
La noia è un meccanismo che si mette in azione per proteggere da ragionamenti e situazioni che potrebbero far sprofondare nella reale tristezza, o più. Equivale ad una nausea che ribolle nello stomaco senza che si possa prevedere se e quando arriverà la rimessa. Nella persona si perpetua uno stato di niente e, allo stesso tempo, di attesa di qualcosa, che ancora le è sconosciuto.
Il rapporto tra la vita e la noia è un tira-e-molla in cui si è sempre sballottati; si cerca di fare forza per rimanere nello statuto della vita. Nello slancio senecano con cui si mira a impiegare il proprio tempo adeguatamente – prima che la morte arrivi a stroncare la breve esistenza –, si tenta di fuggire dai momenti di stasi e paralisi, che però non equivalgono all’otium latino; anzi, al contrario, corrispondono ad una condizione che per Seneca stesso era definibile come un taedium vitae (cfr. De tranquillitate animi), una malattia dell’animo umano, a cui si è predisposti nel momento in cui non si accoglie la vitalità dell’hic et nunc.
Ed ecco che in questa lotta che sfibra (Nino Oxilia, Da quale attimo questa noia che opprime in Canti Brevi, 1909) si insedia la poesia.
Da quale attimo nacque questa noia che opprime,
questa lotta che sfibra?
Che cosa sono e bene e male se non parole
vane che noi creammo?
Alla sua turpe scuola il despoto: l'inganno
ci tiene ebeti, avvinti.
Ogni baleno è falso, ogni dolore scompare
nel silenzio dell'Io.
Dalle mille ferite che ostentiamo piangendo
altrui, che non si cura,
non sorte sangue - Delle pozzanghere il limo
ci scorre nelle vene.
(da Canti brevi, Umberto Spezia Editore 1909)
La noia, che è limo delle pozzanghere, ci scorre nelle vene; ci fa «ebeti, avvinti». Emerge fin da subito il carattere stagnante di questa condizione che Carlo Bini nel 1833 descriveva all’interno del suo romanzo Manoscritto di un prigioniero così: «La noia èuna parola sola, una parola breve, ma il provarla è tal volume che uomo al mondo non sfoglierebbe così per tempo, nè così di leggieri».
Uno stato paralizzante, che impedisce l’azione e la pulsione. La vita è fagocitata in un limbo che addirittura sembra prosciugarla.
Noia annoiata che neanche si stupisce di se stessa,
noia modesta che non ha bandiera,
che è il solo stare, neanche tanto male,
noia di un corpo quasi sano, noia animale,
pensiero lasco che non sente e non trasale,
io bevo molta acqua minerale
per poi molto pisciare, mi curo in questo
perfettissimo ospedale che vuole
fare secco il mio gran dio ormonale.
(Patrizia Cavalli, Datura, Einaudi, 2013)
Fin dai primi versi si rivela la stasi («è il solo stare») in una disposizione di normalità, dove nulla eccede («un corpo quasisano» e «vuole / fare secco il mio gran dio ormonale»). La noia allora risiede nella sottrazione allo sbilanciamento, ai moti fisici ed emozionali. Il sentimento è repulso dallo schema di un tedio che lo secca.
La prima via della noia è l’abbassarsi della percezione degli stimoli. Ecco che il pensiero si fa lasco – allentato –, non c’è la forza stringente a fare presa sulla vita: è un lasciarsi andare con un’angoscia sottesa ed esistenziale.
NOIA
Da Le fiale (Francesco Lumachi Editore, 1903) di Corrado Govoni
Sempre per I'occhio le stesse cose
e per l'udito suoni abituali,
sempre a l'orto le medesime rose
i grandi tulipani feodali.
Sempre I'ore monotone e insidiose
coi disinganni e con i crudi mali,
e le stesse figure misteriose
ne le stole e nei mystici piviali.
Sopra le tombe gli stessi fiori
sempre, e le nere epigrafi benigne
tra i ceri spenti e le consunte imagini,
e nei fiali gli insipidi liquori
quotidiani e le tisane amarigne...
O noia interminabile di vivere!...
Govoni rimarca pedantemente il carattere quotidiano e ricorsivo delle cose, o meglio, della vita. È in questo senso che il sentimento cardine che si instaura nel rapporto vitale è la noia, che qui si rivela come interminabile. Lo schema metrico, la rima baciata, i puntini di sospensione, il lessico sono tutti elementi che enfatizzano questo componimento – e altri – che narrano il tedio di vivere. Lasciano che l’atmosfera, così come l’annoiato, si libri in un vuoto di malessere. Proprio in questa inquietudine esistenziale risiede la seconda via del tedio.
A dire il vero, se si osservasse il piano etimologico, si verrebbe a conoscenza che la noia non sia affatto sorella del Niente e del Dolore (Cazzamini Mussi, Alla noia in Le amare voluttà, 1910), bensì sia il prodotto dell’odio. Inodiare è il verbo del latino tardo-antico da cui nasce poi il lemma noia. Il carattere noioso perciò è figlio di un sentimento acceso e polare. L’odio nell’impossibilità di fare o trovare qualcosa da fare.
Quella della noia è una postura scomoda che obbliga a muoversi di continuo nell’attesa di un rilancio verso la vita. Affabula di solito la mollezza dei cuscini su cui ci si abbandona, indolenti. Qui subentra la sonnolenza, acuita da un'ebbrezza tenue della mente che vela gli occhi assonnati. Sono all’incirca queste le parole che Amalia Guglielminetti usa per spiegare una sorta di divertissement pascaliano nella sua lirica Tediata (da Le vergini folli, 1907), una semantica del languore che sembra quasi coprire altro.
TEDIATA
Da Le vergini folli (Società Tip. Ed. Nazionale, 1907) di Amalia Guglielmetti
Tu t'abbandoni, o pallida indolente,
nella ricca mollezza de' cuscini,
e in sonnolenta voluttà reclini
le ciglia gravi tediosamente,
quasi un'ebrezza tenue la tua mente
oziosa per strane ombre trascini,
o velino i tuoi verdi occhi felini
soporiferi aromi d'oriente.
O sei come una bella agile tigre,
che s'allunghi a giacer sotto una palma,
con sue movenze regalmente pigre.
Ma non t'insidia il serpe tentatore,
e tu per scuoter la tua uggiosa calma
ti lasceresti pur suggere il cuore.
È una nebbia quella che Palazzeschi, e molti altri, si immagina per rendere concreta questa condizione che nasconde e tutela.
IL PASTELLO DEL TEDIO
Da Cavalli bianchi (1905), poi rivisitata in Poesie giovanili (Arnoldo Mondadori Editore, 1958)
Dal grigio della nebbia fitta fitta
traspaiono cipressi
ombre nere
spugne di nebbia.
E di lontano dondolando lento
ne viene un suono di campana quasi spento.
Più lontano lontano
passa un treno mugghiando.
Nella noia, così come nella nebbia fitta fitta, si annulla anche la geografia sentimentale.
Gli annoiati si percepiscono annoiati da sempre e non vedono via di uscita; non vedono nemmeno altro posto dalla sedia, letto o divano che sia. Rimangono immobili e offuscati da questo pastello pallido.
Effettivamente qualcosa c’è: traspaiono i cipressi, viene un suono di campana e passa un treno mugghiando. Tutti questi elementi tuttavia si fanno lontani lontani, quasi spenti.
Annoiarsi significa appartarsi dentro di sé trovando però tutto vuoto e ombra. Ma il vuoto e l’ombra sono un inganno: la noia impone di doversi confrontare con se stessi anche quando non si è in grado. Cala allora questa nebbia che copre tutto. Se si guardasse con maggiore lucidità emergerebbe un albergo.
L’ALBERGO DELLA NOIA
da Fermento (Edizione dell'Autore, 1931) di Remo Mannoni
Com'è triste l'albergo della Noia!
S'inseguono le stanze allineate
in fila come celle claustrali
pei corridoi simmetrici percorsi
dai tappeti che bevono i rumori.
Tappeti grigi, grigi come l'ombre
che vegliano alle soglie delle porte
freddi come la polvere cinerea
che si raggruma sovra le specchiere
velandone i grandi occhi allucinati.
Mobili taciturni come bare
dimenticate ... - Le tignuole dormono
un sonno antico nei massicci armadi
neri - Sogghigna il lucido ferrame
come le inferriate degli ergastoli.
E poi, divani soffici avvolgenti
come il lubrico fango degli stagni
poltrone che poltriscono enfiate,
a braccia aperte, nell' attesa vana
che vi si sdrai l'Ospite accidioso.
Le tende vellutate e le portiere
flosce, pesanti, sembrano le ali
di penduli chirotteri in letargo.
Celano forse i resti di un delitto,
o qualche accoppiamento mostruoso?
Scale di sopra, scale in basso, scale
che si pèrdono su, nell'infinito,
tutte a spirali tormento se come
l'anime folli che non hanno tregua.
Solo, ogni tanto, qualche lucernario
sgrana nell' ombra la pupilla smorta,
una nube d'ovatta insanguinata,
rade i vetri stagnanti, e vi si fiocca.
Da quanto tempo, immemore, mi aggiro
ospite involontario in mezzo ad ospiti
occulti nel castello della Noia? ..
Cerco invano la stanza che m'accolga,
la crisalide bigia dove il sogno
tessere possa qualche filo d'oro ...
Innumeri orologi si accompagnano
rigidamente al ritmo del mio cuore,
accoliti devoti del silenzio:
le lancette, che lacerano il tempo,
segnano tutte la medesima ora!. ..
- Chi, di sorpresa, mi condusse qua?
Ecco la Morte, pallida, composta,
con un inchino cerimonioso,
additarmi la stanza del riposo.
E lasciarmi così, senza risposta …
Mannoni riporta l’estetica della noia in questi ambienti fisici e mentali, in cui si annullano le spinte emotive, dove tutto è sotto controllo, prevedibile: le stanze s’inseguono allineate e i corridoi sono simmetrici. I tappeti grigi grigi assorbono i rumori, quindi contribuiscono all’annullamento degli stimoli esterni che l’annoiato già cerca di evitare; così i mobili taciturni. Le inferriate fanno dell’albergo una prigione eterna (le inferriate degli ergastoli) insieme alle tende vellutate e alle portiere flosce e pesanti. Anche in Mannoni i divani sono soffici e avvolgenticome il lubrico fango degli stagni, riprendendo la mollezza e la tentazione espressa nella poesia di Guglielminetti. Poco più in là ci sono delle scale che portano in tutte le direzioni, si perdono nell’infinito: questo è l’auspicio funesto della noia, che la perdizione sia perpetua, in un labirinto che appare alla mano dell’Ospite accidioso, nascondendo forse i resti di un delitto. Ritornando alla poesia iniziale, qui «la lotta che sfibra» sta nell’aprire quelle porte che sono chiuse. Oltre quella soglia possono nascondersi diverse cose: l’immaginazione, la creatività, i pensieri respinti, gli impegni dimenticati. Fondamentalmente, la vita.
P.S.: Per chi avesse malauguratamente aperto questo articolo per noia, magari cercando in rete qualcosa per abbattere questo stato, lascio di seguito altre poesie in tema, cosicché possiate perpetuare il tedio o, chissà, trovare la via del sole (Cazzamini Mussi, Alla noia in Le amare voluttà, 1910).
ALLA NOIA
di Francesco Cazzamini Mussi, da Le amare voluttà, Baldini & Castoldi, 1910
Noia, che il cuore giovine mi schiacci
ferocemente e da ogni cosa emani,
Noia, che sempre col tuo gelo agghiacci
gl'impeti umani,
sorella del Niente e del Dolore,
maledetta che il mio sangue avveleni,
trattenuto nel vol dominatore
tutto mi tieni.
A me ancora la forza ; a me l'ambascia
della sconfitta; a me la via di sole,
vivida e calda; il cuore non si accascia,
vincere vuole,
e vincerà: nel sogno già intravviste,
la nostalgia degli orizzonti immensi
spinge l'anime nostre alle conquiste
di nuovi sensi.
*
Questa notte perfetta, questa ora così dolce,
il silenzio, e nessuno che disturbi
in questa casa esposta solo al mare e al cielo
nella temperatura giusta della carne,
io senza carne qui di fronte a te
mentre mi annoio e mentre tu ti annoi e credi
che rompere il silenzio rompa la noia
che invece ogni parola accresce. E adesso?
Annoiarsi da soli forse è un lusso,
ma annoiarsi in due è disperazione
– non è noia che placida risieda,
ma attivamente lavora nel mio sangue
e mi fa scarsa e debole, mi estingue.
(Patrizia Cavalli, da Datura, Einaudi 2013)
*
LA NOIA
Di Alberto Moravia da Poesie, Bompiani (inediti degli anni Ottanta e Novanta del Novecento)
Mi sono annoiato
tutta la vita
finché ho scritto La noia
e poi
dopo La noia
ho continuato
ad addormentarmi.
*
BALLATA CREPUSCOLARE
Di Guido da Verona, da Il libro del mio sogno errante, Baldini & Castoldi, 1919
Nell'alte bufere di polvere
che solleva uno stormo di cavalli
nel furioso galoppo,
i corvi gridando ammulìnano
su da l'immenso pianoro
verso la Città che splende orlata di nuvole d'oro.
Avvampa un rogo per i culmini
dall'alta muraglia ove convergono
i fuochi vertiginosi del tramonto
e i corvi, neri come la tormenta,
feltrati calanti come l'ala della notte,
a migliaia sopra, gridando, vi strapiombano a migliaia,
come per stendere un lenzuolo funebre
sopra il delirio della sera.
Perché tanto gridano i corvi
calando sui rami degli alberi
al sopravvenire della notte?
Son forse richiami d'amore che il maschio a voi manda,
o femmine calde, raccolte nell'ala piegata
sul ramo che manda profumo
di notte stellata?
Ma io che sto sola e m'annoio
nella deserta mia casa dove nessuno mi chiama,
non odo la voce lontana
dell'uomo ignoto che mi ama,
e quasi di tristezza muoio...
Io faccio scorrer la spola
e fo' girar l'arcolaio
per compiere questo ricamo
di seta che ho sul telaio.
I corvi si addensan come nuvole
su gli alberi del mio giardino,
e manda un profumo che m'inebbria
il fiore pallido Gelsomino.
Ma i corvi ora s'addormentano,
ed il pavone s'è appollaiato...
Oh il buon odore che tramandano
i fiori del pomo granato!
Traverso la porpora d'oro
che infiamma d'aurore notturne le mura serene,
che filtra per le griglie verdi ove s'inerpica e trema
il fiore pallido Gelsomino,
mi giunge lieve una ballata crepuscolare, che m'incanta:
e mentre il delirio della sera
per la imporporata ombra sale,
un'ebbra voglia di vivere,
frammista in me con il pensiero
della morte infinita, m'assale.
O stendardi di porpora!...
gonfie bandiere scintillanti come fontane d'oro!...
ali recise, cadenti nella fiamma,
supreme ali di sole!...
portate a me solitaria un simile grido d'amore,
un simile grido, e mi giunga
soffocato, nel delirio della sera!
Bufere, bufere... La spola
si ferma; il telaio s'inclina;
più vasta l'ombra s'accoglie
nella mia faccia china.
Ahimè, come sono felici
i corvi, sui rami odorati
che dolce profumo che mandano
i fiori dei pomi granati!...
Mentr'io camminerò senza lampada
nel raggio verde pallidissimo della luna verde che non dà pace,
verso la mia coltre deserta,
verso il giaciglio tormentoso
dove non fui che l'amante inane del mio sogno voluttuoso.
Dove talvolta, mentre le stelle,
simili ad un volo innumerevole di farfalle d'oro,
infurian come bufere di luce
nel quadrato azzurro della finestra,
e par che ogni atomo dello spazio
più miriadi ne chiuda,
non oso nemmeno spogliarmi
per la paura d'esser nuda,
e sto con la gola scoverta
guardando le stelle infuriare nella finestra aperta.
Allor talvolta nell'incantesimo
della notte, che fila
i fili d'oro della sua conocchia,
mi par che un'ombra m'allacci
subitamente le ginocchia,
subitamente mi stringa la gola turgida, inquieta,
e che una mano mi stracci
la bella mia veste di seta.
*
PAESAGGIO D’ANGOSCIA
di Federico di Maria da La leggenda della Vita, Ed. di “Poesia”, 1909
Un cielo angusto, basso
e fumido; un mare
costretto fra due rive piatte, che urla
bavoso e livido sotto la rabbia
dello scirocco; un veliero che, lasso
dal fortunale, entra in porto
con vele lacere; un lungo filare
di scarmigliati platani che chiurlano;
e barche dannate
lungo la spiaggia. Lontano, di fronte
alla mia finestra fischiante,
sull’opposta riva, un mulino
grande nell’aria caliginosa,
dall’ala stellare rotante
senza posa, senza posa...
Da quanti giorni, cosi, si convelle
la prigioniera mia vita?
Senza sole, senza più stelle!
Tutti i miei giorni trascorsi
io li vedo lontani, velati,
come oltre una densa caligine
di sogno, confusi in febbrile scompiglio
con quel che chiamai avvenire.
Come lente, oh! eterne a fluire
le giornate!... Da tempo immemorabile
forse, io son qui, son legato
qui, come sopra un abisso,
inerte, ad attendere un fato
sconosciuto. E sento un altro ridente destino,
altri, e luminosi orizzonti, lontano,
di là dal mio sguardo che mira
solo un orribile mare,
dei platani che si contorcono
e l’ossessionante vertigine
di quel maledetto mulino
che gira, che gira, che gira…
*
PIÙ NULLA
di Giuliano Donati Petteni da Intimità, Zanichelli Editore, 1926
"Più nulla!" tu mi dici, e ne le mani
celando il volto, soffochi un singulto.
Anche tu soffri questo male occulto,
anima, il tedio de' tuoi giorni vani.
La nave che partì con vele bianche
è perduta fra i ghiacci o in fondo al mare.
Tale è la sorte. Alziamo ora le stanche
supplici braccia il cielo ad implorare?
Parliamo lentamente; il nuovo giorno
più non risorge. Verso l'infinito
compio il cammino che non ha ritorno.
Parliamo lentamente e a mezza voce;
qualche cosa nell'aria è impallidito...
Piange il mio cuore all'ombra della croce!
*
NOIA
di Corrado Govoni in Poesie elettriche, Ed. Futuristiche di “Poesia”, 1911
Via! fiori sdolcinanti e cascamorti,
rose, che dopo un’ora di delizia
sapete di carogna e d’immondizia
come l’amore, e voi, verdastri aborti
degli gnomi, orchidèe mostruose,
ernie degli angeli fornicatori,
mistici acquasantini degli odori,
e gole di tarasche favolose.
A me! nere bottiglie, sull’attenti
con i vostri sigilli rossi come
tondi berretti di garibaldini.
Fate che sul suo seno io m’addormenti
prima ch’io l’afferri per le chiome
e col mio rasoio l’assassini.
P.S.: Per chi avesse malauguratamente aperto questo articolo per noia, magari cercando in rete qualcosa per abbattere questo stato, lascio di seguito altre poesie in tema, cosicché possiate perpetuare il tedio o, chissà, trovare la via del sole (Cazzamini Mussi, Alla noia in Le amare voluttà, 1910).