Come si leggono le poesie di Alessandro Ceni?

Cinque possibilità
26 Giugno 2025

(Foto di Joseph Beuys con il coyote)

 

 

 

Adesso che sono uscite di nuovo in un unico volume per Crocetti tutte le raccolte di Alessandro Ceni (più una piccola selezione di inediti) sembra il momento ideale per recuperare la sua opera. Ma chi oggi dovesse provare ad accostarsi alla sua poesia e si mettesse alla ricerca di qualche testo che lo assista nella lettura, è quasi garantito che si ritroverebbe a leggere interventi, recensioni e saggi in cui non si fa che sottolinearne la visionarietà; il suo procedere per barlumi e squarci nel buio; il dettato duro, aderente alla cosa ma soprattutto a quanto rimane al di fuori della cosa (ma che resiste nella parola portata fuori da se stessa); la presenza della natura. Il problema è che questo tipo di osservazioni non aiuta molto chi legge, ma rischia anzi di essere deresponsabilizzante. L’idea ricorrente è che, data l’arbitrarietà con cui sono selezionate e ordinate di volta in volta le immagini delle sue poesie, per leggere Ceni sia sufficiente stupirsi di volta in volta delle sue trovate. Gli accostamenti inediti (“l’arbustio impazzisce”) vengono ridotti a significare a malapena se stessi, con il rischio che tutto il ruolo di chi legge finisca lì: è bastato stupirsi prima di procedere oltre. Invece noi pensiamo che esistano modalità di fruizione delle poesie di Ceni più produttive di questa appena descritta, e quindi proponiamo cinque modi diversi in cui è possibile rispondere alla domanda: "Come si leggono le poesie di Alessandro Ceni?"

 

1) COME UN’EKPHRASIS 

 

Cacciatori sulla neve è una delle poesie più famose di Ceni, probabilmente per via della sua posizione in apertura a I fiumi (1985) che la rende praticamente impossibile da ignorare. La riportiamo di seguito:

 

Io vorrei saper dire amore

amore amore amore

come fanno i dementi

ed essere infelice infelice

per il troppo bene,

un solvente, che spezza la catena delle vite

per darci la definitiva morte,

simile a Dio in questo, o

al cuore;

o voi del mondo invisibile

spiriti verdi e soli,

carbonchi,

che assaggiate i fiocchi di neve

al volo e osservate come il ghiaccio

pattina i bambini i loro guanti,

col peso d’un passero, le

sue ipsilon sul bianco, come

li fonda sulla petrosa neve

dopo l’uscita dal bosco pieno di culle,

come noi pensando fuoco fuoco,

ansanti perché la neve,

eppure nudi e senza freddo

con dita luminose e

sulle labbra non il vapore,

lo spazio e il tempo: non date voce,

come il giocatore in panchina

lo sguardo agli altri

teso a capire, come un signore

morto agli antipodi, dietro,

che fa così con le braccia,

a rallentatore cammina o in un morso d’affetto,

o voi che non siete più

per essere nel mondo strano indispensabili

cespugli di more

lepri soprannaturali

per invitarmi alla caccia,

catturarmi e, ora, appeso

riconoscervi amici,

miei simili, per un gesto antico:

giunti al riparo toccarono

i calici in un brindisi;

spesso è il profilo dei monti

spesso il particolare d’una foglia

che v’inquieta e parlottate,

non dicesi non est…

allora camminate

eschimesi

fiocinatori spaziali senza amata:

«era del dolore che nelle carte geografiche

è del mare che profila la costa,

di quello convenuto per i deserti,

e quello attribuito alle depressioni

dove a crosta per le rughe dei fiumi è più fertile,

erano torrenti su di lei e piste e v’incombeva un cielo»:

sulla discesa i cani sono rossi

ed anche voi scomparsi.

 

 

 

 

 

Gli eschimesi fiocinatori spaziali senza amata; i cani rossi sulla discesa. Invece di sbrigarcela ricorrendo al metodo di lettura da cui vogliamo distanziarci (che qui enfatizzerebbe la visionarietà di queste immagini, il senso di straniamento che suscitano attraverso l’esattezza del linguaggio portatore di una opacità di fondo che non lasciando trasparire nulla al di fuori di se stessa trasforma il segno in cosa) basterebbe notare che questa poesia è una descrizione di un omonimo di Bruegel il Vecchio, “Cacciatori nella neve” https://it.m.wikipedia.org/wiki/Cacciatori_nella_neve che è possibile vedere a Vienna. Sulla discesa i cani sono rossi perché nel quadro c’è una discesa con dei cani rossi; gli eschimesi fiocinatori spaziali senza amata sono i cacciatori che nel quadro indossano un cappuccio che gli copre la testa; fiocinatori perché si portano dietro degli spiedi appuntiti. E così via. Secondo noi non ci si può fare un’idea di questa poesia senza aver prima confrontato ogni verso con i dettagli del quadro, cercando di notare corrispondenze e divergenze; cosa che non ci metteremo a fare adesso ma che lasciamo alla libera iniziativa di ognuno/a. Ovviamente non stiamo dicendo che una volta capito che si tratta anche di un’ekphrasis, una descrizione di opera d’arte, questa poesia abbia esaurito tutto il suo intento comunicativo: bisogna capire che ruolo ricopra l’atmosfera spaziale (tra astronavi e marziani) nell'opera di Ceni, per esempio; oppure cosa voglia dirci l’irruzione nel discorso di quel “non dicesi non est”. Ma difficilmente riusciremo ad avviare questa comunicazione con il testo senza inserire nel discorso il dipinto a cui sta facendo riferimento; anzi, andrebbe preso proprio come punto di partenza. 

 

2)  CON UN PO’ DI PAZIENZA 

 

La poesia “Nella ricorrenza del passaggio di una stella cometa” (che abbiamo già inserito nel nostro sito, https://vallecchipoesia.it/content/poesie-di-natale ) ci richiede un attimo di pazienza: invece di di buttarci a capofitto in questa specie di anticreazione del mondo “El soffiò in un’onda di vetro / una sfera / perché quel poco soltanto non fosse” e accontentarci di aver accertato che El è un nome da Antico Testamento per Dio, bisogna ripensare la poesia dall’inizio. Aver capito che El è Dio non è il punto di arrivo, ma quello di partenza, che trasforma la nostra concezione del titolo. Complici anche altri due versi nell'area finale del testo: “desti ai bengala dell’Asino e del Bue / e al mugghio del Bambino contro le stanghe”. Se mettiamo insieme El/Dio, Asino, Bue, Bambino (con la maiuscola) viene fuori il Natale; e come festa il Natale che cos’è se non la ricorrenza del passaggio di una stella cometa, quella seguita dai Re Magi? Sempre a questo immaginario natalizio dobbiamo ricondurre i “biscotti”; la “notte notte” (o buonanotte). Il Natale è una notte in cui i bambini non vogliono andare a letto, restano svegli più a lungo del solito, e può capitare di sentire “frusci e sussurri” (e allora pensiamo a qualcuno che mette i regali sotto l’albero) e “sospiri” (e allora capiamo che il rumore che stiamo sentendo non sono i genitori che stanno mettendo i regali sotto l’albero, ma un’altra cosa). A questo punto entrano in scena i marziani, gli extraterrestri che in Ceni sono il momento in cui l’infanzia viene guardata da lontano con un filtro di distanza: è possibile ripensare alla notte di Natale in cui si è rimasti svegli troppo a lungo, in cui il divieto è stato fatto saltare di nascosto, e sentirsi come un alieno che guarda quella scena.  

 

3) CON LE VARIANTI D’AUTORE 

 

L’ultima poesia di I fiumi si chiama Frammento, e fa così: 

 

E ci separerà la vita non la morte

rappresentata con tutte le misure umane 

leghe metri o millimetri non bastano,

e io scalcio come il resto

di una palla di neve il cuore

in un piccolo cerchio magico

con confini di proteste e di parole

disperse tra i peli di un dio. 

E queste stanze hanno una spada,

rinchiudono un germe come un mastino alla catena,

moltitudine di battelli, boschi d’umanità dipinta,

gentlemen, sono le dodici parti di un cactus

e mentre qui, moltiplicato tra uomini,

faccio andare il mondo

anche il sole scaglia

stecche da ombrelli per immagine di sé. 

 

Di nuovo: se ci atteniamo solo a questa pagina stampata non andremo molto lontano. Il mastino alla catena, le dodici parti di un cactus: ci mettono di fronte a un'opacità che ci lascia un po' interdetti e che verrebbe voglia di etichettare come una specie di neosimbolismo/surrealismo arbitrarii. Ma se andassimo a consultare anche altre poesie di Ceni, magari decidendo di cominciare dalla prima pubblicazione in volume , I fiumi d’acqua viva nel quaderno collettivo Guanda, troveremmo come ultima poesia della selezione un lungo testo datato 1976 che riportiamo per intero (consigliamo di tenere il telefono in orizzontale):

 

E ci separerà la vita non la morte

    rappresentata con tutte le misure umane

    leghe metri o millimetri non bastano

    fame tubercolosi o cancro fioriscono

    dove il sogno ha fine,

e benché erezione e vagina cantino

    col miglior linguaggio quello che

    fu perso e ritrovato, centuplicato

    da lacrime in crollo, ascolto

    il deserto dell’animale in gabbia;

e non addormentarsi sulla parte del cuore

    se non vuoi per angoscia il tuo sonno

    io, ero, parlando, ottanta milioni di vite fa

    quando credevo un minuto in un anno

    e in buona fede la verità uno sfogo notturno,

    quando credevo

e, ma, ancora lo inganno il cane col sasso

    ancora danno fuoco nei campi,

    sorprendo la gente come felice

    e la ricordo per sempre per sdoppiare la vita;

e colui che impedirà al mio sogno di risvegliarsi

    e urlare tra il riccio perseguitato

    e il feto di cucciolo massacrati

    nel pieno silenzio al colmo della notte,

    poi che avrò dimenticato, non avrà ritorno.

E non è così, cosa hanno fatto per i tuoi freschi undici anni

    vecchio perché tu possa fermarti un momento e sedere

    e uguale a una donna che riaffiora

    sorridere fino a mezzogiorno

e ingiudicato devo, perché tu possa fermarti un momento,

    costringere tutte le fronde degli alberi in un foro e

    volentieri aspettare che la terra sviluppi e gonfiata mi dia il nascituro

    che urlerò tra le braccia,

e devo rivivere le fasi della luna e i quattro e mezzo nomi del vento

    rotolato tra età senza luce e il delfino vulcanico,

    respirerò le mie trasformazioni

    ma non avrò memoria, giù

    fino al fondo delle creazioni che è invisibile,

e allora in quale nome potrò conoscermi non so

    perché scappare non serve ma restare neanche,

    perché sarò arrivato dove arriverò domani.

E solamente lascio che questo

    fango rimanga in buona compagnia, che il giorno lo divida

    nelle strade che vuole chiamandosi con la parola preferita

    tra quelle che conosco. Alba-tramonto-alba-tramonto

    la cifra più vasta non lo può contenere.

E invano niente è mai vissuto, io ciabattante acchiappamosche

    getto la mia parola d’onore a difesa di un credo di piume,

    ogni contrada di voce ogni voce di contrada lo dice

    con la bocca piena dei morti; perduto e perduto nella periferia

    il tuo letto è una tomba dove gli amanti non hanno riposo

e io scalcio come il resto

    di una palla di neve il cuore

    in un piccolo cerchio magico

    con confini di proteste e di parole

    disperse tra i peli di un dio.

E queste stanze hanno una spada,

    rinchiudono un germe come un mastino alla catena,

    moltitudine di battelli, boschi d’umanità dipinta,

    gentlemen, sono le dodici parti di un cactus

e mentre qui, moltiplicato tra uomini,

    faccio andare il mondo

    anche il sole scaglia

    stecche da ombrelli per immagine di sé.

 

 

Questa è la versione originaria di quel testo che ora sappiamo chiamarsi Frammento non per ragioni classicheggianti, ma perché è letteralmente un frammento di un testo che veniva prima e che era più lungo: dopo i primi tre versi viene aggiunta una virgola che cancella tutta la poesia fino a “e io scalcio come il resto”. Scompare anche il differente allineamento dei versi, che isolando “e” al margine sinistro della pagina rivelava la scansione concitata del discorso. Ma ricorrere alla versione di I fiumi d’acqua viva migliora la nostra lettura per altre due ragioni: ci sono due aree del discorso di “Frammento” che senza il supporto del testo del 1980 riescono difficilmente accessibili. Per entrambe è necessario che riporti nuovamente l’intera poesia: ho evidenziato in grassetto i termini attinenti al primo discorso e messo in corsivo quelli attinenti al secondo:

 

E ci separerà la vita non la morte

    rappresentata con tutte le misure umane

    leghe metri o millimetri non bastano

    fame tubercolosi o cancro fioriscono

    dove il sogno ha fine,

e benché erezione e vagina cantino

    col miglior linguaggio quello che

    fu perso e ritrovato, centuplicato

    da lacrime in crollo, ascolto

    il deserto dell’animale in gabbia;

e non addormentarsi sulla parte del cuore

    se non vuoi per angoscia il tuo sonno

    io, ero, parlando, ottanta milioni di vite fa

    quando credevo un minuto in un anno

    e in buona fede la verità uno sfogo notturno,

    quando credevo

e, ma, ancora lo inganno il cane col sasso

    ancora danno fuoco nei campi,

    sorprendo la gente come felice

    e la ricordo per sempre per sdoppiare la vita;

e colui che impedirà al mio sogno di risvegliarsi

    e urlare tra il riccio perseguitato

    e il feto di cucciolo massacrati

    nel pieno silenzio al colmo della notte,

    poi che avrò dimenticato, non avrà ritorno.

E non è così, cosa hanno fatto per i tuoi freschi undici anni

    vecchio perché tu possa fermarti un momento e sedere

    e uguale a una donna che riaffiora

    sorridere fino a mezzogiorno

e ingiudicato devo, perché tu possa fermarti un momento,

    costringere tutte le fronde degli alberi in un foro e

    volentieri aspettare che la terra sviluppi e gonfiata mi dia il nascituro

    che urlerò tra le braccia,

e devo rivivere le fasi della luna e i quattro e mezzo nomi del vento

    rotolato tra età senza luce e il delfino vulcanico,

    respirerò le mie trasformazioni

    ma non avrò memoria, giù

    fino al fondo delle creazioni che è invisibile,

e allora in quale nome potrò conoscermi non so

    perché scappare non serve ma restare neanche,

    perché sarò arrivato dove arriverò domani.

E solamente lascio che questo

    fango rimanga in buona compagnia, che il giorno lo divida

    nelle strade che vuole chiamandosi con la parola preferita

    tra quelle che conosco. Alba-tramonto-alba-tramonto

    la cifra più vasta non lo può contenere.

E invano niente è mai vissuto, io ciabattante acchiappamosche

    getto la mia parola d’onore a difesa di un credo di piume,

    ogni contrada di voce ogni voce di contrada lo dice

    con la bocca piena dei morti; perduto e perduto nella periferia

    il tuo letto è una tomba dove gli amanti non hanno riposo

e io scalcio come il resto

    di una palla di neve il cuore

    in un piccolo cerchio magico

    con confini di proteste e di parole

    disperse tra i peli di un dio.

E queste stanze hanno una spada,

    rinchiudono un germe come un mastino alla catena,

    moltitudine di battelli, boschi d’umanità dipinta,

    gentlemen, sono le dodici parti di un cactus

e mentre qui, moltiplicato tra uomini,

    faccio andare il mondo

    anche il sole scaglia

    stecche da ombrelli per immagine di sé.

 

 

Così facendo abbiamo due discorsi che vengono sviluppati insieme nel corso del testo. Le parole in corsivo riguardano piante e animali; quelle in grassetto rimandano tutte all’idea del contenimento e della misurazione, attraverso numeri e forme geometriche come quella del cerchio o del foro. Ci sarebbe in realtà anche un terzo discorso, legato ai concetti di generazione e distruzione, vita e morte, che vengono ripetuti e sviluppati lungo tutta la poesia. In sintesi, potremmo dire che questa poesia cerca di costruire un discorso sul tentativo di contenere secondo tutte le possibili “misure umane” (spaziali, “leghe, millimetri”; temporali “fasi della luna” “ottanta milioni di vite fa”) l’avvicendarsi di generazione e distruzione, esaminate da un lato attraverso il mondo animale e vegetale, dall’altro secondo una chiave personale (il tuo letto è una tomba; le mie trasformazioni; mi dia il nascituro), e fa i conti con l’impossibilità di questo contenimento. Così la fine del testo, “il sole scaglia / stecche da ombrelli per immagine di sé” condensa tutti questi motivi, straniandoli: non un animale o un vegetale, ma il sole, che è comunque un elemento “naturale” ma che non è vivo; non un cerchio, ma le stecche dell’ombrello che lo mimano; l’immagine di sé intesa come riproduzione di se stesso, e quindi a modo suo una generazione. Il taglio operato da Ceni complica le cose: mentre rimane qualche indizio del discorso sulla misura e il contenimento nelle dodici parti del cactus (che però senza tutte le occorrenze precedenti rischia di venire declassato a semplice bizzarria (che trovata, questo gentlemen con le dodici parti del cactus) o su quello degli animali (il mastino contenuto dalla catena, il germe rinchiuso), viene totalmente perso di vista il discorso sulla generazione. Con conseguenze impattanti: senza il letto e gli amanti che lo precedono, non possiamo più ricollegare il verbo “scalciare” al bambino appena nato, e quindi ancora una volta lo leggiamo come esuberanza linguistica di Ceni. Inoltre, ci perdiamo anche i due versi che sintetizzano la struttura di tutta la poesia:

 

 

[...] Alba-tramonto-alba-tramonto

 la cifra più vasta non lo può contenere

 

 

Cioè: giorno e notte che si susseguono (vita e morte) non sono contenibili da cifre (misure, compresione) umane. Invece, ed è quello che non stiamo facendo altro che ripeterci, c’è bisogno di leggerlo prendendolo sul serio: non si tratta di sprazzi e barlumi isolati, ma di un tentativo di comunicazione che richiede un impegno anche da parte nostra che leggiamo. 

 

4) CON LE ALTRE COSE CHE CENI HA SCRITTO MA CHE NON SONO POESIE 

 

 

Andiamo a leggere la poesia di apertura di “La natura delle cose (1991) Da opposte rive:

 

Nel buio le parole

non sono parole ma uomini

che con rasoi tentino tele cerate di

sonori padiglioni sulla sabbia.

Alla luce

è fuori uno con una latta

che scende al mare

chimico e geometrico e tutto lo riga.

Un idiota, fermo, in sogno, presso

la linea dell’acqua

che inghiotte neri pesci nella rimessa

ritarda misurandole coi diti dei piedi

le barche negli ultimi porti umani.

Lei ti ha parlato con voce di uomo

di un certo delitto

d’una scomparsa mai colma

della vedovanza infinita del tondo della vita

di come dentro s’è fatto un luogo

da solo

un buco violento che solo per te è buono.

Piana acqua nel secchio

e indossate corone

le figurine si baciano

cosa che dovrebbe spiegarti perché

l’uomo-lupo insegua una Sirena o

splenda un pane

bianco sul comodino,

ma da qualche tempo

non ti lascia neppure un momento

e dei personaggi nel buio della tenda

non hai che suono

come da opposte rive.

Il sole notturna istupidito dal volo

fissi gli occhi di Dio sull’idiota

che geme fischia sibila

chiama invoca soffia si preme

e con la mano assicurata al vento

nel mare rovescia gli sgomenti metri delle chiuse.

 

Qui c’è una parte che è veramente criptica: l’immaginario della spiaggia e del mare, che regge l’inizio e la fine della poesia, viene meno, e lo soppianta questa sequenza: 

 

 

Piana acqua nel secchio

e indossate corone

le figurine si baciano

cosa che dovrebbe spiegarti perché

l’uomo-lupo insegua una Sirena o

splenda un pane

bianco sul comodino,

ma da qualche tempo

non ti lascia neppure un momento

e dei personaggi nel buio della tenda

non hai che suono

come da opposte rive.

 

 

Il buio della tenda ci riporta al sonoro padiglione sulla sabbia che stava venendo preso a rasoiate nei primi versi, lasciandoci intravedere i personaggi che stanno al suo interno. Ma il comodino, il secchio e il pane e le corone sembrano inaccessibili; siamo forse davanti a uno dei famosi momenti di squarci e barlumi di Ceni? Eppure la centralità di questo passaggio è evidente, dal momento che il periodo viene chiuso dal verso che dà il titolo alla poesia (un’altra riva opposta non a quella di un fiume, ma a quella del mare). Ma il punto è sempre lo stesso: per fare i conti con queste poesie (ma non solo queste) bisogna mettere in azione altri meccanismi di lettura, essere meno pigri e provare a leggere anche altre cose che Ceni ha scritto: interventi, saggi, interviste. E infatti ci incapperemmo in poco tempo nel suo saggio su Tommaso Landolfi, Il fantastico tangibile (1987, su Stilema), dove a un certo punto troviamo il seguente passaggio:

 

La tradizionale relazione luna-femmina, con tutto ciò che comporta fisiologicamente, è da Landolfi ripresa emblematicamente ne “La pietra lunare”, dove la proverbialità contadina definisce la protagonista “lunare (cioè sterile)” [...] Dopo la luna, le fasi, il ciclo, la licantropia, sterilità, infine il cerchio si chiude con il passaggio analogico che Landolfi (e la comune tradizione) opera tra l’influenza vera del nostro satellite , e l’influenza presunta sulla psiche dell’uomo: l’essere lunatico.

 

Questa è praticamente una parafrasi del passaggio impenetrabile in Da opposte rive: l’uomo-lupo che insegue la sirena è il licantropo che insegue la luna, e che dunque indica un passaggio di trasformazione; il pane bianco che veglia sul comodino (e quindi sul letto/tomba degli amanti) è la luna (come per Barthes in S/Z la lampada bianca sul dipinto di Adone è figura della luna che lo trasforma con la sua luce in un Endimione); le corone indossate ci portano un’atmosfera da rito campestre, in accordo con le fasi lunari; e se ricordiamo il secondo modo di leggere le poesie di Ceni (con un po’ di pazienza) capiamo che di notte in un secchio pieno di acqua tranquilla si può riflettere dall’alto probabilmente la luna. Andare a leggere il suo testo su Landolfi ha aggiunto per questa poesia al nostro immaginario la parola “luna”, altrimenti del tutto assente; ancora più elaborata così la conclusione della poesia, che si chiude con il sole, e che riconduciamo all’opposizione Sole-Luna che abbiamo riscontrato anche nella versione estesa di Frammento (ma che ritroviamo anche in altre poesie di Ceni, qui non menzionate) Anche lì, fra i due termini quello rimosso era la luna; ma se si parla di Luna e rimosso finiamo nello psicoanalitico, quindi in tutt’altro strumento di lettura. 

 

5) CON I TESTI DI ALTRI AUTORI

 

Infine, abbiamo provato a confrontare Alessandro Ceni, senza pretese di trattazione completa, con due autori con cui certamente il poeta è venuto a contatto: il primo è lo scrittore e traduttore Tommaso Landolfi, oggetto di tesi negli anni universitari, e il secondo è il poeta fiorentino Piero Bigongiari, relatore della tesi stessa. 

Partendo dalla ossessione di Landolfi per l’elemento lunare, è possibile ritrovare sempre in Da opposte rive di Ceni elementi tratti dai romanzi landolfiani con cui arrivare ad interpretare la poesia. Nel primo romanzo di Landolfi, La pietra lunare, racconto fantastico e grottesco, Gurù, una ragazza-capra, ritenuta sterile in accordo al suo legame lunare, inizia lo studente Giovancarlo a un mondo mannaro e rituale – dopo essere discesa nelle viscere della terra, ambiente dove regna il buio assoluto e nel quale al protagonista arrivano solo, come in un inferno dantesco, voci di uomini e, per ultima, la lontana voce di lei. Allora, sempre in Da opposte rive, non è vi è unicamente il legame con la luna, la sterilità, la trasformazione, come già detto sopra: le parole sono vere presenze fisiche che si ascoltano con i padiglioni auricolari all’interno di un ambiente chiuso e buio (“Nel buio le parole / non sono parole ma uomini / che con rasoi tentino tele cerate di / sonori padiglioni sulla sabbia”), nel quale, solo alla fine, arriva la voce femminile dell’amante (“Lei ti ha parlato con voce di uomo / di un certo delitto / d’una scomparsa mai colma / della vedovanza infinita del tondo della vita”). Anche l’elemento iniziatico è presente nella poesia di Ceni (“indossate corone / le figurine si baciano”), come è presente il riferimento alle sirene (in Landolfi: “la fanciulla portava le sue appendici caprine come le sirene la loro coda”), perfettamente in accordo con la trasformazione in mannari, ovvero persone che condividono metà o parti del loro corpo con altri animali. Notiamo in Ceni anche elementi domestici associati alla trasformazione, come nel pane bianco che splende sul comodino – interno di casa presente ne “Il racconto di un lupo mannaro” di Landolfi; oppure l’elemento delle piene, movimento d’acqua associato da Landolfi alla luna nel racconto “La luna, le piene”, potente immagine che chiude il testo poetico di Ceni e che chiarisce definitivamente il suo significato: “nel mare rovescia gli sgomenti metri delle chiuse". Quindi con alcune strategie intertestuali Ceni riattraversa alcuni elementi del fantastico landolfiano.

 

Arrivando invece a Piero Bigongiari, non possiamo pensare che sia mancato il confronto con Antimateria, antologia poetica uscita nel gennaio del ’72, poco prima dell’ingresso nel mondo letterario per Ceni. Citando l'Avvertenza dello stesso Bigongiari al termine dell’antologia nella prima edizione per lo Specchio, si tratta di un’opera di ambizioni unitarie in cui:

 

il poeta ama scendere e salire – l’invidia per gli uccelli! – tra le frasche più alte e le più basse dell’albero della sua vita, ama tentare i rami più fragili, spingersi col canto sulle punte dove essi svaniscono […] la verticalità è nient’altro che il senso di una prospettiva interiore: un inganno teso al tempo, con la parola che significa

 

 

 Nella raccolta, tale sguardo è espresso da innumerevoli richiami alle componenti del mondo terrestre, dal nife (Ni-Fe, il centro della terra composto di nichel e ferro e loro composti; nona poesia della prima sezione delle nove di cui è composta la raccolta) ai laghi, al plancton del mare, fino alle rondini e agli astri. 

Sembra che anche Alessandro Ceni abbia interiorizzato questo processo: dalle prime poesie (come nella già citata Cacciatori sulla neve) fino a rientrare in raccolte intere come La natura delle cose si nota la ricorrenza martellante dei verbi scendere, discendere o adimare (verbo dell’italiano antico per discendere ad imo, verso il basso), librarsi, fino al lessico relativo agli uccelli (usato anche nel neologismo dal latino, volucri), stelle e astronavi, movimento centripeto-centrifugo che fa segnalava Milo de Angelis nella postfazione all’opera prima di Ceni, Il viaggio inaudito. Proponiamo quindi un preciso collegamento intertestuale tra Ceni e Bigongiari nello sviluppo della profondità a scendere e a salire riflessa nell’attenzione agli elementi naturali, come nel confronto tra questa poesia da Antimateria e l'ultima poesia di La natura delle cose:

 

[Bigongiari]

V'È NOTTE E NOTTE

 

Va il grigio a proda, si ossida tra i rovi

deserto, immacolato lo splendore

su cui gli uccelli, di passo o stanziali, non trovano cibo:

tremulo segno dell'errore il grido

si rimescola sugli embrici, pare si spiumi.

 

V'è notte e notte, alba e alba, l'una

cibo per illusione all'altra, l'una

all'altra consegna le sue immagini.

Cresce il deserto sulla terra, il fiume

lascia deserte immagini su rive, tra risa soffocate,

dove il cieco becchetta con la sua mazza bianca fitto fitto il selciato

verso casa. Quelle rive, non tornano, anche se tornano, a fiorire,

l'inverno non può finire così presto, eppure è già marzo inoltrato,

la luce sembra sbucciarsi come un'arancia, una di queste arance conservate e insipide,

ma gli abissi ribollono e schiumano presso prode deserte,

levano mulinelli che affidano al simùn della mente.

 

La rena cade sull'acqua e non vi s'impasta, va a fondo, a fondo

anche se gli abissi sono a fiore della terra,

a fiore degli occhi, ciechi o aperti non importa, a fiore

del fiore che su ripide pareti

vorrebbe ancora un deserto orizzontale

su cui raccontare, l'ingenuo, la favolosa primavera sulla

terra.

 

Gli uccelli di passo arriveranno anche lì,

muti, sfiniti, un gorgo li farà precipitare.

Stia tranquillo il fiore, l'abisso è colmato, tranquilla la primavera.

Ali senz'ali volano, sono braccia che afferrano,

mani che stringono o lasciano la presa.

Un bicchiere è tra me e te, ma lontano da tutt'e due,

chi lo alzerà per primo, chi oserà l'immagine nèttare.

 

Stia tranquilla la morte: la vita muta pelle

ma si farà riconoscere, solo che è la vita, la vita,

e non può accettare la morte che la vita, non la morte.

Forse è per questo che oggi questa morte mimetizzata

pare attendere tra i rovi e le parole e anche l'amore,

ma la vita cammina sull'abisso, tra la melma:

il mare che s'è aperto e si richiude tutt'intorno

lascia aperto un solco melmoso, e là una costa deserta, rocciosa,

ventilata e quel fiore strano e intorno un rovello di uccelli:

già s'ode il loro strido eccitato precipitarvisi.

 

 

 

[Ceni]

LA NEVE (LA DISCESA DELLE COSE SULLA TERRA)

 

La neve

è un profondo ricordo che la muove;

ci si rivede

in terre ostili ma amate,

dove per abitate case

vecchi desinenti 

misteriosi reclusi o 

stranieri transitori e ambigui

imprimono domicilio ad un pianeta, 

o dentro coloro che dormono, 

inconsapevoli, scambiandoci saluti.

 

Mentre non c’eri non c’era neanche la stanza 

eri indiviso al mondo

e tutte le cose stavano. 

Hai sognato divelti rovi e respiri,

il maschio librato sopra resti insepolti

che sempre presumono il seme,

l’inabissarsi della freccia piumata

nella caverna e il tonfo ottuso di qualcosa che cade:

eri come morta, e partorivi.

 

Allora la tua mente andò nei boschi

e vide che tutte le cose

si appendevano alle foglie, 

permanevano.

Scendesti dalla mente

e proseguisti a piedi, affondando,

fino al paese delle anime dei morti

che si raggiunge attraversando le torbide di un fiume,

nuotasti

senza che mai da te si generasse il gesto,

il sé che esiste nel cuore

e delle cose segrete il silenzio;

il battito delle ali

che ti muta

in uccelli nell’atto di volare. 

 

 

In conclusione, cerchiamo di rispondere brevemente alla domanda “Come si leggono le poesie di Ceni (e viene da dire: non solo le sue) senza abbandonarsi al criterio del collegamento inaspettato e dell’arbitrarietà dell’ispirazione poetica?" I cinque testi che abbiamo preso in considerazione, e i rispettivi metodi che abbiamo ricordato, sono in realtà esempi di cinque modi diversi di procedere, che possiamo sintetizzare in questo modo. L’ekphrasis ci ricorda che esistono cose fuori dalla poesia che possono spiegare certi dettagli molto specifici del testo, e che in ogni caso è necessario avere una padronanza preliminare della successione delle immagini e del quadro che costruiscono presentandosi in successione (tanto che potrebbe mostrarsi più coerente di quello che ci saremmo aspettati inizialmente); la pazienza ci ricorda che oltre alle situazioni specifiche (quel dipinto, quel cane) esistono modi condivisi per rappresentare determinate situazioni (la notte di Natale in generale; il modo in ci aspettiamo che si comporti la luna riflessa in un secchio) e che forse ci sembrano talmente ovvi da sfuggire alla nostra attenzione; la variante d’autore ci ricorda l’utlità di andare a consultare, quando possibile, i testi di prima mano, senza avere un’eccessiva fiducia nella riedizione che stiamo consultando; infine, andare a leggere altre cose al di fuori della poesia in questione scritte dall’autore/autrice (o autori/autrici cari all’autore/autrice) può aiutarci a seguire meglio le svolte del discorso da cui siamo partiti, o anche le sue divergenze. Speriamo con questi cinque punti di avere mostrato alcune modalità di lettura con cui superare i consueti preconcetti nell'approccio all'opera di Alessandro Ceni, e ci auguriamo che possano rivelarsi produttive anche con le poesie di cui non abbiamo parlato qui ma che, siamo certi e certe, reagiranno positivamente alle domande comuni che abbiamo cercato insieme di mettere a fuoco.