Catalogo della noia – lo stato avuto e respinto

4 Aprile 2025

La noia è un meccanismo che si mette in azione per proteggere da ragionamenti e situazioni che potrebbero far sprofondare nella reale tristezza, o più. Equivale ad una nausea che ribolle nello stomaco senza che si possa prevedere se e quando arriverà la rimessa. Nella persona si perpetua uno stato di niente e, allo stesso tempo, di attesa di qualcosa, che ancora le è sconosciuto.

Il rapporto tra la vita e la noia è un tira-e-molla in cui si è sempre sballottati; si cerca di fare forza per rimanere nello statuto della vita. Nello slancio senecano con cui si mira a impiegare il proprio tempo adeguatamente – prima che la morte arrivi a stroncare la breve esistenza –, si tenta di fuggire dai momenti di stasi e paralisi, che però non equivalgono all’otium latino; anzi, al contrario, corrispondono ad una condizione che per Seneca stesso era definibile come un taedium vitae (cfr. De tranquillitate animi), una malattia dell’animo umano, a cui si è predisposti nel momento in cui non si accoglie la vitalità dell’hic et nunc.

Ed ecco che in questa lotta che sfibra (Nino Oxilia, Da quale attimo questa noia che opprime in Canti Brevi, 1909) si insedia la poesia.

 

Da quale attimo nacque questa noia che opprime,

questa lotta che sfibra?

 

Che cosa sono e bene e male se non parole

vane che noi creammo?

 

Alla sua turpe scuola il despoto: l'inganno

ci tiene ebeti, avvinti.

 

Ogni baleno è falso, ogni dolore scompare

nel silenzio dell'Io.

 

Dalle mille ferite che ostentiamo piangendo

altrui, che non si cura,

 

non sorte sangue - Delle pozzanghere il limo

ci scorre nelle vene.

 

(da Canti brevi, Umberto Spezia Editore 1909)

 

 

La noia, che è limo delle pozzanghere, ci scorre nelle vene; ci fa «ebeti, avvinti». Emerge fin da subito il carattere stagnante di questa condizione che Carlo Bini nel 1833 descriveva all’interno del suo romanzo Manoscritto di un prigioniero così: «La noia èuna parola sola, una parola breve, ma il provarla è tal volume che uomo al mondo non sfoglierebbe così per tempo, nè così di leggieri».

Uno stato paralizzante, che impedisce l’azione e la pulsione. La vita è fagocitata in un limbo che addirittura sembra prosciugarla.

 

Noia annoiata che neanche si stupisce di se stessa,

noia modesta che non ha bandiera,

che è il solo stare, neanche tanto male,

noia di un corpo quasi sano, noia animale,

pensiero lasco che non sente e non trasale,

io bevo molta acqua minerale

per poi molto pisciare, mi curo in questo

perfettissimo ospedale che vuole

fare secco il mio gran dio ormonale.

 

(Patrizia Cavalli, Datura, Einaudi, 2013)

 

Fin dai primi versi si rivela la stasi («è il solo stare») in una disposizione di normalità, dove nulla eccede («un corpo quasisano» e «vuole / fare secco il mio gran dio ormonale»). La noia allora risiede nella sottrazione allo sbilanciamento, ai moti fisici ed emozionali. Il sentimento è repulso dallo schema di un tedio che lo secca. 

La prima via della noia è l’abbassarsi della percezione degli stimoli. Ecco che il pensiero si fa lasco – allentato –, non c’è la forza stringente a fare presa sulla vita: è un lasciarsi andare con un’angoscia sottesa ed esistenziale. 

 

NOIA

Da Le fiale (Francesco Lumachi Editore, 1903) di Corrado Govoni

 

Sempre per I'occhio le stesse cose

e per l'udito suoni abituali,

sempre a l'orto le medesime rose

i grandi tulipani feodali.

 

Sempre I'ore monotone e insidiose

coi disinganni e con i crudi mali,

e le stesse figure misteriose

ne le stole e nei mystici piviali.

 

Sopra le tombe gli stessi fiori

sempre, e le nere epigrafi benigne

tra i ceri spenti e le consunte imagini,

 

e nei fiali gli insipidi liquori

quotidiani e le tisane amarigne...

O noia interminabile di vivere!...

 

Govoni rimarca pedantemente il carattere quotidiano e ricorsivo delle cose, o meglio, della vita. È in questo senso che il sentimento cardine che si instaura nel rapporto vitale è la noia, che qui si rivela come interminabile. Lo schema metrico, la rima baciata, i puntini di sospensione, il lessico sono tutti elementi che enfatizzano questo componimento – e altri – che narrano il tedio di vivere. Lasciano che l’atmosfera, così come l’annoiato, si libri in un vuoto di malessere. Proprio in questa inquietudine esistenziale risiede la seconda via del tedio.

A dire il vero, se si osservasse il piano etimologico, si verrebbe a conoscenza che la noia non sia affatto sorella del Niente e del Dolore (Cazzamini Mussi, Alla noia in Le amare voluttà, 1910), bensì sia il prodotto dell’odio. Inodiare è il verbo del latino tardo-antico da cui nasce poi il lemma noia. Il carattere noioso perciò è figlio di un sentimento acceso e polare. L’odio nell’impossibilità di fare o trovare qualcosa da fare. 

Quella della noia è una postura scomoda che obbliga a muoversi di continuo nell’attesa di un rilancio verso la vita. Affabula di solito la mollezza dei cuscini su cui ci si abbandona, indolenti. Qui subentra la sonnolenza, acuita da un'ebbrezza tenue della mente che vela gli occhi assonnati. Sono all’incirca queste le parole che Amalia Guglielminetti usa per spiegare una sorta di divertissement pascaliano nella sua lirica Tediata (da Le vergini folli, 1907), una semantica del languore che sembra quasi coprire altro. 

 

TEDIATA

Da Le vergini folli (Società Tip. Ed. Nazionale, 1907) di Amalia Guglielmetti 

 

Tu t'abbandoni, o pallida indolente, 

nella ricca mollezza de' cuscini, 

e in sonnolenta voluttà reclini 

le ciglia gravi tediosamente,

 

quasi un'ebrezza tenue la tua mente 

oziosa per strane ombre trascini, 

o velino i tuoi verdi occhi felini 

soporiferi aromi d'oriente.

 

O sei come una bella agile tigre, 

che s'allunghi a giacer sotto una palma, 

con sue movenze regalmente pigre.

 

Ma non t'insidia il serpe tentatore, 

e tu per scuoter la tua uggiosa calma 

ti lasceresti pur suggere il cuore.

 

È una nebbia quella che Palazzeschi, e molti altri, si immagina per rendere concreta questa condizione che nasconde e tutela. 

 

IL PASTELLO DEL TEDIO

Da Cavalli bianchi (1905), poi rivisitata in Poesie giovanili (Arnoldo Mondadori Editore, 1958)

 

Dal grigio della nebbia fitta fitta

traspaiono cipressi

ombre nere

spugne di nebbia.

E di lontano dondolando lento

ne viene un suono di campana quasi spento.

Più lontano lontano

passa un treno mugghiando.

 

Nella noia, così come nella nebbia fitta fitta, si annulla anche la geografia sentimentale.

Gli annoiati si percepiscono annoiati da sempre e non vedono via di uscita; non vedono nemmeno altro posto dalla sedia, letto o divano che sia. Rimangono immobili e offuscati da questo pastello pallido.

Effettivamente qualcosa c’è: traspaiono i cipressi, viene un suono di campana e passa un treno mugghiando. Tutti questi elementi tuttavia si fanno lontani lontani, quasi spenti. 

Annoiarsi significa appartarsi dentro di sé trovando però tutto vuoto e ombra. Ma il vuoto e l’ombra sono un inganno: la noia impone di doversi confrontare con se stessi anche quando non si è in grado. Cala allora questa nebbia che copre tutto. Se si guardasse con maggiore lucidità emergerebbe un albergo.

 

L’ALBERGO DELLA NOIA

da Fermento (Edizione dell'Autore, 1931) di Remo Mannoni

 

Com'è triste l'albergo della Noia! 

S'inseguono le stanze allineate 

in fila come celle claustrali 

pei corridoi simmetrici percorsi 

dai tappeti che bevono i rumori. 

Tappeti grigi, grigi come l'ombre 

che vegliano alle soglie delle porte 

freddi come la polvere cinerea 

che si raggruma sovra le specchiere 

velandone i grandi occhi allucinati. 

Mobili taciturni come bare 

dimenticate ... - Le tignuole dormono 

un sonno antico nei massicci armadi 

neri - Sogghigna il lucido ferrame 

come le inferriate degli ergastoli. 

E poi, divani soffici avvolgenti 

come il lubrico fango degli stagni 

poltrone che poltriscono enfiate, 

a braccia aperte, nell' attesa vana 

che vi si sdrai l'Ospite accidioso.

Le tende vellutate e le portiere

flosce, pesanti, sembrano le ali

di penduli chirotteri in letargo.

Celano forse i resti di un delitto,

o qualche accoppiamento mostruoso?

Scale di sopra, scale in basso, scale

che si pèrdono su, nell'infinito,

tutte a spirali tormento se come

l'anime folli che non hanno tregua.

Solo, ogni tanto, qualche lucernario

sgrana nell' ombra la pupilla smorta,

una nube d'ovatta insanguinata,

rade i vetri stagnanti, e vi si fiocca.

Da quanto tempo, immemore, mi aggiro

ospite involontario in mezzo ad ospiti

occulti nel castello della Noia? ..

Cerco invano la stanza che m'accolga,

la crisalide bigia dove il sogno

tessere possa qualche filo d'oro ...

Innumeri orologi si accompagnano

rigidamente al ritmo del mio cuore,

accoliti devoti del silenzio:

le lancette, che lacerano il tempo,

segnano tutte la medesima ora!. ..

- Chi, di sorpresa, mi condusse qua?

Ecco la Morte, pallida, composta,

con un inchino cerimonioso,

additarmi la stanza del riposo.

E lasciarmi così, senza risposta …

 

Mannoni riporta l’estetica della noia in questi ambienti fisici e mentali, in cui si annullano le spinte emotive, dove tutto è sotto controllo, prevedibile: le stanze s’inseguono allineate e i corridoi sono simmetrici. I tappeti grigi grigi assorbono i rumori, quindi contribuiscono all’annullamento degli stimoli esterni che l’annoiato già cerca di evitare; così i mobili taciturni. Le inferriate fanno dell’albergo una prigione eterna (le inferriate degli ergastoli) insieme alle tende vellutate e alle portiere flosce e pesanti. Anche in Mannoni i divani sono soffici e avvolgenticome il lubrico fango degli stagni, riprendendo la mollezza e la tentazione espressa nella poesia di Guglielminetti. Poco più in là ci sono delle scale che portano in tutte le direzioni, si perdono nell’infinito: questo è l’auspicio funesto della noia, che la perdizione sia perpetua, in un labirinto che appare alla mano dell’Ospite accidioso, nascondendo forse i resti di un delitto. Ritornando alla poesia iniziale, qui «la lotta che sfibra» sta nell’aprire quelle porte che sono chiuse. Oltre quella soglia possono nascondersi diverse cose: l’immaginazione, la creatività, i pensieri respinti, gli impegni dimenticati. Fondamentalmente, la vita.

 

P.S.: Per chi avesse malauguratamente aperto questo articolo per noia, magari cercando in rete qualcosa per abbattere questo stato, lascio di seguito altre poesie in tema, cosicché possiate perpetuare il tedio o, chissà, trovare la via del sole (Cazzamini Mussi, Alla noia in Le amare voluttà, 1910).

 

ALLA NOIA

di Francesco Cazzamini Mussi, da Le amare voluttà, Baldini & Castoldi, 1910 

 

Noia, che il cuore giovine mi schiacci

ferocemente e da ogni cosa emani,

Noia, che sempre col tuo gelo agghiacci

gl'impeti umani,

 

sorella del Niente e del Dolore,

maledetta che il mio sangue avveleni,

trattenuto nel vol dominatore

tutto mi tieni.

 

A me ancora la forza ; a me l'ambascia

della sconfitta; a me la via di sole,

vivida e calda; il cuore non si accascia,

vincere vuole,

 

e vincerà: nel sogno già intravviste,

la nostalgia degli orizzonti immensi

spinge l'anime nostre alle conquiste

di nuovi sensi.

 

*

Questa notte perfetta, questa ora così dolce,

il silenzio, e nessuno che disturbi

in questa casa esposta solo al mare e al cielo

nella temperatura giusta della carne,

io senza carne qui di fronte a te

mentre mi annoio e mentre tu ti annoi e credi

che rompere il silenzio rompa la noia

che invece ogni parola accresce. E adesso?

Annoiarsi da soli forse è un lusso,

ma annoiarsi in due è disperazione

– non è noia che placida risieda,

ma attivamente lavora nel mio sangue

e mi fa scarsa e debole, mi estingue.

 

(Patrizia Cavalli, da Datura, Einaudi 2013)

 

*

LA NOIA

Di Alberto Moravia da Poesie, Bompiani (inediti degli anni Ottanta e Novanta del Novecento)

 

Mi sono annoiato

tutta la vita

finché ho scritto La noia

e poi 

dopo La noia

ho continuato

ad addormentarmi.

 

*

BALLATA CREPUSCOLARE

Di Guido da Verona, da Il libro del mio sogno errante, Baldini & Castoldi, 1919

 

Nell'alte bufere di polvere

che solleva uno stormo di cavalli

nel furioso galoppo,

i corvi gridando ammulìnano

su da l'immenso pianoro

verso la Città che splende orlata di nuvole d'oro.

 

Avvampa un rogo per i culmini

dall'alta muraglia ove convergono

i fuochi vertiginosi del tramonto

e i corvi, neri come la tormenta,

feltrati calanti come l'ala della notte,

a migliaia sopra, gridando, vi strapiombano a migliaia,

come per stendere un lenzuolo funebre

sopra il delirio della sera.

 

Perché tanto gridano i corvi

calando sui rami degli alberi

al sopravvenire della notte?

Son forse richiami d'amore che il maschio a voi manda,

o femmine calde, raccolte nell'ala piegata

sul ramo che manda profumo

di notte stellata? 

 

 Ma io che sto sola e m'annoio

nella deserta mia casa dove nessuno mi chiama,

non odo la voce lontana

dell'uomo ignoto che mi ama,

e quasi di tristezza muoio...

 

 Io faccio scorrer la spola

e fo' girar l'arcolaio

per compiere questo ricamo

di seta che ho sul telaio.

 

 I corvi si addensan come nuvole

su gli alberi del mio giardino,

e manda un profumo che m'inebbria

il fiore pallido Gelsomino.

 

 Ma i corvi ora s'addormentano,

ed il pavone s'è appollaiato...

Oh il buon odore che tramandano

i fiori del pomo granato!

 

 Traverso la porpora d'oro

che infiamma d'aurore notturne le mura serene,

che filtra per le griglie verdi ove s'inerpica e trema

il fiore pallido Gelsomino,

mi giunge lieve una ballata crepuscolare, che m'incanta:

e mentre il delirio della sera

per la imporporata ombra sale,

un'ebbra voglia di vivere,

frammista in me con il pensiero

della morte infinita, m'assale.

 

 O stendardi di porpora!...

gonfie bandiere scintillanti come fontane d'oro!...

ali recise, cadenti nella fiamma,

supreme ali di sole!...

portate a me solitaria un simile grido d'amore,

un simile grido, e mi giunga

soffocato, nel delirio della sera!

 

 Bufere, bufere... La spola

si ferma; il telaio s'inclina;

più vasta l'ombra s'accoglie

nella mia faccia china.

 

 Ahimè, come sono felici

i corvi, sui rami odorati

che dolce profumo che mandano

i fiori dei pomi granati!...

 

 Mentr'io camminerò senza lampada

nel raggio verde pallidissimo della luna verde che non dà pace,

verso la mia coltre deserta,

verso il giaciglio tormentoso

dove non fui che l'amante inane del mio sogno voluttuoso.

 

 Dove talvolta, mentre le stelle,

simili ad un volo innumerevole di farfalle d'oro,

infurian come bufere di luce

nel quadrato azzurro della finestra,

e par che ogni atomo dello spazio

più miriadi ne chiuda,

non oso nemmeno spogliarmi

per la paura d'esser nuda,

e sto con la gola scoverta

guardando le stelle infuriare nella finestra aperta.

 

 Allor talvolta nell'incantesimo

della notte, che fila

i fili d'oro della sua conocchia,

mi par che un'ombra m'allacci

subitamente le ginocchia,

subitamente mi stringa la gola turgida, inquieta,

e che una mano mi stracci

la bella mia veste di seta.

 

*

PAESAGGIO D’ANGOSCIA

di Federico di Maria da La leggenda della Vita, Ed. di “Poesia”, 1909

 

Un cielo angusto, basso

e fumido; un mare

costretto fra due rive piatte, che urla

bavoso e livido sotto la rabbia

dello scirocco; un veliero che, lasso

dal fortunale, entra in porto

con vele lacere; un lungo filare

di scarmigliati platani che chiurlano;

e barche dannate

lungo la spiaggia. Lontano, di fronte

alla mia finestra fischiante,

sull’opposta riva, un mulino

grande nell’aria caliginosa,

dall’ala stellare rotante

senza posa, senza posa...

 

Da quanti giorni, cosi, si convelle

la prigioniera mia vita?

Senza sole, senza più stelle!

Tutti i miei giorni trascorsi

io li vedo lontani, velati,

come oltre una densa caligine

di sogno, confusi in febbrile scompiglio

con quel che chiamai avvenire.

Come lente, oh! eterne a fluire

le giornate!... Da tempo immemorabile

forse, io son qui, son legato

qui, come sopra un abisso,

inerte, ad attendere un fato

sconosciuto. E sento un altro ridente destino,

altri, e luminosi orizzonti, lontano,

di là dal mio sguardo che mira

solo un orribile mare,

dei platani che si contorcono

e l’ossessionante vertigine

di quel maledetto mulino

che gira, che gira, che gira…

 

*

PIÙ NULLA

di Giuliano Donati Petteni da Intimità, Zanichelli Editore, 1926

 

"Più nulla!" tu mi dici, e ne le mani

celando il volto, soffochi un singulto.

Anche tu soffri questo male occulto,

anima, il tedio de' tuoi giorni vani.

 

La nave che partì con vele bianche

è perduta fra i ghiacci o in fondo al mare.

Tale è la sorte. Alziamo ora le stanche

supplici braccia il cielo ad implorare?

 

Parliamo lentamente; il nuovo giorno

più non risorge. Verso l'infinito

compio il cammino che non ha ritorno.

 

Parliamo lentamente e a mezza voce;

qualche cosa nell'aria è impallidito...

Piange il mio cuore all'ombra della croce!

 

*

NOIA

di Corrado Govoni in Poesie elettriche, Ed. Futuristiche di “Poesia”, 1911

 

Via! fiori sdolcinanti e cascamorti,

rose, che dopo un’ora di delizia

sapete di carogna e d’immondizia

come l’amore, e voi, verdastri aborti

 

degli gnomi, orchidèe mostruose,

ernie degli angeli fornicatori,

mistici acquasantini degli odori,

e gole di tarasche favolose. 

 

A me! nere bottiglie, sull’attenti 

con i vostri sigilli rossi come 

tondi berretti di garibaldini.

 

Fate che sul suo seno io m’addormenti

prima ch’io l’afferri per le chiome

e col mio rasoio l’assassini.

 

P.S.: Per chi avesse malauguratamente aperto questo articolo per noia, magari cercando in rete qualcosa per abbattere questo stato, lascio di seguito altre poesie in tema, cosicché possiate perpetuare il tedio o, chissà, trovare la via del sole (Cazzamini Mussi, Alla noia in Le amare voluttà, 1910).