Elena Lacentra - Poesie inedite

Glanage
5 Agosto 2025

 

Elena Lacentra raccoglie queste poesie sotto il titolo Glanage, che in italiano si tradurrebbe “spigolatura”, cioè la raccolta dopo il raccolto degli altri, il recupero di quello che chi è passato per primo si è lasciato dietro in quanto scarto, e che nelle mani dello spigolatore (o spigolatrice) ritorna invece necessario per sfamarsi. Nella tradizione poetica italiana abbiamo una celebre spigolatrice, di Sapri: è il titolo della poesia più nota del poeta risorgimentale Luigi Mercantini, la storia di una spigolatrice che dopo essersi innamorata del comadnate di una spedizione di rivoluzionari socialisti approdati a Sapri decide di seguirli (“Quel giorno mi scordai di spigolare, / e dietro a loro mi misi ad andare”), ignara del loro destino tragico: tra tutti loro sopravviverà soltanto lei, che alzerà quindi il suo lamento: “Eran trecento, eran giovani e forti, / e sono morti!”. Ma in letteratura, oltre a questo testo preciso, la spigolatura può indicare anche solo una selezione di fatti curiosi e interessanti, spesso divertenti: aneddoti, freddure, casi insoliti. La poesia di Lacentra sta a metà fra questi due poli della spigolatura, quello elegiaco (di lamentazione) e quello dallo sguardo più attento a cogliere l’incongruenza, il dettaglio fuori luogo, a volte bizzarro, che fa da punto di equilibrio dell’episodio che condensa. Un ombelico come un occhio di pavone; i tre colpi di saluto sulla schiena “come se fossi un portone”; un bicchiere rovesciato. La spigolatura procede sì attraverso la raccolta di questi momenti, che provengono dal rapporto con un personaggio maschile, ma anche attraverso le citazioni letterarie prelevate dai discorsi fatti insieme, con citazioni da Luzi (“Leggevamo immersi nel magma / dela piazzetta di Via Vinazzetti / "è l'amore, l'amore che manca"), Eliot (“mi parlavi di una terra desolata / popolata da uomini vuoti”; "i pavoni si muovono lenti / e ci scrutano col loro sguardo di piuma”) e molti altri. Allora con queste poesie che hanno sullo sfondo l’Università, gli studi letterari, Lacentra racconta l’esperienza entusiasmante di scoperta della poesia e dei poeti (in un modo che mi ha fatto pensare al poemetto verso la fine di Coppie minime di Giulia Martini, con Patrizia Cavalli letta a tavola insieme), ma al tempo stesso riesce a capovolgere la dinamica classica del ragazzo che cerca di mettersi in mostra ostentando le sue conoscenze su un tema mentre la ragazza sta in ascolto, preferibilmente in silenzio, e partendo proprio dalle citazioni dei loro discorsi riesce a smontare la sua facciata e le sue posture, ma senza violenza, facendolo invece passare con disinvoltura attraverso l’immagine di se stesso costruita apposta per lei per apparire inavvicinabile e coltissimo, per restituircene una versione più profonda, a volte impacciata, a volte anche un po’ spaventata, ma che si scopre più appassionata che pretenziosa, più tenera e simpatica che supponente.

 

 

 

 

Tu, con il tuo passo di lama 

recidi, mozzi e dividi

sparpagliando sul terreno frasi 

e citazioni di libri usurati. 

Io, cammino scalza 

per il campo devastato

alla ricerca di versi da riciclare:   

 

tra l’alluce e il pondulo 

mi restano incastrati

«petali zannuti e rossi»

«ossi di uomini e bestie»

«un gambo di grano con le sue foglie». 

Sono una glaneuse 

raccolgo frammenti dopo la mietitura

per spargerli lungo le mie poesie

come tanti semi da far germogliare. 

 

 

«IL TUO CORPO SI COSTELLA DI GERMOGLI VERDI»

 

Mi hai detto che ti vuoi far crescere i baffi

per leggere quel poeta messicano 

di cui non ricordo il nome.

Seduta sulla panchina ti guardavo

le guance diffuse di fili d’erba

e immaginavo di cogliere pelo per pelo:

un bouquet da adagiare sulle tue labbra,

ma poi tu ti sei alzato 

e nel punto in cui mi parlavi

è rimasto un buco 

come di pianta sradicata o di poro sul viso.

 

 

 

MEA CULPA 

 

Mi hai abbracciato 

battendomi tre colpi sulla schiena

come se fossi un portone

o un tuo amico in lutto.

Io ho pensato che forse credessi

mi fosse andato qualcosa di traverso:

effettivamente i nostri dialoghi 

sono sempre tanto strani

e spesso qualche parola 

mi resta conficcata tra l’ugola e il diaframma.

Vorrei «urlare come un animale

o strillare come un asino» ogni tanto

e poi sgridarti perché non leggi mai

le poesie che ti dedico.

 

 

 

«MAY-AWE, MAY-AWE »

 

Se ti sono accanto

ogni parte della mia pelle respira

come coperta da un tessuto di bocche.

Quel giorno la mia cute soffocava 

nella blusa con la stoffa di occhi

mi spiegavi che «i pavoni si muovono lenti

e che ci scrutano col loro sguardo di piuma»

e io pensavo al tuo ombelico

che quella notte era adornato 

da una lanuggine setosa come a peacock eye.

 

 

*

 

Quella notte «per non dormire»

abbiamo letto verso la foce del Sile.

Tra le tue braccia mi raccoglievo

come una briciola sotto il tavolo.

Sentivo il tuo corpo sopra il mio: ricordo 

di quella tua stupida abitudine 

di pucciare nel tè i biscotti soltanto a due a due.

Ti ho chiesto se volessi restare da me

mi hai detto “non posso, mi devo lavare i capelli”.

 

*

 

Leggevamo immersi nel magma 

della piazzetta di Via Vinazzetti

«è l’amore, l’amore che manca»

ma tu mi citavi Dante e altri 

mentre io ti parlavo con il cuore sul tavolo 

e maldestra rovesciavo un bicchiere.

Discutevamo di «peperoni impiccati»

e autrici morte con la testa nel forno

ma se tentavo un invito a cena

tu scappavi con la sigaretta dicendo: 

“vado di là, a cercare un accendino”

e io restavo qua, sola e affamata. 

 

*

 

Ti seguivo per le strade deserte

mentre mi parlavi di una terra desolata 

popolata da uomini vuoti:

non è Bologna, ma potrebbe esserlo.

Allungavi il passo e quasi ti perdevo

ti dicevo “aspettami, ho le gambe corte”

mi rispondevi “sono autistico” 

allora non sapevo cosa ribattere e ammutolendo

battevo i tacchi sulle pietre del pavimento:

sono bloccata nel cretto del tuo tu

tra le piastrelle di Piazza Scaravilli

e i ciottoli di Via Antonio Bertoloni.

 

 

DEVO FAR RISUOLARE LE SCARPE

 

Ti vorrei stare accanto con l’aderenza

di un piede che schiaccia il pavimento,

di un passo che avanza pian piano

                   tallone-punta-tallone.

Mi hai detto che se cammino sotto i portici

alla mattina presto presto

disturbo i senzatetto appisolati 

con i miei taccacci rumorosi

                              tic-tac-tuc

io allora spingevo il peso sulle punte

per avanzare silenziosa

come un animale digitigrado.

Tu non ci hai nemmeno fatto caso

(quante cose non noti)

offesa voltavo lo sguardo 

verso quegli uomini ancora sdraiati

che nel sonno mi ringraziavano

con un sorriso appena accennato.

 

 

QUANT'È FORTE IL SUONO DELL’ACQUA ALL’ALBA 

 

Camminavamo per Via IV Novembre

mentre in lontananza il Nettuno rimetteva

come qualcuno quella stessa notte.

Tu calpestavi la pozza e mi guardavi

io allora estraevo la bottiglia 

per lavarti il vomito dalle suole

«dovete sciacquarvi i piedi gli uni agli altri»

di religione con te è meglio non parlare

per questo continuavo silenziosa il rito

spalmandoti un po’ di profumo a olio

tra l’incavo del collo e i polsi. 

Poi mi introducevo svelta nella tasca 

cercando le tue dita, per stringerle:

due mani giunte in preghiera

procedevano piano per Via Indipendenza.

 

 

 

 

 

Elena Lacentra è nata nel 2001 a Bellinzona, in Svizzera. Sta terminando il suo percorso di studi magistrali in letteratura e filologia italiane e storia dell'arte presso l'Université de Fribourg. A settembre 2024 si trasferisce a Bologna come studentessa Erasmus, dove inizia a frequentare il centro di Poesia contemporanea.