
Immagine di copertina: camera di riverbero eletromagnetica
Quest’anno sono usciti, a distanza di due mesi l’uno dall’altro, due libri che stanno agli estremi del ventaglio di pubblicazioni di Gian Mario Villalta: a settembre il volume Garzanti che raccoglie “le cinque principali raccolte” di poesia, mentre a novembre, nella collana Le parole della poesia di Vallecchi il saggio dedicato alla parola Voce. Se il primo dei due è un compendio della produzione in versi di Villalta, il secondo propone alcune possibilità di lettura e interpretazione con cui ricostruire la voce di testi classici della poesia italiana:
Pur mutando nel corso secoli, la forma della poesia è data da quella composizione di parole che sorge dalla voce del poeta (dai suoi caratteri e dai suoi limiti) per realizzarsi propriamente in una serie di sequenze espressive che danno corpo a un’altra voce, predisposta all’incontro con un fruitore. Si ricrea sempre di nuovo nel tempo una dimensione della parola (voler-dire e ascolto) che si edifica sulla comunicazione sociale, ma che la trascende in favore di una comunione radicata nell’esistenza di un corpo-psiche. […] Il poeta compone una seconda voce, seguendo l’eredità della forma poetica che dalle lontane radici del canto giunge fino a lui. A sua volta, ascoltatore o lettore, il fruitore si predispone all’incontro con quella voce. Egli non si “appropria” di quella voce, né “restituisce” la voce del poeta, ma viene convocato per un incontro, che può fallire, e che può anche riproporsi in modo del tutto differente nel corso della vita. Proprio perché è un incontro, la “lettura” aumenta di senso nella frequentazione, ma è esposta a costante mutamento, mai compiuta una volta per sempre
Allora abbiamo pensato di far reagire queste due pubblicazioni, l’opera quasi-omnia in versi e le letture critiche di poesie altrui, provando a leggere la prima poesia del volume Garzanti nel modo in cui Villalta legge le poesie nel volume Vallecchi, stando attenti alle svolte che nel testo costruiscono la voce della poesia.
Nel 2022, con il volume auto-antologico Autofiction, nella collana Opale diretta da Temporelli per l’editore Ladolfi, la data di inizio per la sua produzione era stata fissata al 1982, anno dell’esordio de facto, con Traccia; adesso, viene spostata in avanti di almeno sei anni (considerando che in Vose de Vose, 1995, confluiscono testi editi già nel 1988) se non addirittura di dieci, dato che il primo testo che leggiamo è Voci divise di quale racconto: un testo lungo dall’impianto poematico che apre L’erba in tasca, 1992, Scheiwiller. Non è quindi scontata, come abbiamo visto, la scelta di aprire un volume di quasi settecento pagine con questa poesia, che merita l’attenzione particolare che stiamo per dedicarle.
La prima cosa che notiamo è che la divisione delle voci nel titolo trova una concretizzazione immediata nella struttura della poesia, composta da una successione di discorsi diretti che vengono aperti, ma non chiusi, dal segno grafico dei «», caporali. Se dovessimo fare una lettura “accompagnando” lo sviluppo di questa poesia, dovremmo chiederci subito cosa comporti questa successione di discorsi divisi che restano aperti: sono divisioni regolari, come in un coro? Oppure si tratta di divisioni disordinate, con interruzioni e sovrapposizioni? Le voci iniziano il discorso sapendo che non potranno chiuderlo, oppure vengono sopraffatte di volta in volta dalla successiva? C’è in realtà un unico discorso che viene chiuso dalla punteggiatura, e dura un solo verso “«è pieno… di altri giorni…»”. Che sia una chiave di accesso privilegiata per leggere la poesia ce lo dimostra il parallelo con l’inizio del testo:
«un altro giorno
forma la sua nuova pelle
tutta intera, grigio
azzurra, con piccoli grumi
di origini, ora
Seguendo questa idea degli altri giorni, possiamo pensare a ogni voce come se fosse un altro giorno: una comune unità di tempo limitata, ripetibile e quindi variabile che però, nella sua interezza, presenta degli accumuli delle precedenti, espresso dai “grumi / di origini, ora”, dove sentiamo l’aggrumarsi di “or” iniziale in “origini” e “ora” dall’iniziale “giorno”, “forma”, ma anche di “ra” finale da “intera”, “azzurra” in “ora”. L’ultima parola del primo nucleo è di fatto un riverbero, più che un’eco, dei suoni che l’avevano preceduta, e chiudendo la prima strofa dà l’avvio alla strategia di riverbero che diventa strutturante in tutte le successive. Nella seconda strofa, che si collega sintatticamente quasi per sbaglio/miracolo alla precedente, succede la stessa cosa:
ora //
«è dicembre
davanti alla scuola, quel mese
che manca a ogni anno
che manca alla vita
per compiersi. Mese del gelo
giusto e vero dell’io-dal-seme-
fatto-albero che ha dato frutto
fino a restare uno
nell’unico non più soffrire,
nell’aversi alla fine
del suo sé fino all’ultimo offrire
È particolarmente evidente negli ultimi cinque versi, il primo dei quali viene racchiuso nella consonanza -tto di “fatto-frutto” che dà avvio alla serie allitterante in f “fino”, “soffrire”, “fine”, “fino”, “offrire”, con due sequenze sotterranee fatte di microvariazioni, “fino” che diventa “fine” per fare assonanza con “soffrire” e “offrire” inserendosi fra di loro per dissimulare la loro quasi identità ridiventando “fino” prima di offrire: leggendo pensiamo che il riverbero in atto sia “fino”-“fine”-“fino”, per scoprire nell’ultima parola dell’ultimo verso che il riverbero invece è “soffrire”-“offrire”, che ha tutto un altro peso. Ma anche all’inizio ci sono riverberi: la seconda sillaba dei versi 2°, 3° e 4° è in “an”, non accentata in “davanti”, accentata nei due “che manca”, fra i quali si inserisce un altro “an”, per anno. Tuttavia, anche qui c’è una dissimulazione, dal momento che la seconda sillaba dei versi 1° e 5°, che fanno da cornice a questi, è accentata in m+bilabiale, sonora in “dicembre”, sorda in “compiersi”, con un suono più ricco rispetto alla n dei versi centrali. In tutto questo anche, nel centro del testo, dopo il punto fermo, l’inversione sillabica tra “mese” e “seme”. Abbiamo capito a questo punto che le voci sono riverberi: si accumulano rapidamente non per ripetere in maniera identica a se stessa il suono di origine, come fa l’eco, ma per prolungarlo, come fa invece il riverbero. Questo si verifica anche per certe immagini ricorrenti, che vengono riverberate, come succede con la scuola: compare prima in
«davanti alla scuola che idea
trovarmi una mattina di spalle
vedermi disfarmi come cera
fino a non conoscermi mai più.
Sarebbe un sogno al suo posto
entrare tirate fuori
dire i quaderni: «Cosa credete
che diventiamo…
sempre con il riverbero del pronome enclitico “mi” “trovarmi”, “vedermi” e poi apparentemente concluso con “disfarmi”, che logicamente, col disfacimento, sembra chiudere la sequenza, complice “me” finale in “come” che trasforma in allitterazione il riverbero, per ripartire e chiudersi davvero con “conoscermi”, la conoscenza quindi come un rilancio oltre il disfacimento di se stessi. Anche una lettura metrica lo conferma: prima un novenario “perfetto”, tre nuclei da tre sillabe con accento sulla sillaba centrale di ciascuna; poi un verso con un nucleo da tre sillabe, uno da quattro e un altro da tre, che aumenta la misura inserendo un elemento in più; una altro verso ancora che sposta il nucleo da quattro sillabe (giambico) alla fine e lo precede coi due nuclei da tre; infine, chiude la sequenza un verso di nove sillabe, come il primo, ma con l’accento tronco, sulla nona, come gli altri due precedenti. La scuola in questa strofa, con la complessa sintassi di “entrare tirate fuori / dire i quaderni: «Cosa credete / che diventiamo”, che andrebbe sciolta in “entrare, dire: tirate fuori i quaderni e [dettare]: “Cosa credete che diventiamo [quando moriamo, dato il disfacimento di prima, con una classica impostazione da tema]”, è ancora il luogo di apprendimento, come da aspettativa. Ma ora irromperà il lessico militare, associato poi con ironia al carnevale e all’uso della parentesi tonda, con il verso che prende in prestito certi tratti del Montale più beffardo (“ubriachi / di evviva tra i saluti / seguono la samba degli ottoni / sullo strapiombo” (Villalta), con la “samba degli ottoni” e “i saluti” che ricorda il mottetto “Addio, fischi nel buio” e la sua orrida / e “fedele cadenza di carioca”, ricordando anche che il mottetto montaliano presenta i suoi “automi” dall’inizio, mentre Villalta si gioca i “soldatini di piombo” alla fine. Curioso che sempre nel 1992, in Il secondo diario minimo, Umberto Eco avrebbe monovocalizzato in “a” questo stesso mottetto e sostituito a “carioca” “samba”: “assatanata d’asma l’atra samba”); e prima ancora ci sarà una scena di cucina, con “brocca”, “catino”, e “lino” (con la rima interna “catino-lino” agli estremi del verso: “e il catino, l’asciugamano con il suo lino”, dissimulata da “asciugamano”, che finisce sempre con la stessa sillaba “no”, ma senza rimare). Tra la svolta “domestica” e quella “militare” (casa e distacco) si colloca l’unico virgolettato chiuso della poesia, di cui abbiamo già parlato. Ma dopo la svolta domestico-militare-carnevalesca, si ritorna l’appello:
(Non credere di riconoscermi
per così poco – sono tanti
a fare l’appello…
«Sono murati insieme
a noi nella stanza accanto.
L’infanzia, l’adolescenza
hanno più confidenza
con la morte
«viene il momento
di decidere e non tocca a loro
scusarsi, firmare, non devono nulla.
Voteremo – noi pure -
distratti
il sì e il no, quella lettera
per trovare dicembre
davanti alla scuola… «Parlami
della tua… «Della prima…
Rispetto alla scuola di prima, di primo impatto elementare, nelle ultime due di queste strofe viene messa in atto una crescita vertiginosa: con un virgola “l’infanzia, l’adolescenza” si passa da un’età all’altra, sempre “scolastica” e nelle seguente strofa si passa a un’altra età ancora, quella adulta, con il voto da referendum (in quel il sì e il no risuona, in maniera inquietante Celan che esorta a parlare, anche per ultimi, ma banalizzato nell’ambito ridottissimo del referendum), che rimane sempre nella scuola, che tendenzialmente è il luogo delle sedi elettorali. In due strofe allora lo spazio della scuola viene attraversato da infanzia, adolescenza e maturità, diventa luogo del riverbero e riverbero esso stesso, con altre due consegne finali “da tema” per ricollegarsi alla precedente comparsa della scuola. Arrivati a questo punto siamo arrivati oltre la metà, e la poesia è pronta per esasperare il meccanismo che l’ha strutturata sin qui:
«uno è già là di noi, con il fieno
e l’acqua sui vetri, pellicole
per luoghi immaginati dialoghi
appena riscritti, ti… «mi
fai ridere
«dica
il numero di matricola
Nel quarto verso la ripetizione dello stesso suono diventa evidente: l’ultima sillaba di “riscritti” riverbera in “ti”, un pronome che non conteneva, che poi si trasforma in un altro pronome, “mi”, da cui dipendono le due frasi successive: “mi fai ridere” e “mi dica il numero di matricola”. Il pronome riverberando è capace di accogliere frasi pronunciate in contesti differentissimi, quello intimo e affettivo e quel formal-burocratico universitario; il “mi” trasforma chi ha davanti in tu o lei. Di nuovo: sarebbe sbagliato parlare di eco, perché l’eco, avendo più spazio, e dunque più tempo, tra la fonte del suono e la superficie su cui “rimbalza”, può ripetere in tutta sicurezza. Il riverbero ha meno distanza a sua disposizione rispetto al suono da cui origina, meno tempo ma più superfici vicine, quindi accresce e trasforma le onde sonore. Anche nelle strofe successive, con i versi: “Inghiottono il tempo / con tutti i semi” arriva il riverbero dell’inversione sillabica da “mese” a “seme”, che diventa produttiva facendo intravedere in “semi”, accostato a “tempo”, la parola “mesi”: ricordando che dicembre tra i mesi è quello “che manca alla vita per compiersi” e proprio a questo punto, quando si ripresenta il suono della seconda strofa, e nome di dicembre non viene detto, il testo viene allineato per la prima volta a destra, con i versi: “«vengono dopo e non appartengono / riaffiorano” e poi, a destra, “a nessuno / senza fiato – da dove / il nome che ti porta / da quanto lontano”. Qui la poesia ci chiede di operare una ricomposizione: a destra ci sono tre verbi (“vengono”, “non appartengono”, “riaffiorano”); a sinistra, in ordine sparso, gli elementi che completano i verbi (“a nessuno”, “senza fiato”, “da dove”), che ricomposti per affinità tematiche danno: “vengono dopo da dove”, “non appartengono a nessuno” (ricordiamo che prima si legge “la prima volta prima ancora / che ci appartengano i gesti”), “riaffiorano senza fiato”. Ma questo nella poesia non succede: è un riverbero latente che, con la spia dei versi allineati in controtendenza rispetto al resto del testo, sta a noi ricomporre. La seconda parte della strofa a sinistra: “il nome che ti porta / da quanto lontano” si ricollega invece direttamente alla seconda (e ultima) parte allineata a destra: “a riconoscerti / «voce di altri / invenzione / da quanto”. A livello metrico, c’è una continuità qui, nella misura di affievolimento: “il nome che ti porta” è un settenario, il verso dopo è un senario, il primo allineato a destra è un quinario, quello dopo ancora un quinario ma zoppicante, “«voce di altri”, che per essere letto come quinario richiede una dieresi tra “di” e la “a” accentata di altri”, seguito da un quadrisillabo “invenzione” e un trisillabo “da quanto”. La poesia è arrivata a uno stato di quiete, e infatti per ripartire deve puntare a raggiungere il suo punto più vertiginoso, riallacciandosi all’ultima parola allineata a sinistra prima dei quattro versi a destra di affievolimento:
«lontano
a chi, col tuo nome, rivolge
un mondo, lo imprime, mi
«di…, e di…, mi…
di me… e anche di… i… i
la punta dell’i
al centro dello
………………
schermo fragile di pioggia
che attraversi
«è luce
di superfici, il tempo del giudizio
ricusabile, delle udienze a sorpresa
«libero
sulla parola
«da dove
distilla la voce che il nome
ripete intraducibile
di nuovo qui, sillaba, mi…
Tra i due “mi” dopo la virgola (“imprime, mi” e “sillaba, mi”) la poesia cerca di portare il tu ad attraversare lo schermo, la barriera della lingua, quando, una volta che il segno viene separato dal referente, si scopre che anche all’interno del segno è possibile separare significato e significante; la sequela lallalizzante che parte quando dall’ultima sillaba di “imprime” si prova a ricavare il pronome “mi”, come già prima da “riscritti” si era ricavato (riscritto) “ti”, per arrivare sempre a “mi”. Ma questa volta non funziona, e prende voce riverberando il solo significante: “«di…, e di…, mi… 7 di me… e anche di i… i…” In un certo senso, a riverberare qui, insieme al “mi fai ridere / mi dica”, sono le domande per il tema: “«Parlami / della tua… «Della prima”, e siamo ancora nella scuola. Quel “mi” poi diventa pura scrittura: “la punta dell’i / al centro dello”; e non è un caso che questi versi non siano introdotti dai caporali: non c’è più una voce, ma solo scritto, con uno zoom in cui pallino della “i” coincide con il centro della “o”, punto e vuoto, andando a costruire uno strano “io”. Dopo questa svolta, l’unica possibilità sembra essere solo il tratto grafico: i diciotto puntini di sospensione che non sono neanche un segno, solo una barriera nel testo. A questo punto però la voce si rifiuta di fare questo passaggio: se questa poesia fosse stata un processo in linea retta si sarebbe conclusa qui, e invece prosegue ridimensionando la barriera di puntini, e riallaccia significato e significante definendola “schermo fragile di pioggia / che attraversi”. Rivendica dunque la possibilità di trasformare l’ottusità al centro della lingua in un ostacolo sormontabile dandogli un nome che lo distrugge nel momento stesso in cui viene usato, un gioco di prestigio che riesce: dicendo che viene attraversato lo si fa attraversare e lo si supera. In questo senso si può essere “«libero / sulla parola”, e quando questa “sezione” si chiude ritornando alla generazione di “mi” per riverbero, questa volta per assonanza da “qui”: “di nuovo qui, sillaba, mi…” lo fa aggiungendo una sillaba in più rispetto a “un mondo, lo imprime, mi”, sempre nell’ottica di un superamento. A questo punto la poesia entra nella sua ultima fase, dove soppesa tutto il percorso fatto finora:
«mia perduta
mente da me
sconfinante – vocante in che oltre
confine al rivolgersi
degli istanti, degli anni, come zolle
e questo nuovo ogni giorno
questo
Evidenziamo subito come i primi tre versi rimettano in funzione il dispositivo del riverbero. Al centro c’è “mente”, in allitterazione prima con “mia”, poi ripresa nella sua sola prima sillaba in “me”, e poi riattivata nel suo “nte” finale da “sconfinante” e “vocante”. “Vocante” e poi “oltre” in successione fanno venire in mente, a un lettore avveduto, l’arco che va da Vocativo a l’oltranza-oltraggio di Zanzotto/Dante in La beltà, il momento di ridiscussione di una poetica. Non c’è bisogno di ripetere cose dette all’infinito su Zanzotto: mi interessa rilevare come in questo punto del testo, prima della fine, vengano chiamati in causa un maestro e una determinata esperienza di poesia, prima di arrivare a quel momento in cui contenuto reale (le cose “dette”) e il contenuto di verità (le cose “interpretate”) arrivano quasi a coincidere:
«è il viso.
La voce rimane fuori
dal mondo… il mondo
dentro la voce
«un braccio perduto nel fogliame
della notte
«un passo davanti
all’altro, ritorni in te in tempo
per accettarti. E non vuoi più rendere
il male che ha conquistato
Quando la poesia arriva a dire che “la voce rimane fuori / dal mondo… il mondo / dentro la voce” (ricordando che all’inizio della poesia si leggeva: “quanto vorrei la tua voce / e quasi è in gola”, e che possiamo leggere tutto il testo come il tentativo di ridurre quel “quasi” per cancellarlo e avere “in gola” la voce) sta dichiarando quanto finora ha mostrato: la voce non sta nel mondo, perché non è una lingua (e qui ritorniamo a quanto Villalta scrive nel saggio Vallecchi), ma è capace di contenere il mondo nella misura in cui quest’ultimo, che è la sua origine, continua a riverberare in lei: come ricordo, come fantasma, come suono, nello stesso modo in cui “in te” riverbera dentro “in tempo”, o “un braccio perduto” in “un passo davanti”, ricordando che per il riverbero c’è bisogno di una superficie solida che arresti il suono e lo cacci verso un’altra barriera ancora. In questo sistema, la chiusa della poesia, con lo straniante scarto sintattico “Non vuoi più [tu] rendere il male che [il tempo? Indefinito? Spazio lasciato aperto?] ha conquistato”, alza con il male un’altra barriera, che spinge a leggere di nuovo un testo che, essenzialmente, vuole essere pronunciato, a riverberarci all’inizio, all’origine. Ponendo questa poesia, evidentemente metapoetica, in apertura a quello che in questo momento può essere presentato come libro-testimone di un percorso, Villalta getta le basi per una modalità di lettura che andrà poi applicata prima a L’erba in tasca nella sua interezza, che non è riducibile principalmente al solo discorso metapoetico, e poi al resto del volume. La pubblicazione, a margine, del piccolo saggio Voce diventa una delle pareti da opporre alla voce del libro tuttelepoesie, per rimandarla indietro verso se stessa ma potenziandola, prolungandone l’ascolto con l’approfondirla invece di ripeterla.
Riporto ora la poesia nella sua interezza
VOCI DIVISE DI QUALE RACCONTO
«un altro giorno
forma la sua nuova pelle
tutta intera, grigio
azzurra, con piccoli grumi
di origini, ora
«è dicembre
davanti alla scuola, quel mese
che manca a ogni anno
che manca alla vita
per compiersi. Mese del gelo
giusto e vero dell’io-dal-seme-
fatto-albero che ha dato frutto
fino a restare uno
nell’unico non più soffrire,
nell’aversi alla fine
del suo sé fino all’ultimo offrire
«vieni…
unicamente
perduta… vieni
«nel fuori di sé nell’immagine
dove il corpo vorrebbe al sé
ricongiungersi – un’altra volta
perduta…
«più perduta
quando vorrei la tua voce
e quasi è in gola. Dicembre
martella lamiere
«davanti alla scuola che idea
trovarmi una mattina di spalle
vedermi disfarmi come cera
fino a non conoscermi mai più.
Sarebbe un sogno al suo posto
entrare tirate fuori
dire i quaderni: «Cosa credete
che diventiamo…
«in cucina
la lavano con la brocca
e il catino, l’asciugamano con il suo lino,
come sempre,
e tre giorni di veglia il tempo
di diventare di noi,
con la sua nuova lingua,
il suo viso assorto
«chi vuoi che guardi
i polsini sporchi, i capelli se piove
«è pieno… di altri giorni…»
«Le date
sbucano all’improvviso,
divorano ogni sapere
«quando comincia chi si diventa
la prima volta prima ancora
che ci appartengano i gesti,
come difendersi
«con le orecchie
gelate, le teste di cane, le divise
che abbiamo smesso, qualcuno
ci aspetta da qualche parte
del sonno, ci sono ordini…
(Mimano quell’attesa
mentre accade...
«catturano lo sguardo
arrotando di un baleno
di mortaretti, ubriachi
di evviva tra i saluti
seguono la samba degli ottoni
sullo strapiombo, è il carnevale
dei nuovi iscritti, la sfilata
dei soldatini di piombo
(Non credere di riconoscermi
per così poco – sono tanti
a fare l’appello…
«Sono murati insieme
a noi nella stanza accanto.
L’infanzia, l’adolescenza
hanno più confidenza
con la morte
«viene il momento
di decidere e non tocca a loro
scusarsi, firmare, non devono nulla.
Voteremo – noi pure -
distratti
il sì e il no, quella lettera
per trovare dicembre
davanti alla scuola… «Parlami
della tua… «Della prima…
«fienagione, poi nuvoli
neri d’inferno – corri! -
il vento in faccia, poi l’acqua
sui vetri… «raccontami
e poi?
«uno è già là di noi, con il fieno
e l’acqua sui vetri, pellicole
per luoghi immaginati dialoghi
appena riscritti, ti… «mi
fai ridere
«dica
il numero di matricola
«… e quella
musica, séguila, quale più sana
estasi, più breve terapia per riaversi
(anche se non tutti interi)
(anche se un poco diversi)
il ricordo, ottima esca
«i visi
abboccano, anche con questo vento,
questo fondale grigio,
hanno fretta, hanno fame di tutto.
Inghiottono il tempo
con tutti i semi
vengono dopo e non appartengono
riaffiorano
a nessuno
senza fiato – da dove
il nome che ti porta
da quanto lontano a riconoscerti
«voce di altri
invenzione
da quanto
«lontano
a chi, col tuo nome, rivolge
un mondo, lo imprime, mi
«di…, e di…, mi…
di me… e anche di… i… i
la punta dell’i
al centro dello
………………
schermo fragile di pioggia
che attraversi
«è luce
di superfici, il tempo del giudizio
ricusabile, delle udienze a sorpresa
«libero
sulla parola
«da dove
distilla la voce che il nome
ripete intraducibile
di nuovo qui, sillaba, mi…
«mia perduta
mente da me
sconfinante – vocante in che oltre
confine al rivolgersi
degli istanti, degli anni, come zolle
e questo nuovo ogni giorno
questo
«è il viso.
La voce rimane fuori
dal mondo… il mondo
dentro la voce
«un braccio perduto nel fogliame
della notte
«un passo davanti
all’altro, ritorni in te in tempo
per accettarti. E non vuoi più rendere
il male che ha conquistato
