
Si consiglia la lettura col telefono in orizzontale
I testi ancora inediti di Francesco Ciuffoli che proponiamo qui stanno nel buio; tuttavia, ciascuno sta nel proprio ordine di buio, nel proprio grado. C’è il buio abitato della città: una notte urbana che fa fantasmi, spettri nel senso inteso da Fisher, ossia i futuri a cui è stata negata la possibilità di esistere dalle condizioni del presente ma che persistono infestandolo in maniera spettrale: “la pioggia, i tuoni o i resti di quel fiume in piena / che saltano fuori come fantasmi dalla strozzatura di un tombino / Allu squagghiare te la nie[1]… siamo così diventati adulti / e non c’era più niente / in cui credere, niente su cui poter contare”. È anche nell’ottica del proporsi fantasmatico (e deprimente) del futuro che in queste poesie si guarda al diventare adulto, in un incontro con un’altra persona: “Al primo raggio anestetico di un'alba, su una panchina. / Dove ci siamo – soli-noi-due – giovani adulti / Sposati ancora”. Il “tu” in generale non è chiaro se si riferisca a se stessi, a un’altra persona o a un fantasma (per come lo abbiamo definito prima): leggendo bisogna prima dirimere e poi decidere, ricostruire. Infatti, l’altro buio in cui stanno queste poesie è il buio tecnico della camera oscura, l’ambiente in cui, a patto di rinunciare al proprio corpo diventando solo vista, si fa entrare tutto il mondo in un fascio di luce per uno spiraglio ridotto che illumina l’oscurità, ma mostrandosi capovolto. “un segno nuovo come un sorriso oscuro”; “il ribaltamento del visibile, di una camera oscura // una gioia che allena i muscoli facciali a sorridere facilmente”. Il patto implicito della camera oscura è questo: rinuncia all’esperienza del mondo per poter disporre come vuoi della sua immagine, ma distorta, capovolta, in un ambiente sicuro. La poesia italiana contemporanea nel 1980 ha accolto, dopo le porte sfondate degli anni ’70, la camera oscura allestita da Magrelli in “Ora serrata retinae”: anche il suo libro sta nel buio, che però è il buio rilassante della cameretta che si riversa nella scrittura, e che non è mai troppo distante dal letto, dalle coperte e dal sonno che rende assenti a se stessi: accetta volentieri le tutele della camera oscura e si interfaccia con la versione capovolta della realtà senza ri-trasformarla. Una storia dei dispositivi ottici nella poesia italiana contemporanea, ricalcando gli effettivi sviluppi tecnici nella rappresentazione delle immagini, con un’impennata delle possibilità nel XIX secolo, andrebbe dalla camera oscura al diorama, che come dispositivo ottico restituisce una centralità al corpo che lo deve attraversare. In questo senso è interessante la poetica del diorama di Riccardi, che va messa in relazione con la camera oscura di Magrelli: non un ribaltamento, ma una miniaturizzazione (della propria storia e delle sue tangenze con quella familiare e non) su cui troneggiare. Il passo successivo è lo schermo: dal cinema fino al cellulare, come testimoniano in maniera indiretta o meno altre scritture poetiche contemporanee. Non ho incluso le poesie di Francesco Ciuffoli che traspongono modalità di approccio al reale tipiche degli schermi del cellulare (che esistono), perché mi sembra che anche in quelle qui selezionate, nonostante il tema non venga trattato apertamente, sia comunque possibile chiedersi: cosa succede qui di diverso rispetto al torpore della camera oscura, rispetto al dominio in miniatura del diorama? C’è bisogno di pensare a “Un’immagine pura e in piena luce / in mezzo a cento rovine di lamiere” senza ricadere nel comfort della camera oscura, il prezzo da pagare il ribaltamento del visibile non è più accettabile, puntare alla stella lontana sì.
Se stessi qui e non ci sei. Saprei di certo che fare,
portandoti fuori città
dove i problemi si seppelliscono come i morti
coi piedi nella malta
Dove nessuno ti vede giocare. Oltre quest’inverno incredibile
a quindicimila passi di uomini prima di te
che pare impossibile essere nostra
oggi, questa colpa a voler sopravvivere
per voler vivere / un volervi vivere
[...]
fuori dallo spazio espositivo / tra le rovine di un cielo
solitamente associato al colore della polvere o della cenere
per la pioggia, i tuoni o i resti di quel fiume in piena
che saltano fuori come fantasmi dalla strozzatura di un tombino
Allu squagghiare te la nie[1]… siamo così diventati adulti
e non c’era più niente
in cui credere, niente su cui poter contare
[...]
Ma a ripensarci
Un odore di gas Una cosa immensa
Un rumore di fiamme senza colore nell’atmosfera.
Un trofeo di bue Un ritrovamento
Un teschio Un mosaico / con il suo bel buco in testa.
Mentre l’unto di vecchi lampioni a incandescenza
fa un capogiro di colonne vertebrali e riunisce, sulla scena
come un nuovo disporsi organizzato dei corpi
a cui l’occhio regala ancora belle immagini.
[...]
Così, una volta bagnati i polsi, controllato il battito di percorrenza,
non vedi come è lo stato di alternazione che genera
in questa nuova resistenza di te quest’inverno, la strada,
la produzione che alimenta quella stessa resina
pallida e contenuta
Quest’ultima settimana hai visto poi cadere la neve giù, dritta,
grigia – prima di toccare a terra –
palazzi e strade, persone rotte;
andando per gradi: facce scheggiate, occhi pieni di terrore;
in fila, uno per uno, sotto questo cielo qualunque;
nel macero di un incontro al presente tutto, tutto, tutto:
una notte
che gira da sempre nella testa
come quel sempre che forse non ti riguarda
ma che nei fatti sostiene su di te – almeno non personalmente –
un segno nuovo come un sorriso oscuro
uno pieno di felicità
[...]
Poiché) Noi siamo, noi soli,
nel mezzo di una piazza «che
alba!»
e nella bocca, un ordine giovanile
di bruciare la casa – vedrai –
ora cede posto a quel tuo ridere-annegando, un senso di colpa
che oggi, solo per oggi, se ne va indietro ai palazzi
con tutta la notte.
Al primo raggio anestetico di un'alba, su una panchina.
Dove ci siamo – soli-noi-due – giovani adulti
Sposati ancora
[...]
Ma poi c’è questo discorso della montagna
per la montagna
una frase non fotografabile. Un’immagine pura e in piena luce
in mezzo a cento rovine di lamiere, eternit e mattoni
il ribaltamento del visibile, di una camera oscura
una gioia che allena i muscoli facciali a sorridere facilmente
quella stella lontana su cui puntare, stringendo il dito sul grilletto
Francesco Ciuffoli (Roma, 1999), si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università del Salento, e frequenta attualmente la facoltà di Scienze Filosofiche. Si occupa di estetica e teoria sociale. Ha partecipato a alcuni convegni tra cui l’AIS – International Conference on Political Sociology (Bologna, 2024). Suoi contributi scientifici sono disponibili sia online che in cartaceo (Altraparola, Segni e Comprensione, ecc). In ambito letterario fa parte di Inverso – Giornale di poesia e da poco collabora con La Balena Bianca. Diversi suoi articoli sono apparsi inoltre su altre riviste, come Nazione Indiana. Suoi testi sono inoltre anch’essi disponibili su varie riviste online. Con il libro Cose che accadono la notte è risultato vincitore del premio Arcipelago Itaca (2025).
[1] [Allo sciogliersi della neve]
