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Quando lo storico José Antonio Maravall pubblicò nel 1975 il suo studio sulla cultura barocca La cultura del Barroco. Análisis de una estructura histórica, l’intento polemico dell’opera era più che dichiarato. Maravall si poneva in aperta contraddizione con i sostenitori della teoria sul barocco di Wölfflin, che quasi cento anni prima, nel 1888 (anno di nascita di Ungaretti, sul cui neobarocchismo è stato già scritto di tutto), aveva tentato di definire due tendenze opposte, operanti e rintracciabili lungo tutta la storia dell’arte, il classicismo e il barocco, il quieto e l’irrequieto. Invece, per Maravall il Barocco è un fenomeno culturale altamente storicizzato, una categoria che vale solo per alcune realtà politiche europee (soprattutto la Spagna), e solo in alcuni decenni del 1600; sarebbe quindi assurdo applicare a chiunque al di fuori di questa area l’etichetta di “Barocco” o ”Neo-barocco”. Inoltre, il Barocco di Maravall dipende quasi completamente dalle strutture politiche dell’epoca: un potere accentrato nella persona del re che cercava una forma d’arte che fosse, essenzialmente, una distrazione o divertimento propagandistico che di-vertesse l’attenzione dallo stato pietoso dell’economia della corona spagnola nel XVII secolo. La cultura del Barroco. Análisis de una estructura histórica è un libro che, come avrete intuito, si prende molto sul serio: l’analisi è condotta attraverso lo studio di fonti primarie, con molta attenzione all’archivistica, per quasi cinquecento pagine. Per questo motivo il finale del libro (stiamo per arrivare a Mind-Wandering di Diletta D’Angelo) è inaspettato. Maravall chiude la monografia raccontando in una pagina e mezza quella che secondo lui è la manifestazione più calzante della cultura barocca, che prevede il massimo dispendio economico per il risultato il più effimero e fugace possibile: il fuoco d’artificio, un’esplosione che in un gioco di luci e scoppi di un secondo consuma (brucia) cifre da capogiro. All’aggravarsi della situazione economica spagnola, le esibizioni pirotecniche si facevano sempre più spettacolari, e il libro finisce qui, “di botto”.
Se Maravall chiude con un fuoco d’artifico, D’Angelo incomincia con un fuoco di artificio, che però non si vede più: il pdf che ho avuto la possibilità di leggere in anteprima si apriva con la foto (che trovate come copertina dell’articolo) di un piccolo spettacolo pirotecnico su un ponte. A questo punto arriva la prima poesia del libro, una descrizione della foto che, ricordiamolo, ora non è più presente all’interno della raccolta, per motivi, suppongo, di copyright:
Alèx e Michèlle cantano e ballano lungo il ponte, corrono e urlano tra i blocchi del cantiere
sempre più forte, sempre più cantare, sempre più urlare a sfogare la disperazione a trasformarla
in qualcos’altro o abbracciarla completamente.
Il fotogramma si sovrappone alla vita reale, la educa a sentimenti che non so riconoscere
tristezza o rabbia, paura o dolore.
Alèx e Michèlle sono i protagonisti di un film, presentato qualche pagina più avanti:
Lo ridanno al cinema Les Amants du Pont-Neuf, uno dei film più costosi
di sempre per gli anni in cui è stato girato. Carax mostra il punto di contatto possibile
tra euforia e disperazione, la sensazione di abbandono della realtà, del sé, che le accomuna,
l’ebbrezza e la tragedia dell’esistenza, la sofferenza e l’estasi. Entrambe le emozioni coinvolgono
dopamina e sistema limbico, i due stati sono neurologicamente più simili di quanto si pensi.
(a livello di scrittura non c’è nemmeno bisogno di evidenziare il verso lunghissimo, che a me fa venire in mente Anne Carson, magari The Glass Essay. Ecco alcune caratteristiche di questa poesia: è composta da tre periodi, ma il fatto che i due punti fermi che li separano siano collocati a metà verso dà l’idea di una continuità sintattica; gli ultimi tre versi cominciano allo stesso modo, a coppie: “tra euforia e disperazione” ; “l’ebbrezza e la tragedia dell’esistenza” ; “dopamina e sistema limbico”, in maniera sempre più diradata: la prima coppia è introdotta con “tra”, la seconda dall’articolo e la terza da niente, una specie di conto alla rovescia verso la fine del testo; gli ultimi tre versi finiscono con verbi gradualmente sempre più brevi: “accomuna” accentato sulla quarta sillaba, o terza se pensiamo che la “a” iniziale viene assorbita in sinalefe dal “le” che la precede; “coinvolgono” accentato sulla seconda sillaba; “pensi” accentato sulla prima, quindi di nuovo con effetto diradante verso la fine del testo. Mi giustifico in questo modo il ricorso a versi così lunghi che consentono lo sviluppo di una partitura che non sarebbe possibile tracciare/evidenziare in un testo “continuo”)
Il libro si chiude con tre prose in successione (seguite da un testo finale più lungo): non sono le uniche del libro, ma il loro susseguirsi in questa zona calda (in quanto finale) della raccolta e la ripresa di Alèx e Michèlle nella prima delle tre, che ci riporta all’inizio del libro, sono degli indizi che ci fanno capire che si stanno tirando le fila, soprattutto se si pensa che l’ultima poesia del libro prima di questo spostamento conclusivo verso la prosa svela in un certo senso il “segreto” della raccolta, che non voglio svelare. Infatti, più che i testi di carattere aneddotico/allusivo che fanno i conti con una rimozione e con l’escapismo dal trauma (un buio nel buio), mi interessa l’architettura in cui vengono inseriti: che cosa comporta il fatto che in una raccolta che si chiama Mind-wandering, che ha tre sezioni intitolate tutte secondo il modello “qualcosa o qualcosa” (“fotopsie o pirotecnica”; “escapismo o sogni”; “tatutologie o insight”), con una congiunzione “o” che mi sembra abbia il valore di una non esclusione (non un aut aut, ma una traduzione, del tipo: "smart, o conveniente"; oppure del tipo "leggo libri o riviste"), si concluda con tre prose che rispecchiano queste tre sezioni? Infatti, la prima delle tre riprende l’inizio del libro:
Michèlle, studia arte, è scappata di casa con un occhio bendato. Alèx fa il mangia fuoco, è un vagabondo ubriacone, non riesce a dormire, vive nel cantiere del ponte più lungo di Parigi. Michèlle e Alèx si incontrano lì, forse si amano, non sanno dirselo. La malattia si aggrava, Michèlle sta perdendo la vista, dipende da Alèx, che la guida. La famiglia la cerca, hanno trovato una cura, affiggono dei manifesti, ma lui per non perderla li brucia. Michèlle torna a casa. Si incontrano ancora qualche anno dopo, sul Pont-Neuf ristrutturato, sembra tutto diverso.
E la prosa subito successiva, con “ti perdi nei sogni” riprende il titolo della seconda sezione “escapismo o sogni”, riallacciandosi al contesto da cinema del testo precedente
Esci dal cinema e sei già in macchina. La strada è vuota, liscia, il parabrezza la oltrepassa. Non ricordi che stai guidando, hai introiettato lo sconforto, metabolizzato il gesto. Ti perdi nei sogni, pensi ai ponti, a Parigi, a che cosa oscena sia l’amore, a quante cose possono offuscare la vista.
Infine, l’ultima delle tre completa il disegno con l’arrivo a casa dal cinema, e infatti si concentra sulla dimensione domestica (la cameretta di cui ha parlato su questo sito Luigi Riccio, gli ambienti interni di Ritorno a Planaval di Dal Bianco):
Hai rifatto la casa. Aggiunto buchi alle pareti per nascondere i vecchi crolli. Ogni cosa ha saputo trovare il posto adatto, la geometria conforme. Gli angoli di una sedia a dondolo non conoscono ostacoli alle oscillazioni, le mensole il loro peso. Ma la forma delle gambe non si adatta alla scrivania, le braccia all’altezza dei fili del bucato, al rumore di altri passi, di voci, non si piega la rigidità dei nervi. Hai realizzato un’altra scatola perfetta, come ti sei convinta che la vorresti, come ti hanno detto che dovrebbe essere una scatola, una casa, un ordine delle cose, una biologia equilibrata, sicura.
Il testo essay finale ci spiega che l’insight menzionato nel titolo della terza sezione (a cui corrisponde la terza prosa finale) è “la soluzione adeguata di un problema non per frammenti, ma solo in seguito alla ristrutturazione degli elementi cognitivi in una nuova e immediata totalità significativa”, la casa rifatta/ristrutturata come espressione/rispecchiamento/alternativa rispetto all’insight.
Il “mind-wandering” è una mente “che vaga senza meta e senza un’attenzione focalizzata” (sempre dal testo esplicativo finale): si può leggere questa raccolta come un distrarsi della mente, e la cornice di Alèx e Michèlle suggerisce che questo “mind-wandering”, all’interno dell’economia del libro, si verifichi nel corso dei 125 minuti di una proiezione di “Les Amants du Pont-Neuf” al cinema, il soggetto seduto al buio del cinema che divaga ed entra nel buio della memoria (evento+sogno). Scelgo volutamente di non soffermarmi su cosa accada nel teatro della memoria (che non può essere un cinema della memoria perché lo sguardo spazia senza le costrizioni dell’inquadratura), perché non voglio rovinare la lettura del libro né tentare di esaurirla, dato che mi interessa principalmente la cornice entro cui poi avviene la lettura del libro. Inoltre, le fotopsie/stelline, che sono i singoli flash rappresentati “in assenza di un reale stimolo luminoso proveniente dall’esterno” (e che in un certo senso sono tutti i componimenti del libro: ogni poesia a suo modo emerge come una fotopsia), assomigliano ai fuochi d’artificio non solo per l’effetto luminoso, ma anche nella pericolosa chiave di lettura che ne dà Maravall. Se questi lampi sono, come scrive Carmen Gallo nella prefazione, “contenuti onirici o mnestici, tracce di inquietudini e traumi più o meno elaborati”, non basta risolverli sul piano del privato, ma occorre andare su quello socioeconomico: il fuoco artificiale non distrae dal dispositivo/razzo/cannone che lo ha fatto partire, ma dalle ragioni (socioeconomiche) per cui qualcuno ha avuto interesse a farlo partire in primis, ed è proprio questo svelamento il compito ideale che dovrebbe porsi un libro di poesie/essay come questo.
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È per noi imperativo riuscire a ritagliarci dello spazio oltre l'istante iperluminoso. È un instante insonne, amnesico, che ci imprigiona in un tempo reattivo, perennemente affollato di sdegno e pseudonovità. Non un tempo continuo in cui le ombre possano crescere, ma solo un tempo simultaneamente uniforme (senza interruzioni, dove c'è sempre "nuovo" contenuto in entrata) e discontinuo (ogni nuova compulsione ci fa dimenticare la precedente). Il risultato è una ripetizione meccanica e inavvertita. Siamo ancora in grado di coltivare le ombre? (M. Fisher)
