore
per vivere ancora, prima che il tempo la disgreghi.
Ricordo una sera in cui eri qui, e mi dicevi
che non c’è fuoco che possa durare per sempre,
e che questa è la legge del mondo: ma io ti chiesi
di quale mondo parlassi.
C’è sempre molta attesa, quando una porta si apre.
Ci carichiamo di un nuovo principio, a un passo
dalle cose, prima che le luci si spengano.
Tra due mondi che si sfiorano,
s’interpone una forza, invisibile, che agisce
e li trasmuta: sai di cosa parlo. La logica della vita
non è vivere, ma restare nel suo nido di fuoco,
accoccolarti tra le piume, prima
di ogni verdetto.
Né ira né furore, né fiamme che bruciano
sulla pazienza dei tuoi occhi. Come può essere
che una freccia traversi
il ferro che stride di un cielo? Vorrà dire
che qualcosa è accaduto, che il tempo si è conficcato
fra un interstizio e l’altro, come un palo inatteso.
Oltre i vetri, c’è un secolo che preme, e urge, e si sfilaccia
di un disordine promiscuo, di cose.
Tra il seme e il tempo necessario, fra l’intenzione
e la pienezza dell’animale, si leva un buio imprevisto,
che non abbiamo conteggiato. Mi domando dov’eri,
quando ho guardato in alto, nel fogliame delle palme.
Dov’ero quando fu deciso che il vento battesse
anche per noi, prima di ogni scopo,
e di ogni decisione.
Noi, poco prima che gli spalti si svuotino,
a un passo dal traguardo, fissi
sui blocchi di partenza, nel lume
che c’infiammò per sempre, mentre frusciano
tende, nel primo zampettare, fermi,
in quel buio.
2
Ci sono anfore, nello scuro dei fondali,
e cavi, chiodi, stroppi, scalmi, tutta
un’attrezzeria dismessa,
priva del bene delle nostre mani:
e l’ombra, che passa, di un naviglio.
È l’ora in cui ci prende
una nostalgia del fuoco che strema,
e divampa
sui bordi del campo, e non dà riposo.
Sulla cenere, aleggia la memoria
dell’oro che crepitava. Ronza,
nel ventre di una carcassa,
una colonna di fuoco.
I componimenti Una piuma d’oro (Memoria di Fenice) e Celebrazioni, addii (Catabasi, 2) possono essere accostati intorno alla figura della piuma d’oro, unità di quella veste di fenice che ancora crepita nell’oro sopra alla cenere (Sulla cenere, aleggia la memoria / dell’oro che / crepitava. Ronza, / nel ventre di una carcassa, / una colonna di fuoco ). Nel cammino poetico dell’opera Una piuma d’oro (Memoria di Fenice) si pone come una svolta incandescente, perché afferma non soltanto la continuità della vita di fenice personificata (L’anima che vola via dai suoi tormenti / ne sa forse meno di noi: muore / per vivere ancora[…]), ma l’esistenza della fiamma eterna nell’animo umano (fissi / sui blocchi di partenza, nel lume / che c’infiammò per sempre). Già sul finire della prima stanza si anticipa lo spiraglio, l’attesa, la scintilla di dubbio che s’infiltra e diviene infinita potenzialità dentro a tutte le cose (Ricordo una sera in cui eri qui, e mi dicevi / che non c’è fuoco che possa durare per sempre, /e che questa è la legge del mondo: ma io ti chiesi / di quale mondo parlassi.).
Nella seconda stanza, si dipinge il caricarsi della fiamma, nell’attesa di un nuovo principio di cui si scorge un primo fremito (C’è sempre molta attesa, quando una porta si apre. / Ci carichiamo di un nuovo principio, a un passo / dalle cose, prima che le luci si spengano.). È la stessa attesa del buio imprevisto, nel primo di queste due poesie che accostiamo (Tra il seme e il tempo/ necessario, fra l’intenzione / e la pienezza dell’animale, si leva un buio imprevisto, / che non abbiamo conteggiato).
All’attesa si svela l’intenzione, la sola che porterà alla pienezza degli esseri dotati di anima e soffio vitale: […] Mi domando / dov’eri, quando ho guardato in alto, nel fogliame delle palme. / Dov’ero quando fu deciso che il vento battesse / anche per noi, prima di ogni scopo, / e di ogni decisione.
Il vento raffigura lo spirito, il soffio che fa propria la forza della fiamma ed è invisibile, che non brucia ma crea. Ricorderemo il vento in questo modo quando leggeremo, già avanti nel cammino di lettura dell’opera, sul finire di Come in un lungo sonno: E guardi, e pensi / com’è tutto opera del vento / ma non soffia vento.
Perché non soffia questo vento creatore, se non perché raffigura lo spirito, immateriale ed invisibile che tutto crea e volge verso l’eternità?
È questo il protendersi dell’anima di Celebrazioni, addii (Catabasi 2) verso qualcosa / – un soffio, una piuma, un niente – / in un tempo di suoni fervidi, allegri / fatti di acqua semplice, / che non si estingue. Dall’umido stagnante dei primi componimenti guardiamo qui un’acqua semplice e imperitura, un elemento antico che riaffiora nella bocca di una fonte selvosa e scura in cui ti imbatti, annunciataria del fuoco, in un bruciare della mente, che mostra il sentire al di sopra.
Prima del bruciare però serve un affidamento alla dimensione ulteriore, sostanziata dal richiamo al sogno prima e poi dalla preghiera accennata ed essenzialissima in questa penultima stanza (E guardi, e preghi / e senti / cos’è natura, / e il perdersi). La preghiera porta a sentire la natura, a perdervisi come ogni suo ente partecipe della vita, nel fitto mistero del mutare dei velami del cielo e del loro inabissarsi.
Insieme con i cieli s’inabissa il poeta bambino che, capace di conservare la capacità di sognare, giunge oltre il tempo alla Catabasi poetica (Da Mani (E viene scuro): Come un bimbo che scende / urto contro urto, fiato dopo fiato / nel buio di una cantina.
Per concludere la riflessione sopra riguardo questi due componimenti affiancati, che in modo complementare ci accompagnano all’ultimo slancio dell’opera di Pontiggia, proponiamo l’immagine che più delle altre sentiamo provenire direttamente dal mondo onirico, perché trattiene in sé la forza necessaria per affiorare dalle profondità dell’inconscio fino al risveglio: le anfore nello scuro dei fondali.
In questo nero marino le anfore si vedono inspiegabilmente, sorgono alla nostra mente con tutto il loro colore arrossato, nonostante la più abissale oscurità dei fondali. Crediamo che la figura poetica delle anfore nello scuro dei fondali, insieme con i cavi, i chiodi, gli stroppi, gli scalmi del fare poetico abbandonati nelle profondità, risvegli il movimento antico nella visione partecipe interamente dell’inconscio (sempre simboleggiato dalle profondità oceaniche) e spieghi a livello figurale la brillantezza della parola, che sempre si rende viva nella mente e poi nel cuore. Se in un primo momento il nero dei fondali oceanici sembra precluderci la possibilità di recuperare queste figure – e con loro il fare poetico dei poeti sempre visti come fabbri di luce – è proprio nel nero profondissimo che troviamo la massima vividezza immaginativa delle anfore e di tutte le immagini della parola.
E così Anime, stridono (Le ragioni della vita e della morte), raffigura in pienezza il nascere della ricerca dell’estremo. Fa da ponte essenziale per il percorso poetico, perché esprime la vita che si spande in oasi di luce, / è miele, oro, /che si riversa sulla lingua che s’incanta. La vita–oro è in perfetta consonanza con il fare brillante della poesia, con la fiamma continua, le anfore nello scuro dei fondali, come un tesoro nelle profondità marine che si svela al nostro sguardo.
È questo, crediamo, il senso ultimo della catabasi riproposta come conduttore nella seconda stanza di Anime, stridono (Le ragioni della vita e della morte), che riproponiamo in estratto per ulteriore vividezza:
da Anime, stridono (Le ragioni della vita e della morte):
guardaci, se puoi, se ancora puoi,
nell’estremo
delle cose del mondo che bruciano, è
come essere in un nero
che abbaglia, come
scendere una scala, aprire una porta, trovarsi
all’improvviso in alto
Ci accostiamo al nero / che abbaglia in quest’ottica verticale di intenzione e di pienezza, di profondità estrema con il finale recupero universale dell’altezza poetica, che il poeta auspica e suggerisce con il suo fare poetico in prima persona.
Cosa sta in alto, dove veniamo a trovarci all’improvviso? Il poeta trova le figure più alte sul finire dell’opera, all’apice del sentire infiammato oltre la riflessione.
Fino a questo punto abbiamo guardato alla nascita dell’intenzione poetica e conoscitiva fondata sul vero della parola oltre il bruciare delle cose del mondo: cosa accade oltre il tempo? Perché arrivare alla dimensione ulteriore se questa non viene delineata estensivamente? Cosa si svela nell’oltre che cerchiamo da sempre come esseri umani?
E soprattutto come può il nero, che pur splende, partecipare dell’innocenza del bambino che sogna e raccoglie l’uva nera di qualche infanzia, su cui abbiamo riflettuto all’inizio?
Siamo ancora sospesi nella massima tensione poetica: si deve giungere alla dimensione ulteriore.
FRUTTI, ALBERI, TOMBE
Cade alla vita, il bimbo,
chiuso
nel suo sonno di natura
lo accolgono
i graspi dell’uva,
il succo delle prime more
la memoria dell’estate
prima di ogni estate, il fiore
scuro dell’inesistenza
Fuori
è la storia con i suoi emblemi
di morte e di salvezza, il tripode
che vaticina, il becchino di Amleto,
l’albero del bene e del male, il cuore
che prima o poi capitola
Qualcuno, alla fine,
ritrova il suo inizio, altri
discettano del vero
e del non vero, stridono
le tube dell’Apocalisse,
un fico scurissimo, cade
dolcemente sull’essere del mondo,
lo raccogli
*
L’intimità si svela nel penultimo componimento della raccolta, nel momento finale della gioia inattesa. Lo scuro delle stanze fa sì che permanga nelle cose un segreto inconoscibile, un infinito vero e non detto. Nessuno, soltanto la persona che amiamo e che guardiamo nel dialogo di vita e di poetica scorge questo brillare essenziale e per questo così intenso: Torniamo / allo scuro delle stanze, e ai lumi che ardono / e nessuno che lo sappia, oltre a noi / che ci guardiamo.
È questa intimità che rende partecipe la dimensione bambina del mistero scuro delle cose, il nero che abbaglia si accosta al bambino attraverso il colore del tralcio d’uva che coglie fin dall’inizio, e che continua a cogliere nell’immagine del fico scurissimo fino al giorno dell’Apocalisse, oltre il tempo. (Qualcuno, alla fine, / ritrova il suo inizio, altri / discettano del vero / e del non vero, stridono / le tube dell’Apocalisse, / un fico scurissimo, cade / dolcemente sull’essere del mondo, / lo raccogli). Soltanto così possiamo veramente comprendere l’ultima stanza della seconda poesia che abbiamo proposto all’inizio e che è cardine dell’intero cammino poetico: Qualcuno che sogna.
Riproponiamo la stanza nella sua forma propria, perché possa riaccendersi alla luce delle nostre considerazioni:
[…]
C’è una tavola
e del pane e del vino
e un ospite che dorme,
forse sogna
se lo vedi, non chiamarlo
è solo un bimbo che gioca,
e non sa di sognare
Ci sporgiamo verso l’impressionante mistero della parola poetica come delle cose, e guardiamo nell’ultima opera di Pontiggia all’elemento messianico e salvifico della persona oltre che della parola: dall’acino d’uva colto da un bambino, fino al vino della tavola della Passione.
Infatti, se il sogno annuncia l’eternità di fronte al sentire poetico e alla vita, è l’esistenza cosciente stessa di ogni essere umano ad essere toccata e trasfigurata in questi versi, perché la nostra vita nel suo fermento si svolge fino alla fine dei tempi.
Proponiamo in conclusione l’ultimo componimento, In un fuoco, che svela tutta la forza delle fiamme, che ardono e mostrano la chiave per cogliere i significati dell’intera opera La Materia del Contendere:
IN UN FUOCO
In un fuoco
in un fuoco che arde,
tra spighe, nel fianco, in un cuore
possente, ferito, dentro
la terra in cui si raccoglie
polvere e polvere di anni
spighe
e polvere di anni nel legno
scuro di stanza, contro
il fianco
possente del mondo, nell’urto,
in un cuore, nell’urto, sul fianco
della terra, tra
spighe, possente, ferito
cielo e terra e ombre
che si muovono nello scuro
di una stanza, di un fianco
ferito, possente in uno
spiraglio di mondo, in uno
spiraglio, in un fuoco
che arde
