La O che azzera e rilancia

La disgiuntiva in Santagostini e Parini
3 Febbraio 2025

 

 

Sicuramente tra i protagonisti della storia della poesia milanese, da (Sant’) Ambrogio, passando per il seicento di Carlo Maria Maggi (ricordatevi di lui perché ritornerà presto) al novecento di Loi e del “romanzo milanese” di Cucchi non si può dimenticare il settecento in cui capeggia Giuseppe Parini, morto proprio nel 1799, quasi come se non volesse sconfinare oltre il tracciato del suo secolo. Di lui sono entrate nella scuola odierna alcune odi e, naturalmente, il Giorno, che non penso ci sia bisogno di stare a ricapitolare (allego nel caso il link qui:https://it.m.wikipedia.org/wiki/Il_giorno_(Parini) ); mi piacerebbe evidenziare come una ricorrente soluzione retorica di questo poemetto abbia trovato un suo corrispettivo nel’uso che ne ha fatto un altro poeta contemporaneo decisamente “milanese” come lo è Mario Santagostini, classe 1951 (qui allego le info base:https://it.m.wikipedia.org/wiki/Mario_Santagostini ), con un esordio solidissimo a 21 anni, nel 1972, Uscire di città. Sapendo che Mario Santagostini è nato a Milano possiamo già immaginare da quale città si uscirà nel corso di questo libro. Infatti, gli spazi più frequenti tanto in questa raccolta quanto nelle successive sono quelli dell’hinterland milanese: campi, sabbiere, casermoni, calce, cortili, palazzi, temporali, insetti e corriere azzurre definiscono a grandi linee l’immaginario di Santagostini. Come se non bastasse, a indicare il suo configurarsi poeta milanese possono essere presi in considerazione altri fattori che riguardano la sua scrittura, a partire già dalla punta di umorismo con cui sulla copertina del terzo Quaderno collettivo della Fenice uscito nel 1978 per Guanda (che raccoglieva sillogi di diversi autori e autrici in un unico volume) si legge Mario Santagostini / Il sogno di Agostino, questo santo filosofo (si può ricordare che Santagostini ha studiato Filosofia all’università) che è arrivato a Milano e ne ha segnato la storia sulla scia di Sant’Ambrogio, i cui inni latini Santagostini ha avuto modo di tradurre (come si legge allusivamente sulla quarta di copertina dei suoi libri: ha tradotto dal latino e dal tedesco); anche il nome di Ambrogio rappresenta per lui come nel caso “Sant’Agostino=Santagostini” un interesse personale. Come se non fossero sufficienti queste presenze decisive per la storia della poesia milanese di cui Santagotini si riappropria e “attraversa”, in L’idea del bene (2001, Guanda) toviamo in esergo alla seconda sezione proprio il Carlo Maria Maggi ricordato a inizio articolo: Vivaremm tugg fin che la Mort ne branca. Più che un esergo: la seconda sezione è l’unica a non avere un titolo (che sono fondamentali lungo tutti i libri, intessendo rimandi da una raccolta all’altra o ad altri autori), e la citazione da Maggi finisce per svolgere questo ruolo. Ne approfitto per riportare l’ultima poesia dalla sezione in questione:

 

 

Ecco un ricordo di Emy C.
Viva dal ‘52 al ‘76. Abitava a Sesto.
Annegata l’agosto di quell’anno.
Certo, oggi è solo calcinazione
o torba, cielo di maggio
e di gennaio, insieme.
O sciolta nei fossami,
viaggia da liquame verso le spiagge adriatiche.
Più avanti, incontrerà
rocce, pozze disacquate,
bauxite, sabbiere, flossidi, allume
ogni sera più distanti. Forse i morti
diventano nel tempo meno morti: prima o poi
saranno solo introvabili, o perduti.
Ma la memoria ci basta, e disimpegna dal cercarli ancora.
E allora li chiamiamo assenti.
Sbagliamo sapendo
di sbagliare, è solo invidia
per l’onnipresenza
di quei beati o stronzi
ricompattate in una lucentezza montante, ricottura
di stelle, latta e afa, insieme.

 

 

Sempre in tema di maestri, in questa poesia si sente fortissima la presenza sotterranea (meno sotterranea nel titolo della sesta poesia del libro Ancora sulla strada per Nova vs Ancora sulla strada di Zenna) di Sereni, altro poeta milanese acquisito, pensando soprattutto a La spiaggia. Oltre alla presenza di spiagge adriatiche anche nella poesia di Santagostini, o l’interrogarsi sui morti (i morti non è quel che di giorno in giorno / va sprecato vs Forse i morti / diventano nel tempo meno morti, col riproporsi delle immagini di progressione temporale, di giorno in giorno e nel tempo), ma soprattutto il riferirsi a loro come calce / o cenere Iin Sereni, che qui diventa  calcinazione / o torba, con lo stesso andare a capo dopo la calce/calcinazione, la stessa alternativa introdotta subito dopo con “o”, che però in Santagostini vediamo quadruplicata rispetto al precedente sereniano: "calcinazione / o torba" ; "insieme. / O sciolta nei fossami" ; “saranno solo introvabili, o perduti” ; “di quei beati o stronzi”. Anche in altre poesie degli Strumenti umani possiamo trovare degli esempi di accumulo della disgiuntiva, come nell’ultimo movimento di Una visita in fabbrica: La parte migliore? Non esiste. O è un senso / di sé sempre in regresso sul lavoro / o spento in esso, lieto dell’altrui pane / che solo a mente sveglia sa d’amaro. E anche nel primo libro di Santagostini c’è un momento del genere: Ritorni con un libro di vecchie storie in tasca / e scompari nell’orbita / magari nei treni che frenano alla Centrale / o vai camminando di profilo al Duomo. 
Ma è proprio a partire dall’uso della disgiuntiva che vorrei aggiungere a questa costellazione di riferimenti “milanesi” di Santagostini anche la figura di Parini, che nell’uso della disgiuntiva è sicuramente un maestro. Ovviamente non ho la pretesa di individuare una ripresa diretta e consapevole; piuttosto preferirei mettere a fuoco delle convergenze comuni a distanza di un paio di secoli nell’utilizzo di questa risorsa retorica nei due autori. L’utilizzo che Parini ne fa nel Giorno è decisamente straniante. Da un lato ci sono i semplici elenchi di cose o persone che il nobile rampollo lombardo protagonista del poemetto incontra, indice di un lusso sfrenato che Parini può rendere così, per esempio (dal Mattino):

 

 

Tu chiedi in prima a lui qual piú gli aggrada

sparger sul crin, se il gelsomino, o il biondo

fior d’arancio piuttosto, o la giunchiglia,

o l’ambra prezïosa agli avi nostri.

 

 

Fin qui niente di strano: si tratta di essenze preziose tra cui il giovin signore dovrà scegliere quella da mettersi sui capelli. Di lì a poco però le cose si complicano:

 

 

Impazïente or tu l’affretta e sprona

perché a te porga il desïato avorio

che de le amate forme impresso ride,

o che il pennel cortese ivi dispieghi

l’alme sembianze del tuo viso, ond’abbia

tacito pasco, allor che te non vede

la pudica d’altrui sposa a te cara;

o che di lei medesma al vivo esprima

l’imagin vaga; o se ti piace, ancora

d’altra fiamma furtiva a te presenti

con piú largo confin le amiche membra

 

 

Qui si parla di un ritrattino tascabile eseguito da un pittore per conto del giovin signore: il contesto è già di per sé un po’ disorientante, dal momento che Parini passa in rassegna le visite che il nobile signore potrebbe ricevere mentre si sta facendo acconciare i capelli, o il mercante, o il dilicato miniator di belle, il pittore, appunto. In questo catalogo di possibili visite si apre un’ulteriore variante, che è quella del soggetto della miniatura: potrebbe essere lo stesso giovin signore, oppure la giovane di cui è preso al momento, o addirittura un’altra furtiva donna ancora. Lo sconcerto di chi legge dipende dal fatto che ci vengono presentate tre opzioni su una sola cosa: non possono essere presenti tutte e tre davanti al giovin signore, ma Parini riesce a far sembrare che invece sia proprio così, e in questo modo il singolo ritrattino viene triplicato, ed è come se venisse triplicato anche il pittore che l’ha eseguito per tre ragioni diverse, e lo stesso giovin signore che in un ritratto ne sta ricevendo tre. Ecco un altro esempio, questa volta con un calice a tavola:

 

 

allor che quella [la giovane donna]

di licor peregrino ai labbri accosta

colmo bicchiere, a lo cui orlo intorno

serpe dorata striscia, o a cui vermiglia

cera la base impronta

 

 

Di nuovo: c’è un bicchiere, ma ne vediamo tre o quattro: con orlo a serpente e con base di cera; con serpente ma senza cera; senza serpente ma con cera; senza serpente e senza cera. E di nuovo anche il gesto della ragazza si moltiplica e perde di consistenza. Se nell’esempio precedente c’era il congiuntivo a rendere un po’ più normale la situazione da un punto di vista sintattico, qui il presente indicativo disorienta al massimo: c’è un bicchiere che è più bicchieri. Infine, proprio nella parte iniziale del Vespro, un’altra successione incalzante di disgiunzioni, questa volta sul tramonto:

 

 

il sol manda gli ultimi saluti

all'Italia fuggente; e par che brami

rivederti o signor prima che l'Alpe

o l'Appennino o il mar curvo ti celi

agli occhi suoi

 

 

Qui si arriva all’assurdo, con un singolo giovin signore che in un singolo tramonto potrebbe venire celato dalle Alpi, dagli Appennini o dall’orizzonte del mare, con straniamento ulteriore: non è il sole che viene tolto al giovin signore, ma è lui ad essere tolto dalla vista del sole. In cinque versi si affollano scenari incompatibili l’uno con l’altro. C’è stato chi ha visto in questo un tentativo di rendere la vacuità della routine del giovin signore: allora la “o” si allunga e diventa uno zero 0, moltiplicare dentro questo zero tutte le varianti considerate non fa altro che renderle a loro volta zero. Quest’uso della disgiunzione è veramente simile a quello che ne fa Santagostini nei sui libri più recenti. Già in Versi del malanimo (Mondadori, 2007) troviamo:

 

 

L’ANGELO E IL TRAFFICANTE

 

 

-Venite qui, pensate sia finita.
E ora mancate di bypass,
valvole, protesi o dentature
di porcellana, anelli
di rame o zinco, capelli
da riusare, piercing,
sistole e organi da espiantare,
clonare, trasferire
in corpi alati e azzoppati, insieme.
O ancora più in alto, dove
tra le vite possibili
passa quella eterna. Così

 

m’accoglierà l’angelo, o il trafficante d’organi.

 

 

I tratti in comune che queste disgiuntive presentano con Parini tendono sempre di più a portare la poesia Santagostini in una direzione in cui le diverse possibilità proposte si annullano fra di loro. Questo è evidentissimo soprattutto nella sua raccolta più recente Il libro della lettera arrivata, e mai partita (2023, Garzanti) (appena superata questo Gennaio con Nome di paese: ascensione, 2025, Fallone) dove si arriva risultati di questo tipo:

 

 

DETTAGLIO

 

 

O quelle contrazioni erano
l’ultimo linguaggio
del corpo. O già di qualcosa d’altro.
E io, che non sapevo
dicosa. E nemmeno a chi violentemente
si rivolgevano.
Certo, non a me.
E se c’era davvero violenza.
Io ce la vedevo.

 

 

O c’era solo istinto a sopravvivere, a non sopravvivere più, e nessuna violenza. O la violenza l’ha raggiunto dopo, o ci metterà degli anni, ancora. E mio padre sta male perché l’aspetta. O non lo raggiungerà mai. E allora sta bene. O arriverà prima da me. Io che muoio prima di mio padre? In una prospettiva rovesciata, è pensabile. Ma non ora. O c’è uno sbaglio a monte di tutto, in me e in chi ha coniugato la morte e la violenza. La morte e il corpo fatto a pezzi, o forato, o solo rotto dentro. Sento che è sbagliato. E non so dove, è sbagliato. Tu che sei quello sbaglio, aiutami.

 

 

Qui Santagostini si sta autocitando, con il riferimento alla prima poesia di L’idea del bene

 

 

…13 aprile, del ‘97. Una domenica
ariosa. Mio padre
sta morendo. Si muove
a scatti nel letto, forse
i suoi respiri terminali
altrove sono già
le euforiche, gioiosissime
pure contrazioni
di chi sta per tornare,
e per un attimo in chi assiste passa
un sottile senso d’invidia.

 

 

La disgiunzione diventa uno strumento per mettere ordine: l’ “O” che apre la prima delle due poesie citate sembra essere messo lì per continuare il discorso attaccandosi alla poesia di vent’anni prima, con un effetto di questo tipo: 

 

 

…13 aprile, del ‘97. Una domenica
ariosa. Mio padre
sta morendo. Si muove
a scatti nel letto, forse
i suoi respiri terminali
altrove sono già
le euforiche, gioiosissime
pure contrazioni
di chi sta per tornare,
e per un attimo in chi assiste passa
un sottile senso d’invidia.
O quelle contrazioni erano
l’ultimo linguaggio
del corpo. O già di qualcosa d’altro.
E io, che non sapevo
dicosa. E nemmeno a chi violentemente
si rivolgevano.
Certo, non a me.
E se c’era davvero violenza.
Io ce la vedevo.

 

 

Mettere ordine cancellando il termine precedente, rischiare di riconoscere l’errore precedente per avere la possibilità di riprovare e di non incagliarsi, non finire in un vicolo cieco. Tutti i libri di Santagostini sono come un’unica opera, un lungo romanzo in versi che chiede di essere messo in ordine con un intervento da parte di chi legge per poterne cogliere appieno gli sviluppi, certe sfumature (la E.C. della Lettera a E.C. in Versi del malanimo è l’Emy C. di L’idea del bene dalla poesia ricordata sopra?), rendendoli secondo me un caso di letteratura ergodico (alla House of leaves, per capirci, qui più info https://accademiadellacrusca.it/it/parole-nuove/ergodico/18490 ). E senza quest’uso pariniano della disgiuntiva non sarebbe possibile congegnare un progetto letterario come questo; e senza pensare a Parini forse faremmo più fatica a intravederlo. Lo stesso Parini in una delle Odi, quella più personale, dove si mostra più fragile e invecchiato, compie un’operazione di questo tipo. In La caduta Parini, com’è prevedibile, cade: per strada, mentre cammina, più volte:

 

 

me, spinto ne la iniqua

stagione, infermo il piede,

tra il fango e tra l’obliqua

furia de’ carri la cittá gir vede;

e per avverso sasso

mal fra gli altri sorgente,

o per lubrico passo

lungo il cammino stramazzar sovente.

 

 

Notiamo già questa prima disgiunzione, potenziata dalla rima: e per avverso sasso [...] o per lubrico [scivoloso] passo. Dopo una di queste cadute sopraggiunge un passante per aiutarlo a rialzarsi, ma subito inizia a chiedere informazioni al poeta sullo stato del proseguimento del Giorno e a compiangerlo per il suo stato, arrivando addirittura a suggerirgli come comportarsi, non avendo parenti potenti o ricchezze, per assicurarsi una maggiore serenità. Riporto per intero la fine del suo discorso, evidenziando le disgiuntive:

 

 

Dunque per l’erte scale

arrampica qual puoi;

e fa gli atrj e le sale

ogni giorno ulular de’ pianti tuoi.

 

 

O non cessar di porte

fra lo stuol de’ clienti,

abbracciando le porte

de gl’imi, che comandano ai potenti;

 

 

e lor mercè penètra

ne’ recessi de’ grandi;

e sopra la lor tetra

noja le facezie e le novelle spandi.

 

 

O, se tu sai, più astuto

i cupi sentier trova

colà dove nel muto

aere il destin de’ popoli si cova;

 

 

e fingendo nova esca

al pubblico guadagno,

l’onda sommovi, e pesca

insidioso nel turbato stagno.

 

 

Ma chi giammai potrìa

guarir tua mente illusa,

o trar per altra via

te ostinato amator de la tua Musa?

 

 

Lasciala: o, pari a vile

mima, il pudore insulti,

dilettando scurrile

i bassi genj dietro al fasto occulti.

 

 

Parini nell’ode rifiuta sdegnosamente questi consigli opportunisti; ma la genialità del passaggio sta nel fatto di aver creato nel passante un personaggio che si rivolge a lui nello stesso modo in cui lui si era già rivolto nel Giorno al giovin signore (che era stato esplicitamente chiamato in causa qualche strofa prima: E te molesta incìta [la plebe] / di poner fine al Giorno). Possibili strade da intraprendere, percorsi che man mano che vengono proposti invalidano i precedenti oppure se stessi alla luce di questi, uno strumento della lingua che collega opere diverse. Questo è il senso in cui Santagostini, partendo da un utilizzo sereniano della disgiunzione, arriva a perfezionarla in una chiave più pariniana: e sempre come Parini è disposto a proiettarsi dentro, oltre la morte per seguire i protagonisti e le protagoniste delle sue poesie. Nel caso di Santagostini il mezzo per realizzare questo passaggio è la postcreatura, il nome che si potrebbe usare per riferirsi al morto dopo la sua morte, per non cancellarlo né privarlo di un suo modo di esistere: Testa di mosca, occhi di mosca, / di cristallo, niente occhi, / Nessuno sa / cosa è una postcreatura. / Se una forma di vita. / Alata, non alata. Cieca, non ancora cieca. / O è già altro. Questa descrizione viene da Il libro della lettera arrivata, e mai partita, ma già in Versi del malanimo troviamo:

 

POSTCREATURA (I)

 

 

E tornando a me, a mia madre.
Nessuno dei due
sta bene. Ma è contenta
così, adesso: dove
l’astio verso chi vive è il suo
nuovo amore,
o dove gli animali,
i morti scordano i figli
dopo mesi, anni.
O sperano che non passino
mai quei mesi, anni.

 

 

E ripensiamo a Postcreatura (II), nello stesso libro, che fa: 

 

 

Mi hanno ritrovato.
Non so più chi è stato, quando.
Il mio torace
ricordava, molto da lontano,
il petto della tortora,
le sue ossa.
Non avevo mai volato.
Nemmeno potevo: quante
cancellate, fili, cavi, antenne.
Ma allora, perché quelle
ali frantumate…

 

 

dove c’è un anticipo delle ali che ritorneranno nel suo libro più recente (Se una forma di vita. / Alata, non alata). In quest’ultima poesia, che è tra le ultime del libro, viene messa in scena una trasformazione: dice io la postcreatura, che nella precedente poesia del dittico veniva invece contestualizzata. Le disgiuntive (dove / l’astio verso chi vive è il suo / nuovo amore, / o dove gli animali, / i morti scordano i figli / dopo mesi, anni. / O sperano che non passino / mai quei mesi, anni) consentono alla poesia di Santagostini di procedere per ipotesi, annullando quasi le altre ipotesi che le avevano precedute per riuscire a essere quanto più possibili esatte, andando ad assomigliare sempre più precisamente alle forme di vita dopo la loro morte. Non possiamo ignorare che probabilmente Parini aveva progettato per la Notte (rimasta incompiuta) una situazione simile: la notte forse avrebbe dovuto avvolgere completamente il suo giovin signore e portarlo nel regno dei morti, dove non sarebbe stato più diverso dagli altri uomini per una questione morale (la morte arriva per tutti e non fa distinzioni) e pratica (nella notte non si vede, e quindi non si vedono nemmeno le differenze fra una persona e l’altra). E viene il sospetto che forse per compiere questa operazione Parini sarebbe stato disposto a partecipare più attivamente, se ci fidiamo della possibile collocazione di questo frammento in cui viene meno il distacco moltiplicatorio e azzerante di Parini e lo vediamo invece esclamare: Ma, oh Dio! già mi trasformo, la concitazione degli ecco ecco mentre diventa qualcosa di molto simile a una postcreatura. Alcuni commentatori hanno intravisto un pipistrello, altri un contesto più da palcoscenico; ma non cambia l’intento di intervenire nell’azione del poemetto, uscire di città come Santagostini e come lui avventurarsi per vedere più da vicino il mondo e il modo dei morti, il tram “Sabbiera” senza passeggeri che va verso una città che non si trova, il giovin signore che va seguito da vicino anche in mezzo alla notte per non perderlo, a costo di trasformarsi pericolosamente un po’ di più in quello che lo attende dalla parte buia: 

 

 

Ma, oh Dio! giá mi trasformo; ecco ecco un velo
ampio, nero, lugubre a me d’intorno
si diffonde, mi copre. In grembo ad esso
si rannicchian le braccia, e veggio a pena
zoppicarmi del piè la punta estrema
sotto spoglie novelle. Orrida giubba
di negro velo anch’essa a me dal capo
scende sul dorso, e si dilata e cela
e mento e gola e petto. Ahimè, il sembiante
sorge privo di labbra, esangue, freddo
e di squallore sepolcral coperto.