
Dicevano: come ti giustifichi? / dicevano: ma ti giustifichi, tu? Lo scriveva Sanguineti. Che sia corretto o meno, spesso si è chiamati a giustificare la propria poetica. Accade di sicuro alla nostra generazione e a quella immediatamente precedente: sui social siamo continuamente messi nella condizione di doverci giustificare davanti a un pubblico, per quanto ristretto, e non solo quando si tratta di poesia. Abbiamo deciso quindi di creare uno spazio che dia a poet* nati dalla fine degli anni '80 agli anni 2000 la possibilità di legittimarsi. Benché le domande di partenza siano le stesse per tutt*, abbiamo scelto di tenere aperta la possibilità di un dialogo con chi prenderà parte a quest'iniziativa, ricollegandoci alle risposte date, per portare avanti un’operazione volta al dispiegamento della poetica individuale e collettiva in una chiave di autocritica.
Partiamo con un pezzo facile, più o meno: definisci la tua poetica. In altre parole, quando scrivi poesia, perché scrivi in questo modo di queste cose e non in un altro? Cosa pensi che renda la tua poesia tua?
Si tratta in realtà, credo, di una domanda difficile. In primo luogo perché solo parzialmente la poetica dichiarata e la progettazione consapevole corrispondono al risultato concretamente ottenuto; ciò accade, o mi accade, spesso per imperizia o mancanza di forze, a volte di tempo, rispetto a temi troppo ampi, a progetti troppo ambiziosi. Una notevole dose di progettualità scrittoria sta dietro ad ogni mio componimento, soprattutto nella fase di costruzione delle architetture del libro che valgono, come opera, molto di più del singolo componimento. Posso fare un esempio di uno di questi “fallimenti”: il tentativo di mettere in versi, secondo un modulo propriamente poematico, la Fenomenologia dello Spirito di Hegel, in Poema per Parigi. Ne rimangono certo tracce visibili, specialmente nei capitoli ambientati al Père Lachaise, ma obbiettivamente il risultato è stato qualcosa di diverso.
È difficile anche dire che cosa renda una poesia “mia”, dato che stile, forme, proponimenti, risorse disponibili e magari persino gusto, subiscono mutazioni, evoluzioni, oscillamenti, in un percorso che dura ormai da quindici anni. Forse un lettore assiduo sarebbe più in grado di me di dire cosa renda una poesia “di Mozzachiodi”, ma se dovessi infine tagliare corto direi la commistione di tempi storici e spazi articolata sulla profondità e in maniera non estetizzante. Ciò dà spesso adito a una forma di tensione narrativa o microdrammatica piuttosto che puramente suggestiva, ma l’io che si mette in scena, quando c’è, perché c’è raramente almeno fino agli ultimi due libri, è un io che si sa e si vuole sempre prodotto sociale e storico anche nei suoi casi più privati. Aggiungerei poi una tendenza a difendere (pur senza farne una petizione di principio o un principio che da solo sostenga la scrittura) gli istituti formali della poesia: i generi, il metro (isostrofismo e intento ragionativo si abbinano sempre più di frequente nelle poesie recenti), la rima. La difesa dialettica di questi istituti implica la difesa del portato sociale della forma, la convenzione come elemento ineludibile e necessario di ogni società, anche la società particolare o momentanea composta dai lettori.
Poesia lirica e poesia di ricerca sembrano essere argomenti ancora caldi, come se un poeta “lirico” o presunto tale non potesse portare avanti un lavoro di ricerca letteraria. Crediamo infatti che il termine ricerca possa essere utilizzato in modo più ampio rispetto a quello a cui siamo abituati, e che ogni poeta porti avanti una sua personale ricerca. Che cos’è per te la ricerca? Senti di star intraprendendo un percorso di ricerca letteraria con la tua poesia?
Anzitutto mi sento di dover ribadire che, a mio parere, si tratta di un dibattito sterile, spesso condotto con categorie novecentesche logore, e legato (e ciò fa veramente un po’ tristezza) più a diatribe e dissidi tra gruppi e consorterie per spartirsi le magre forme di riconoscimento e la scarsa visibilità che la scrittura in versi oggi garantisce. Se negli anni Sessanta nasce come tensione tra la cosiddetta Neoavanguardia e le precedenti generazioni, diciamo di nati tra gli anni Dieci e Venti del Novecento, oggi appare veramente privo di senso. Il discorso della Neoavanguardia poggiava sull’idea che il linguaggio poetico-lirico tradizionale fosse compromesso alla radice con l’individualismo borghese (che è una, ma non la sola, delle facce del Romanticismo) e che la poesia stessa, non liberata da questo vincolo, si fosse logorata nelle sue possibilità espressive e nel suo statuto di merce inconsapevole, laddove invece i suoi critici si vedevano quali fautori di una continuità umanistico-letteraria del sapere oppure di un impegno orientato in senso extraletterario. Oggi è veramente difficile chiedersi che cosa rimanga di quei dibattiti se non la caricatura fuori tempo massimo e per ragioni di appartenenza e ciò non tanto per le minori qualità intellettuali di chi disputa (spesso è presto per giudicarle), ma perché lo scenario letterario e sociale è cambiato. I veicoli di promozione-mercificazione (ma dire promozione di lavoro improduttivo non cambierebbe) sono in sostanza gli stessi per entrambe le “squadre”, il tutto si risolve in una disputa di canoni e maestri, quali nel frattempo i dinamitardi della Neoavanguardia sono divenuti.
Avete ragione dunque, la contrapposizione è sciocca. Ogni scrittura è una scrittura di ricerca e d’altra parte gli istituti sui quali la poesia “di ricerca” immagina adagiata la “lirica” sono tutt’altro che garantiti. Spesso si scambia la condizione degli elenchi delle rubriche, o dei gruppi Whatsapp, per la condizione della letteratura. Non ho un particolare gusto per quella che si autodefinisce “poesia di ricerca” (la accetto come autodefinizione per comprenderci), ma non vorrei essere classificato tra i suoi detrattori o oppositori. Credo poi tra l’altro che al lettore di poesia spesso tutto ciò interessi poco e appaia artificioso.
Per quanto mi riguarda la ricerca in poesia significa soprattutto la ricerca delle forme (e a volte anche del buon soggetto di goethiana memoria) adatte a veicolare la materia da un lato e dall’altro ad evitare un eccessivo effetto di suggestione sul lettore, senza però rinunciare alle risorse dell’arte (tra cui è anche la suggestione) per presentare contraddizioni irrisolte e, nell’atto della lettura, per costruire un dialogo. Penso che questo percorso si sia compiuto e si compia, da Le strade di Gerico fino agli ultimi inediti, prima attraverso la ricerca di un “Grande Codice” come terreno comune e di una scrittura poematica, narrativa, allusiva e antilirica, ma complicandosi quasi subito dopo con una riflessione (e una pratica) politica e sociale che fa della storia non tanto il tema quanto la sostanza della scrittura poetica. Oggi forse il senso della ricerca è soprattutto capire quali siano realisticamente le possibilità della poesia, senza mitologie e ideologie, ma anche senza rinunce. Cosa può dire la poesia, come può dirlo e a chi, sono in un certo senso le domande che veicolano le differenti sperimentazioni formali (il poemetto narrativo, quello allegorico, il dramatic monologue, il dramma vero e proprio, la lettera, l’elegia, il romanzo in versi, la traduzione-rifacimento).
Si parla altrettanto spesso di padri, di maestri, e per fortuna adesso anche di madri, che si tratti di ucciderli o di inserirsi nel solco che hanno lasciato. Senza essere pedanti, senti presente nella tua poetica l’influsso di specifici autori e autrici di passate generazioni? Che cosa bisogna farne di loro?
Naturalmente e ovviamente. Anzi potrei dire che la storia stessa dello sviluppo poetico in quanto storia abbia un suo fascino potente. Sicuramente per me non conta solo il Novecento e anzi, in passato, ho anche teorizzato la poesia del XXI secolo come una poesia di rivincita delle molte tradizioni perdenti della modernità e pre-modernità sul novecentismo. Dovendo dare dei nomi o dei riferimenti indicherei certamente l’epica classica, Dante, alcuni classici italiani (Tasso, Foscolo, il Pascoli dei poemi e poemetti) ma anche moltissimo Ottocento europeo: Hugo, De Vigny, Swinburne, Tennyson, Browning, Keats, Goethe, Schiller. Al di là delle teorizzazioni però le cose si fanno più apparentemente immediate, ma anche più complesse nel Novecento: lì io mi sento in tutto e per tutto figlio della poesia da fronte popolare, o più in generale di una vasta temperie che tendo a chiamare modernismo di sinistra. In questo quadro l’Italia entra soprattutto attraverso Montale riletto da Pasolini (con cui ho avuto il rapporto di attraversamento più complicato, Le ceneri di Gramsci è per me il libro più importante del secondo Novecento), da Fortini (spesso mio malgrado e per prolungato assedio del testo alla mia memoria) e da Giudici. Oltre però alla poesia italiana conta moltissimo quella di lingua spagnola, che conosco bene e a cui sono legatissimo attraverso moltissime figure (Machado, Hernández, Vallejo, Alberti, Cernuda, Lorca, Neruda, Benedetti e molti altri fino ad oggi con García Montero) e poi c’è tutto un mondo che include Esenin, Ritsos, Éluard, Brecht, Radnóti, Jószef ecc. Sembrerà un catalogo da premio Lenin per la poesia, ne sono cosciente. La consapevolezza però di avere una mia chiara radice, che è anche un’appartenenza, una presa di posizione, ha portato una certa pace: solo chi sa da dove viene può sapere dove andare. Non ho bisogno di uccidere i miei maestri perché spesso (quando non si sono uccisi da soli) ci hanno pensato i loro nemici. Ad essi richiedo piuttosto una vicinanza a tratti propriamente sentimentale, a volte diventano anche personaggi della mia poesia.
Ci sono invece un maestro o due che vorrei uccidere, nel senso di ottenere con loro un rapporto migliore e più pacificato: Eliot, e Tate, e l’ala di destra e religiosa di quello stesso modernismo. Mi rendo conto che, sebbene siamo su versanti radicalmente opposti, l’idea di classicità che quegli autori proponevano e di rapporto con la tradizione ha, soprattutto all’inizio, giocato per me un ruolo importante. Ancora oggi la forma del poemetto allusivo modernista è qualcosa che maneggio spessissimo, ma con cautela per non cadere nelle trappole che tende, trappole di elitismo, di antistoricismo, di naufragio nella mistica a buon mercato (che è poi oggi quasi sempre mistica del mercato, come provano certe recenti esperienze anche di giovani poeti).
Non ha quindi un significato strettamente confessionale il fatto che tra le mie letture fondamentali e tra le fonti privilegiate ci sia la Bibbia, non solo il Nuovo Testamento, ma anche il Vecchio Testamento, spesso nelle sue parti mitiche o poetiche, il Pentateuco, i profeti, soprattutto Isaia e Geremia che sono grande poesia politica, e ovviamente i Salmi. È un linguaggio della totalità.
Maestri a parte, in questa sede vorremmo approfondire questioni legate all’intermedialità, particolarmente rilevante quando si prende in esame la poetica di autori delle ultime generazioni. Ti chiederemmo quindi di raccontarci cosa ha dato forma al tuo immaginario poetico, al di là della poesia (parliamo quindi di opere di narrativa, saggistica, ma anche di film, serie tv, anime, fumetti, videogiochi etc.), e quale rapporto intrattiene la tua poesia con altri media narrativi.
Sicuramente le influenze e i riferimenti sono molteplici, anzi forse a tratti uno dei limiti della mia poesia è stato (è?) quello di essere o sembrare ipercolta e citazionistica. Questo però avviene per due ragioni: non solo per l’influenza diretta, consapevole o inconsapevole, ma anche, e forse più spesso, perché è una poesia fatta con la storia della cultura e sulla sua analisi critica (qui è la differenza sostanziale con il «cumulo di immagini frante» o la linea che separa le due tendenze, non sono mai squadernati in faccia al lettore come un oggetto significativo di per sé e da decifrare ma elementi di un ragionamento o di una narrazione).
Per venire però ai nomi sicuramente in primis per me è contata la musica: sia quella di tradizione colta, soprattutto sinfonica e operistica, Mendelsshon, Brahms, Strauss, Mahler Wagner. La concezione poematica è debitrice a suggestioni di questo tipo, e recentemente sto stringendo questo legame provando a elaborarne una chiave formale. Accanto però a questa tradizione ha giocato un ruolo anche maggiore il cantautorato e la musica folk, non solo italiana (sebbene abbia qualche debito con il Guccini di Ritratti ad esempio) ma, di nuovo di lingua spagnola: i dischi dedicati a Machado, Hernández, Benedetti, da Joan Manuel Serrat, Lorca e Alberti cantati da Paco Ibáñez, Vallejo da Noel Nicola e la Nueva Trova cubana sono stati un’impressione giovanile fortissima (La città delle Strade di Gerico è anche il Pueblo blanco di Serrat) e sono essi stessi un atto critico di interpretazione di quei poeti. Poi quella che si chiama canción protesta o Nueva Canción (Celdrán, Labordeta, Serrano) anche di lingua inglese o irlandese (Gaughan, gli Wolf Tones, i Pogues, i Dubliners), sono gli anni Cinquanta-Ottanta, ma soprattutto è un grande momento di intreccio tra cultura borghese progressiva, cultura popolare e emancipazione su scala globale, di nuovo, bisogna scegliere da dove si viene e dove si va (a volte cito direttamente versi o strofe di canzoni nelle poesie, ad esempio in Memoria del mondo, e se sapessi cantare li canterei leggendo). Mi è anche capitato di scrivere testi di canzone o poesia per musica saltuariamente. Quanto al cinema a volte ho citato Bergman, ma più che a un film o aun regista specifico, devo sicuramente alla frequentazione di Michele Marchioro quello che so di montaggio e che sicuramente è una chiave importantissima per la costruzione dei poemi, che sono pieni di campi lunghi e lunghissimi, dissolvenze e piani sequenza; un testo di più di cinquecento versi scritto nell’era delle immagini in movimento deve sapersi reggere.
La pittura ha una certa importanza non solo in termini suggestivi ma, anch’essa, come dato culturale e mezzo di conoscenza: ci sono appunto sequenze dedicate agli impressionisti nella parte di Poema per Parigi che si svolge al D’Orsay, sequenze dedicate a Rembrandt (alla moglie di Rembrandt che gli fa da soggetto) e a Van Gogh in Tempo stellare. Della pittura mi interessa il suo essere la prima forma di traduzione codicologica del principale senso umano, ma su questo elementare istinto mimetico quanta cultura si innesta! E lì comincia la parte in cui il poeta può dire la sua, ma le analogie tra poesia e pittura sono già un luogo classico che si commenta da sé.
Ho lasciato per ultimi la saggistica e il teatro perché (tolti gli esperimenti occasionali in musica) sono gli altri due generi che pratico: avendo anche studiato per lavoro i saggisti, e in particolare i saggisti marxisti, un elenco sarebbe veramente pletorico e inutile, il marxismo è diventato un orizzonte fondamentale di lettura della realtà: Marx, Lukács, Benjamin, Adorno, Mao, Fanon, e le varie tradizioni del marxismo italiano (ma sono curiosissimo del extraeuropee) mi hanno insegnato a pensare. Il marxismo però non è uno stile saggistico, né una teoria tra le teorie, ma un metodo di conoscenza della realtà, all’interno del quale le teorie vengono ricomprese come fatti sociali e anche il marxismo stesso lo è: per questo, oltre che per lavoro, il mio essere un lettore bulimico non può non avere influenza sul mio modo di scrivere poesia; anzi, quantitativamente leggo molta più critica letteraria, filosofia, storiografia e scienze sociali che non poesia (per non parlare della narrativa: qualche testa doveva cadere). In questo, più che nella poesia, sta il mio legame con Fortini e la sua idea del critico saggista e della critica come discorso generale ma non generico. Nella saggistica, come mezzo di creazione poetica, un posto speciale va alla teologia con cui (soprattutto quella evangelica) l’orizzonte di allusione alla totalità che la poesia rappresenta ha per me molti legami, ma qui ci sono due rischi.
Il primo è di creare delle legalità separate: da una parte lo studio storico-scientifico, il lavoro anche in senso professionale, l’impostazione radicalmente storicista che non può tollerare assoluti, come del resto una democrazia realmente funzionante; dall’altra un’esperienza sottratta a questa legge in cui la poesia è un discorso sugli assenti fatto ai presenti e dietro di essa si avverte il problema della mancanza di questo assoluto. Come diceva un mio carissimo e compianto amico “Dio non esiste: Dio è, sono io che esisto”.
Il secondo rischio è che su queste basi si consegni, magari per mezzo dei versi, la storia a un Signore della Storia e se questo può essere fatto con un’anima individuale non può essere fatto con la storia dell’umanità, che per essere tale non deve conoscere signorie su se stessa. È di fronte a questi rischi, io credo, che ai poeti (e non solo) si dovrebbe chiedere, tu come ti giustifichi? Nel primo caso penso sia possibile e giusto riservarsi zone di attività non direttamente mercificate (o a basso tasso di mercificazione, se qualcuno storce a ragione il suo naso marxista), in cui si sforzi quanto più possibile di prevalere il lato pratico-formativo e comunicativo-sociale dell’attività umana (ma ad esempio pensava questo il marxista e comunista Sánchez Vázquez), anche lasciando spazio alle contraddizioni che emergono; ragione per cui, per dire, non mi piace molto studiare per lavoro la poesia e cerco di evitarlo quando posso, ma ancora più radicalmente sono contrario all’idea che gli scrittori debbano ricevere un salario in quanto scrittori (tralasciando i problemi materiali e politici che una simile idea si porta dietro). Se nemmeno nel proprio quaderno di poesie siamo capaci di pensare non che esista, ma che debba esistere un’attività umana legata all’espressione, alla socializzazione dell’esperienza e alla costruzione di sé e non legata alla produzione di capitale, allora siamo veramente spacciati. Quanto al secondo rischio beh… dicono che saremo giustificati per fede, ma allora la fede nella poesia è ben misera cosa e da sola non giustifica nemmeno il tempo di chi sta leggendo questa intervista. A questo punto non dovrebbe stupire il teatro: praticamente anche tentativo di inscenare questo groviglio di contraddizioni, di dargli delle voci e dei corpi.
Già la prima sezione del mio primo libro si intitolava Vocazione teatrale e il protagonista delle Strade di Gerico fa l’attore girovago. La scrittura drammatica è venuta (con meno fortuna) di pari passo con quella poetica, come quella fin dall’adolescenza (con scarse prove attoriali), spesso mescolandosi in funzione antilirica. Il dramatic monologue è una forma che ricorre in tutti i miei libri (persino L’arte della sconfitta, poemetto eponimo del libro, a rigor di termini lo è), e alcune le poesie hanno una struttura da microdramma. Tra gli autori che mi hanno più influenzato, oltre alla scontata polarità Shakespeare-Brecht, sicuramente hanno importanza due filoni: un certo gusto per la drammatizzazione delle contraddizioni storiche che da Schiller mi sembra arrivare almeno a Ibsen e Strindberg e una certa tradizione di microdramma che ha possibili declinazioni in poesia, ma non solo, dall’ultimo Yeats fino a Fosse e il cui capolavoro sono forse le Piccole tragedie di Puškin. Nel Novecento ancora una volta il debito e il problema vero è con Pasolini, che così complicatamente e con esiti altissimi affronta il problema di un teatro tragico contemporaneo, e con Barker, il cui adornismo e il cui teatro della catastrofe (sebbene socialmente pessimista ed elitario) mi pongono problemi a cui anche la poesia risponde (spesso nelle sue forme appunto para-drammaturgiche), lo stesso titolo L'arte della sconfitta è debitore del primo dei suoi 49 asides for a tragic theatre: «We are living the extinction of official socialism. When the opposition loses its politics, it must root in art». È sbagliato, forse persino pericoloso, ma per un poeta politico è sbagliato nella maniera giusta: dobbiamo scrivere di socialismo sapendo che scriviamo insieme di cose estinte e di cose future. Nel suo Claw uno studente di classe operaia che ha smarrito l’identità muore affogato nel Wc di un ospedale psichiatrico dopo aver avuto un colloquio con l’ombra del padre, vecchio militante sindacale, che lo esorta a credere nella coscienza (e nell’odio) di classe, perché la classe non può essere uccisa. Ora questa dimensione tragica mi sembra qualcosa che, in maniera crescente attraverso gli ultimi libri, nella mia poesia si manifesta.
Oggi forse il teatro mi interessa più della poesia, o almeno tanto quanto, anche perché mi pare che la sua materialità e la sua natura di opera collettiva possano fornire un antidoto al solipsismo e la condizione fisica di irripetibilità di ogni messa in scena non salva l’aura dell’arte, ma l’autodeterminazione di una società che, per convenzione, decide di riunirsi e assistere a un discorso. Tutto ciò è pura possibilità, sia chiaro; nella pratica non credo che nessuno dei vizi sociali che affliggono il consumo di poesia sia scontato al consumo di teatro (o ai suoi produttori). Per tagliare corto, e per quel poco che posso vedere da dove sto, si può dire che il Dio che ha distrutto Gerico non ha certo risparmiato Cafarnao.
Un ultimo aneddoto: nella scena conclusiva del Boris Godunov di Puškin i boiardi proclamano nuovo zar il falso Dimitri, dopo quella che è di fatto una finta restaurazione legittimista e in realtà una rivoluzione dall’alto. Al loro grido il popolo non risponde (la battuta è una didascalia di silenzio), ecco la poesia dei presenti-assenti e il modo in cui si incontra con il dramma! Lo aveva capito Mejerchol’d che infatti cercò di metterlo in scena e cominciava i suoi appunti di regia con l’esortazione a fare sempre e comunque sentire il verso, (all’autenticità per via di convenzione). Era l’inizio delle Grandi purghe e dei Fronti Popolari e non glielo hanno concesso, è morto in carcere qualche anno più tardi dopo un processo politico. Il Puškin storico ha aggiunto nel 1825 una variante in cui il popolo osanna Dimitri: aggirava forse la censura antidecrabrista che lo guardava a vista nonostante il suo ripiegamento sulla fedeltà allo zarismo. Forse anche lui pensava che in fondo ognuno riconosce i suoi, ma a me piace molto di più la poesia che parla del mancato riconoscimento, in sé e negli altri. Mi sono dilungato qui in special modo non solo perché ovviamente tutte queste cose hanno un’influenza su ciò che scrivo, ma perché infine alla luce di tutto e della necessità di giustificarsi credo che il concetto di intermedialità faccia più parte del catalogo delle idee accademiche chic che della reale pratica poetica, e preferisco un concetto più vecchio: formazione complessiva che si fa prassi.
L’accusa di fare una poesia disonesta viene spesso mossa ancora oggi, benché la distinzione tra poesia onesta e poesia disonesta possa correre il rischio di suonare po’ antiquata (ne parlava già Umberto Saba nel 1911, più di un secolo fa). Ci sarebbe da capire che cos’è oggi questa onestà. Ti ritieni un poeta onesto? Pensi sia importante essere tale?
Cerco di essere una persona onesta. Non vorrei essere giudicato come poeta per ciò per cui dovrei essere giudicato come persona. La poesia come fatto sociale non è mai né onesta né disonesta, va analizzata come tale nella sua verità. Brecht non è un poeta più “onesto” (forse nemmeno più grande) di D’Annunzio, ma se dovessi scegliere non avrei dubbi. Si tratta appunto di questo: scegliere in che tipo di società si vuole vivere e smettere di attribuire qualità morali alla poesia e alla cultura. Questo atteggiamento è tipico peraltro di una piccola borghesia perdente il suo ruolo sociale e che rimpiange (forse anche giustamente) l’umanesimo diffuso attraverso la scuola di massa nel secondo Novecento, quando opera una straordinaria, complicata e contradditoria generazione di quelli che Ferroni ha (provocatoriamente ma, se letto nel contesto, con una punta di verità) chiamato gli ultimi poeti. Oggi questa difesa di secondo grado, perdendo anche di spessore storico, salda ideologemi romantici, estetismo e maledettismo un po’ d’accatto a trincee ideologiche della grande borghesia che essa ha abbandonato da tempo proprio perché diventate “di massa”. La posizione di Saba era scritta in funzione anti-ottocentesca, contro l’idea del poeta vate, ma anche contro la convenzionalità della poesia (attraverso soggetti e situazioni) ed è omologa alla rottura degli schemi metrici. In questo, e per leggere Saba, è interessantissima, ma eviterei di darle un peso che non ha. Come considerazione sull’oggi potrei aggiungere che se io scrivessi oggi un poema epico sulle guerre di religione suonerebbe falso perché “inattuale”, ma nella sua inattualità sarebbe autentico, oppure se scrivessi dal mio computer una esortazione alla resistenza contro gli occupanti israeliani suonerebbe falsa, perché io non sono in Palestina, ma da questa contraddizione emergerebbe un’altra verità, che il lettore può trovare.
Tornando alle domande brevi, ma forse più difficili: perché scrivi poesia? Difficilmente lo si fa per ottenere un guadagno economico. La narrativa poi sembra avere un pubblico più vasto, per non parlare della scrittura cinematografica. Quindi: perché hai scelto proprio di servirti del medium poetico?
Una volta, nella Poetica in forma di congedo che chiude L’arte della sconfitta, ho scritto che la poesia è il genere letterario che può contenere il massimo grado di contraddizione senza per questo divenire falsa. Penso tutto sommato che sia ancora una buona risposta. D’altra parte è anche vero che non è l’unica cosa che scrivo (come molti, e anche questo dovrebbe servire a smitizzare la poesia) e che le forme sociali in cui si organizza la produzione e fruizione di poesia oggi (festival con le preselezioni, premi pletorici con copertura social da elezione presidenziale per marginali quali siamo, antologie con le eliminatorie) e le risposte che generano: pettegolezzo, gelosie, strepito di autoproclamati outsider, snobismo degli affermati, editoria spesso cialtronesca, mi annoiano come poche cose al mondo e devo bere molto per sopportarle quando le incrocio. Oggi vivo molto la poesia come quel «colloquio tra pochi ritradotto da altri» di cui ho parlato a proposito delle Lettere ai senza classe. Voglio raccontare un aneddoto: qualche tempo fa una sconosciuta si siede accanto a me alla cena di un premio e mi chiede subito: che cosa hai vinto? La tentazione di risponderle la Guerra dei Cent’anni era irrefrenabile. Alla fine della conversazione, deviata su territori più umani, la signora si è anche rivelata piacevole, e il marito capace di fare simpatia perché beveva come un assatanato per continuare a fare la parte del grande poeta a tavola senza scoppiare. In un mondo così non si può stare o perlomeno io non posso stare.
Intendiamoci, si può fare pressoché tutto in poesia, ma bisogna anche liberarsi dal bisogno impellente di chiederle qualcosa (prestigio, riconoscimento, ricadute materiali immediate anche con le migliori intenzioni): Ritsos scrisse in prigionia numerose poesie sul retro dei suoi pacchetti di sigarette e noi le conserviamo, Novomeský incarcerato fece altrettanto sulle cartine, ma poi se le fumò e per la maggior parte non le abbiamo. Oppure, e a questo penso spessissimo, Radnóti andò incontro alla fucilazione in lager portandosi in tasca un taccuino di versi, alcuni dei quali recentissimi. Per quale ragione un uomo che sa di morire e di venire gettato in una fossa comune, non solo scrive dei versi, che verosimilmente nessuno leggerà almeno stando alle circostanze, ma li porta con sé? Cosa significa lì la poesia? Non voglio fare l’umanista a tutti i costi, è evidente che il pubblico (e la sua mancanza) è un problema concreto per la poesia e i poeti, ma c’è molto altro più di questo e non dobbiamo dimenticarlo.
Continuo a legare la poesia all’idea di verità, ma quella verità mi appare oggi bipartita: da un lato gli amici, i compagni, il mondo degli affetti che è la camera di elaborazione di quel colloquio, dall’altro un assente-presente che sono le grandi masse di individui esclusi dalla mediazione formale del proprio pensiero e della propria coscienza non meno che dall’esercizio dei propri diritti e di una democrazia reale. So bene che c’è chi ha scritto che non è più vero, come scriveva Brecht, che la letteratura sarà giudicata, ma a questo io posso solo rispondere: invece è vero e lo sarà. Chi pensa il contrario ha scambiato il giudizio della storia con la blind peer review. Certo non bisogna aspettarsi di essere giudicati tra i primi, o soprattutto da propri “pari” (motivo per cui è assurdo pensare che la caduta della società letteraria e dei mandati novecenteschi significhi di per sé anche la fine di un giudizio storico sulla poesia), né di poter conoscere già ora forme e criteri di quel giudizio, non è il risarcimento di chi dice: mi capiranno i posteri. Questa bipartita verità che si presenta a giudizio contiene come condizione di possibilità un riconoscimento: oggi anche il mondo individuale degli affetti somiglia sempre più e totalmente a quei presenti-assenti, perché, non appena si rompe il cerchio magico della fruizione poetica, artistica, estetica, o della creazione, condivide lo stesso grado di spossessamento di sé.
Un’ultima domanda a bruciapelo: una poesia che vorresti aver scritto tu, o che potresti aver scritto tu.
La Canción del esposo soldado di Miguel Hernández, ma non avrei mai potuto scriverla io, anche se avrei voluto e vorrei, non perché sia perfetta, ma perché Hernández, come penso che un po’ debba succedere con i poeti se non si vuol ridurre tutto ad artigianato e lotte culturali, è l’immagine di uomo che io vorrei essere: uno che scrive quella poesia al fronte, non per l’editore, ma per la moglie lontana e il figlio che non vedrà se non una volta, dietro le sbarre. Un capraio che impugna l’alessandrino, ma anche il mitra (sarebbe potuto fuggire) e a trentadue anni muore in carcere come moltissimi altri, lasciando un’opera straordinaria, non solo in poesia, ma non chiedendo per questo privilegi alla storia. Ci penso spesso ora che ho l’età in cui è morto, e io invece…
Se dovessi invece scegliere una sola poesia per rappresentare la tua poetica, quale sarebbe?
È difficilissimo, perché questa domanda contiene sottesa l’idea della poesia come pezzo singolo, magari di bravura, come elemento di antologia. Mi pare la visione oggi maggioritaria nella poesia contemporanea, sostenuta da diversi elementi sociali: la prevalenza, appunto, delle antologie (o peggio delle microselezioni su blog) come veicolo di conoscenza della poesia, delle letture come momento di socializzazione, che richiedono testi brevi, suggestivi e facilmente codificabili, in qualche modo privilegiando le poetiche esplicite e la versione pièce bien faite applicata alla poesia. Per mio conto penso invece i libri come organismi interi, in cui ogni “pezzo” ha senso solo alla luce dell’insieme. Per questa ragione dovendo scegliere sceglierei Alma Matinal, il testo di apertura dell’Arte della sconfitta. Non perché sia particolarmente riuscita, o perché lì ci sia l’essenza della mia poesia (non ci sono essenze ma evoluzioni), quanto perché lì si apre qualcosa che, nei diversi libri, non si è ancora concluso.
Luca Mozzachiodi è nato a Genova nel 1992 . Per Poesia del Nostro tempo cura la rubrica Passato Prossimo. Si è formato al Collegio Superiore dell’università di Bologna, è Dottore di Ricerca in culture filologiche e letterarie, ha svolto attività di ricerca presso il Dipartimento FICLIT dell’ateneo bolognese e presso l’università della Calabria
Ha scritto per le riviste scientifiche «Bibliomanie», «L’Ospite Ingrato», «Atelier», «l’Ulisse», «Ticontre», «Thomas Project», «Scenari» occupandosi di letteratura italiana contemporanea, di poesia, di teoria letteraria e di storia degli intellettuali.
Scrive recensioni e articoli di critica culturale per Ytali, Dinamopress, Nuova Ciminiera, Il Manifesto in rete, Versante Ripido, Mediumpoesia.
Ha pubblicato i libri di poesia Le Strade di Gerico (Serra Tarantola 2013), L’arte della sconfitta (Qudulibri 2017) e Tempo stellare (Bertoni 2024) e curato l’antologia Voci di Oggi (Istos edizioni 2017), ha pubblicato il saggio Preparando il Sessantotto: Saggisti e scrittori nelle riviste della Nuova Sinistra (1956-1967) (Pacini 2024) ed è in preparazione la raccolta di saggi Gli scacchi di Brecht.