Il poeta è un giardiniere

Come Antonio Bux segretamente è Corrado Govoni
28 Febbraio 2025

Natura morta con animaletti di Rachel Ruysch

 

 

Che a volte gli immaginari si somiglino è vero: soprattutto, lo è quando il nocciolo dello scrivere poesia diventa costruire, attivamente, il paesaggio dell’immaginario. In Antonio Bux (1982), anzi, il ruolo del paesaggio e del poeta che lo mantiene è forse il nodo principale del proprio percorso letterario, da poco raccolto in Poesie (2024) per Marco Saya. Dopo aver appreso nelle prime raccolte (ora rielaborate in Neve e sonniferi, Mappe senza una terra e Abracadabra) come si costruisca un paesaggio, diventerà infatti cruciale la riflessione attorno a come chi scrive lo attraversi verticalmente e, anzi, sia in prima persona un differente tipo di paesaggio, un'analoga somma di microcosmi. Tuttavia, agli inizi del Novecento questa costruzione - e la consapevolezza di come questa fosse un metodo poetico - è stata già al centro dell’opera di Corrado Govoni (1884-1965), da cui una è la lezione principale: la scrittura può e forse deve essere un atto botanico, e sicuramente un atto minuto. Il poeta, più consapevole che naïf, più innamorato che crepuscolarmente malinconico, avendo compreso il funzionamento dei confini delle forme (testuali e metriche) in cui lavora, può finalmente trarre, dalla «collezione commovente» delle porzioni di realtà che osserva, il suo personalissimo erbario. Può stabilire uno spazio in cui i rapporti tra gli elementi e le immagini siano definiti non dalla contiguità che hanno fuori di sé, nella storia, bensì dal loro referente superiore: l’Io. Può, in sostanza, giocare con la sua lillipuziana realtà, decretando ad esempio - citando una nota poesia di Gli aborti - «dove» di preciso «stanno bene i fiori». Sarà un concetto poi ben chiaro anche a Marino Moretti, che passa dal chiedersi «perché far tanto sussurro / se un lembo di cielo è azzurro» all’affermare:

 

Tu credesti d’offendermi, cortese,

ricostruendo il mio mondo piccino:

qui una casa, là un fiume, un alberino,

come in un bel piattino giapponese…

 

Ma no, fratello, io non m’offesi, io vivo

come tu dici, pago del mio sole

ch’è un solicello e delle mie parole

ch’hanno bisogno del diminutivo!

 

[…] e so tutto il valore d’un centesimo

e so tutto lo spazio d’un minuto

e a quando a quando al microscopio scruto

tutti i misteri dell’infinitesimo.

 

(Ode al fratello dispotico, da Poesie di tutti i giorni, 1911)

 

 

Il nuovo ruolo del poeta, la sua nuova responsabilità, è insomma affettiva, affondando qualche radice in un certo Pascoli. Govoni, del resto, farà di tanto in tanto delle parafrasi poetiche del Fanciullino, come questa, dal Quaderno dei sogni e delle stelle: 

 

Voglio bene alla terra

[…] perché mi prenderà nel suo gran letto 

d’erba di fiori e lucciole 

come un bambino 

che, solo, nella stanza oscura 

non può più prender sonno 

e piange e grida che ha paura; 

[…] dove avrà pur fine 

questo orribile batticuore 

ch’è tormento, 

ch’è strazio 

e vorrebbe chiamarsi solo amore.

 

(Voglio bene alla terra, 1924)

 

Ma il punto sta proprio tra lo ‘stravedere’ e l’amare la realtà. Govoni è golosamente attratto dalla superficie colorata del mondo, e in lui - secondo Bonfiglioli - l’anima è «una lastra impressionabile, pronta a scomporre l’oggetto in una serie di sensazioni empiriche e a riorganizzarlo in sovrimpressioni analogiche». Anzi, il rapporto con la golosità di questo mondo è centrale (si legga Ho mangiato una donna in un gelato: «nel gelato rosa e viola / ho mangiato la bella avventuriera / con la gonna a cannelloni color nocciuola / ed il cappello malva a giardiniera; / […] tagliata a pezzi, adagio, golosamente, / con la piccola vanga d’argento / che aveva un sapore / come di fragole ghiacciate») e la poesia, e quindi l’anima, sono come l’occhio scomposto di un insetto:

 

L’invisibile insetto tutto verde 

che corre felice e ben vivo, 

nel luccichio delle sue trasparenti alucce d’angelo, 

sulla carta bianca mentre scrivo, 

io non lo tocco, per paura che si rompa, 

e non riesco a vedere come è fatto e se ha gli occhi: 

saranno come due punte d’ago 

(che sia qualche travestito gigantesco mago?). 

E pensare che anche lui mangia, 

si servirà d’una sua lunga pompa. 

Chissà che cose buone mangerà! 

Chissà, il mondo, come lo vedrà! 

Forse piccolo e bello 

come un grano di pisello.

 

(Infinitesimo, dal Quaderno dei sogni e delle stelle)

 

È tra l’altro lo stesso tipo di poesia-occhio a cui approderà un secolo dopo Calandrone («In trance fissare ciò che non si vede - vedersi / dall’alto vedersi /come un popoloso alveare / vede sé stesso: mille occhi / di mille individui / e una sola struttura naturale / gialla»), dove pure è centrale la responsabilità amorosa di chi scrive; ma la singola lastra rettangolare del testo e la sua successiva messa in serie assumono allora un senso nuovo. È la concezione di una poesia in cui da un lato l’attività creativa autoriale, interpretata come trascrizione letteraria di ogni singolo aspetto del reale, è equiparabile a quella naturale nel suo produrre infinite sequele di oggetti chiusi; dall’altro è anzi l’unico momento in cui, potendo avvenire un’operazione di sintesi intellettuale, la natura si completa grazie alla messa in relazione degli elementi da lei prodotti, così riducibili al loro minimo comune denominatore. Sarà del resto lo stesso Govoni - nella lunghissima Paesaggio magnetico - a parlare della natura come fatta di «istantanee meravigliose / in cento guise in cento pose», come fluvialità di tessere ottenute per sintesi. Soprattutto, Govoni parlerà in questi termini del proprio metaforico incontro con la poesia:

 

Dolce amore, o poesia, ti ricordi il giorno del nostro fidanzamento? Io ti avevo sorpresa, seduta all’ombra sulla riva d’un fosso, mentre stavi succhiando golosamente un acquoso pecorino. […] Poi mi invitasti a bere nel dolce tubo vegetale, e, per pegno della promessa e patto di eterna unione, mi infilasti in un dito l’anello di un filo d’erba con una pietra di rugiada: io ti annodai all’anulare una paglia: la vera d’oro delle spose contadine. […] Oh! Le tue lettere scritte con i pastelli di cobalto e di rosso saturno dei bocciuoli dei fiori, scritte con il picciuolo di qualche frutto selvatico, del cui sugo avevi ancora bagnate le labbra, intinto nell’argento lunare delle lumache […]. Non sono stato costretto a vendere per te i miei campi, la mia casa? […] Io ti rispondevo scrivendo un canapulo, su larghi rettangoli di carta e ruvida che si riempivano rapidamente di parole semplici che odoravano di terra arata.

 

(O Santa Verde, da La Santa Verde, 1920)

 

Tutto ciò si tradurrà in due precisi metodi di scrittura. Da un lato (in particolare nelle Fiale) il gusto per il tracciare specifici spazi chiusi poi stipatissimi di oggetti e suoni posizionati ed animati a piacimento, a metà tra la wunderkammer, certi sfondi scenografici di Miyazaki (la camera da letto di Howl Pendragon, il mondo inifinitesimo e florealissimo di Arietty) e il poi zanzottiano mandala, ciò che - secondo Marazzini - «disegnato, assume il valore simbolico di creazione di un microcosmo e della possibilità di dominio sugli elementi». Qui, insomma, fare poesia si riconferma un atto botanico, un modo di fare un’aiuola, disegnare il recinto geometrico in cui, a gusto, si disporranno i punti del colore:

 

La casina si specchia in un laghetto,

pieno d’iris, da l’onde di crespone,

tutta chiusa nel serico castone

d’un giardino fragrante di mughetto.

 

Il cielo dentro l’acque un aspetto

assume di maiolica lampone;

e l’alba esprime un’incoronazione

di rose mattinali dal suo letto. 

 

Sul limitare siede una musmè

trapuntando d'insetti un paravento

e d’una qualche rara calcedonia:

 

vicino, tra le lacche ed i netzkè,

rosseggia sul polito pavimento,

in un vaso giallastro una peonia.

 

(Paesaggio, da Le Fiale, 1903)

 

 

Oh dolce cosa da li antiquari

contemplare i nielli di Fiorenza,

gli acquasantini d'oro, i reliquari

d'intorno ad una mitica Prudenza,

 

gli orologi intarsiati, i lampadari

coi freschi ingenui de la Rinascenza,

e alternate coi vasi mortuari,

le majoliche verdi di Faenza;

 

e indugiando davanti a uno scacchiere,

evocare un salotto medievale

in cui giuochino vecchi parrucconi

 

con castellane frivole e leggere,

in un truce castello feodale

popolato di sgherri e di baroni.

 

(Piazza Spagna, Ivi)

 

Dall’altro lato (a partire soprattutto dagli Aborti), si avrà uno sguardo propriamente enciclopedico, con il quale si cerca di tracciare un inventario più ampio possibile della realtà, individuando titolo un fenomeno o un oggetto che poi la poesia si incarica di declinare in tutte le sue varianti, foniche e percettive:

 

Orti, dove i convolvoli contorti

più non stendono i deboli polloni;

vasi forti, che più ne gli orti morti

non salgono i paoni da padroni;

 

penne disperse dentro gli orti morti,

occhi immemori, e smorti di paoni

ritorti a dei vilucchi e a degli storti

polloni ed ai ricami dei balconi; 

 

languida inedia degli orti morti

con qualche marmo mutilo e muscoso,

e un muro sorpassato da un’opunzia;

 

per cui diffonde sopra i fiori morti

un senso d'abbandono soporoso,

la parola nostalgica «Rinunzia».

 

(Giardini chiusi II, Ivi)

 

 

Paonazzi come manti di regine

orientali, celesti come mari

paradisiaci, come gli occhi chiari,

e freschi come visi di bambine.

 

Voluttuosi come ballerine

ignude, immacolati come altari,

freddi come silenzii polari,

Umidi ed acri come le cantine.

 

Ardenti come fiamme, orgogliosi

come rossi vessilli dispiegati,

rissanti come dei galli gelosi.

 

Profumi screziati come pelli

di tigri, allegramente colorati

come dell’isole i vivaci uccelli.

 

(I profumi V, da Gli Aborti, 1907)

 

 

Il punto è questo: se il lascito più importante di Govoni nella storia letteraria italiana è l’avvicinarsi all’interezza degli oggetti tramite lo studio dei loro dilatatissimi particolari e, come detto, intendere la poesia come erbario, costruzione giocosa di un paesaggio affettivo, le prime raccolte di Antonio Bux sono la dimostrazione di questo lascito. Anzi, la dimostrazione che è ipotizzabile, nella poesia italiana contemporanea, una certa “funzione Govoni”. La cosa è evidente leggendo alcuni dei testi ora raccolti in Neve e sonniferi, come Aiuole:

 

Sempre da piccolo avevo 

certa capacità di guardare l’aiuola: 

il prato che si riavvicinava, 

la formica ancora presa a salire… 

 

Dove sei stato, mi diceva 

con la corteccia pronta all’aria, 

mi diceva come sei diventato piccolo 

 

Buxetto, sembri un diario 

scritto dai bruchi e dalle foglie, 

hai tanti buchi attorno alle ossa, 

tanti piccoli strati di morfina, 

 

dovresti piangere un po’ di più, 

avere meno tosse, sai, dovresti stringere 

le tue braccia al pino, sapere di verde 

 

la tua vita svolgere, Antonio piccino 

con la mollica che io porto 

fin sotto la luce della terra, questo 

tu devi fare. 

 

E io conservavo quelle parole 

mentre mi spariva la formica e l’aiuola 

tornava gigante, 

 

io sul mio diario spostavo la mollica.

 

Oppure Acquario, dove a metà tra il govoniano «tanta è la pace in questa intisichita / villa che pare quasi ch’ogni cosa / sia veduta a traverso d’una lente» e l’idea già francofona del malato come creatura sommersa che ha il privilegio di veder sbocciare la flora dell’acquario, si esclamerà:

 

Mamma, io e te potremmo vivere 

che dici – dentro lo stesso acquario: 

come due licheni che si sfiorano 

guardandosi (e l’acquario si colorerebbe 

di colori rossi e di fumo, e i nostri 

ricordi stretti tra i massi… Con le giunchiglie 

attorno le braccia che si sfiorano, e papà 

questa volta sarà bravo); davvero così, 

ti piacerebbe, mamma, se fossimo noi 

sotto l’acqua, senza pensieri 

né identità, e qui stessero anche gli altri, 

i tuoi figli, con le bocche spalancate 

non più per dire cibo, non più 

per un tuo aiuto… Mamma, ora che scrivo 

con l’acqua alla gola, ora che ti vedo 

sul fondo sei uno smalto pieno d’alba 

e la luna non mi fa paura, la tua 

luna senza cielo è questa bell’acqua 

che dal vetro ora vedo e non vedo, 

e tu sei calma e sei bella, sei giovane 

come un corallo che non sa di sabbia, 

mamma, come un corallo finalmente solo; 

dovresti vederti senza più branchie 

umane dovresti vederti, con le ali bagnate 

e il viso profondo, mamma, dovresti sentire 

i nostri granelli come gridano vento.

 

È per questo che nel successivo Mappe senza una terra - come evidente già dal titolo - l’attenzione è tutta sulla costruzione attiva del paesaggio come mindscape, di cui sono adesso rese evidenti le implicazioni anche politiche per le quali, stante un determinato diorama, la storia e i modi di attraversare un luogo sono obbligati. Si tratta della stessa preoccupazione poi presente in altre raccolte degli ultimissimi anni, come Il libro della vacanza di Ophelia Borghesan («le palme, gli oleandri, la piscina, / la rondine che scende a bere, tutto / concorre a definire con coerenza / il posto di vacanza; e questo è quanto») o Riproduzioni in scala di Demetrio Marra («Come / il sistema mi dia degli ordini e la casa cominci / a esistere, tipo le mura, tipo i quadri africani / […], le statuette in mogano / forse e le foto di Penna di una processione / siciliana alla Madonna, la realtà bella, lì / tutta sistemata, ma quale debole forza messianica!»), e che qui si leggono in Vivarium:

 

E mentre cercavo 

la biosfera amichevole il granaio 

si è sfranto, si è ridotto 

all’oro straniero. E non per questo 

siamo cresciuti fuscelli tesi 

nell’immodestia del sole, non 

per questo creiamo pane più forte 

sotto la cottura delle braccia 

già scavate, già arrese alle bisce. 

Non per questo bruciamo gli oli 

o tappiamo falle, non solo 

per questo coltiviamo gli aironi. 

Mascherare, allora, le macchie 

di ogni destino è aprire il mulino, 

la macina subdola al creatore. 

Senz’acqua che spinga il moto 

perpetuo, la trincea arrendevole. 

Che chi non ha più speranza 

di seme sbattuto ma solo 

necessità di crescere ovunque, 

è demonio che non falcia, è grano 

indemoniato che si corrompe solo. 

Quest’etica millenaria sorregge 

campi immensi di solitudine, cigola 

per sempre dallo stesso favonio, lì 

dove una cicala muore al suo canto.

 

O in Parc Guell:

 

Cicatrici nelle ossa del palazzo, 

funghi velenosi e aghi 

verdi sonniferi. Ho un anno 

di meno ogni volta che entro 

nel parco mi sento più vecchio 

e il tempo mi rassomiglia. 

Antoni, non c’è oltranza, 

i vortici delle radici 

lo dicono, il paesaggio è finto, 

splende di troppo esserci. 

Non c’è nessuno, solo 

tre croci, a indicare l’aria.

 

Il passaggio è esattamente quello tracciato dalle prime raccolte di Govoni. Sono lo sguardo lillipuziano sul mondo - così frammentato - e una certa forza affettiva a permettere una resa sincera e soprattutto completa delle lastre della realtà. Ma si tratta pur sempre di lastre chiuse: spazi circoscritti, come in un laboratorio, specifici oggetti-vetrino. Ancora in Govoni, però, al massimo grado di questa chiusura analitica (la cosiddetta «claustrofobia» degli Aborti) corrispondeva lo slancio per una poesia infinitamente più aperta, che abbandonasse la rappresentazione di spazi chiuse, serie sul medesimo argomento, forme metriche blindate: lo faceva congedando la sua ultima raccolta pre-futurista con la formula magica dell’Apriti sesamo. Bux pare aver bisogno dello stesso incantesimo, a partire dai titoli. Abracadabra - la raccolta con cui si chiude la prima metà delle Poesie - è allo stesso tempo un oltranzismo e un congedo. Se appena se ne sfoglia l’indice, nominare le cose per etichette e serie, per enciclopedia-libro magico, sembra essere qui l’unico modo di osservarle e soprattutto trattenerle, come pure avveniva in alcuni momenti di Montale, del resto avido lettore di Govoni (nel Quaderno genovese: «Giunse il “Govoni”: Inaugurazione della Primavera, dove trovo meraviglie di poesia nuova e autentica. Costui è grande!»):

 

Ho continuato il mio giorno

sempre spiando te, larva girino

frangia di rampicante francolino

gazzella zebù ocàpi

nuvola nera grandine

prima della vendemmia , ho spigolato

tra i filari inzuppati senza trovarti.

Ho proseguito fino a tardi

senza sapere che tre cassettine

- SABBIA SODA SAPONE, la piccionaia

da cui partì il tuo volo : da una cucina -

si sarebbero aperte per me solo.

 

(Per album, da La Bufera e altro, 1956)

 

In Abracadabra, però, la persistenza che si ricerca non è quella degli oggetti, ma quella degli spazi in cui sono contenuti. Questi di Antonio Bux sono spazi dell’affettività, aiuole ideali, paesaggi doppi: valgono per il loro posto nel paesaggio mentale di chi scrive, e al contempo hanno il ruolo di farsi contenitori. Conservarli vuol dire conservare tutte le etichette al loro interno, conservare tutto e per tutti, come vediamo in queste due poesie:

 

Voglio ricordarmi dei nespoli in aprile 

del loro dormire sottile il mio prato  

e voglio il mio prato sentire ogni ramo 

come fosse aldilà nel vento toccarli 

e imparare il nome del legno. 

 

Tutto ciò che voglio è restare sognato 

per il dono dell’aria avere una bocca 

e parlare per mia radice parlare dell’aria 

che ha eco dentro il respiro. 

 

(Ma a dire il vero voglio soltanto nel mare 

chiudere gli occhi e poi lentamente 

più lentamente essere l’acqua). 

 

Voglio che d’acqua sia il solo luogo 

e le parole mie il credo del cielo. 

 

Tutto questo lo voglio per gli altri. 

 

(Sequenze, 1)

 

Erba che fluttui, mondo vivo 

mentre parassiti tagliano l’aria 

la sottile ammoniaca precedente 

tendi l’evidenza a cambiare: 

 

un colore è un colore, il nome tuo 

nel fiore, la vita in assoluto senza 

più attesa d’imminente; nome 

che pronuncia nella mente, la fretta 

 

di chiunque può vedervi quest’effetto 

scorgere tra i globuli il suo principio 

e le terre rarefatte o lo stare intermittente 

ciò che si colora e poi si spegne per trovarci. 

 

(Fluorescenze)

 

Se esiste, da Govoni in poi, una nuova responsabilità poetica, sta qui. È la costruzione e la messa in comune di un paesaggio-parco pubblico (di un giardino, direbbero altri, o di un’arca vegetale) tenuto assieme per bene al mondo. Si legga: quel per è un mezzo e un fine.