
Immagine in evidennza: Bologna Arches di Vladislav Yeliseyev
Come possiamo immaginare un laboratorio di poesia? Ci sono state riviste di poesia e letteratura che hanno scelto di presentarsi come “laboratorio” artigianale: “Officina”, “L’incantiere”, "Atelier", per dirne tre che fanno passare bene l’idea. Ma a noi cosa fa pensare un laboratorio di poesia? Rispetto a officine e cantieri forse passa maggiormente l’idea dell’esperimento. Un luogo in cui l’errore anticipa la scoperta, dove si cerca per prima cosa di capire qual è la domanda giusta da porsi, fra tutte le possibili: nel laboratorio il metodo serve a fare le ipotesi più adatte, e a volte si scopre il problema prima ancora di capire perché potrebbe esserci bisogno di risolverlo. I laboratori di poesia conducono esperimenti di ogni tipo: può cambiare chi conduce la ricerca, la città o paese che li ospita. Molto spesso nel differenziarli conta più il punto di arrivo che quello di partenza: si partecipa per mettere insieme un libro? Per sviluppare un linguaggio? Per ricevere da una figura di riferimento dei feedback, o anche solo semplicemente per conoscere persone nuove? Magari per nessuna di queste ragioni, e andrebbe bene lo stesso. Per quanto mi riguarda, in questo momento quando penso a un laboratorio di poesia non posso fare a meno di pensare al “Freelab”, un laboratorio settimanale organizzato dal Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna: un gruppo composto principalmente da studenti e studentesse dell’università che ogni lunedì, dalle 19 alle 21, si incontra sul palco di un locale in piena zona universitaria per condividere i propri testi e discuterne con gli altri e le altre partecipanti. Si potrebbe veramente tracciarne la storia, iniziando da prima ancora del Covid, ma quello che ora ci interessa è fare soprattutto luce su un aspetto particolare del laboratorio. Ogni incontro inizia infatti con la lettura di un testo scritto da un autore o autrice contemporaneo: dal primo novecento fino, in certi casi, anche agli anni venti del duemila. A proporlo sono di volta in volta i partecipanti e le partecipanti, e una volta letto viene lasciato dello spazio per problematizzare, chiarire, interrogare insieme la poesia in questione, senza avere la pretesa di esaurirla completamente ma chiedendosi in gruppo se e come ci sollecita, e perché lo fa o non fa. Un grado zero della lettura che è però fondamentale, dal momento che il laboratorio non presenta figure di riferimento autoritarie: la moderazione stessa dell’incontro viene affidata di volta in volta a persone diverse che seguono però delle modalità costanti per ogni appuntamento. Così questi testi iniziali finiscono per dettare il tono del singolo incontro, i loro autori e autrici dei punti inevitabili di confronto per le poesie che verranno lette nel corso delle due ore (con pausa di dieci minuti in mezzo), e ci si va costruendo insieme un sistema comune di riferimenti che riesce a essere lo stesso abbastanza variegato, a volte quasi imprevedibile. Abbiamo pensato allora di condividere queste “poesie iniziali” del primo trimestre in cui si è svolto il laboratorio: un po’ per fare il punto su cosa è stato letto, un po’ però anche per capire meglio quello che non è stato letto, facendo magari mente locale su certe assenze o lacune che bisogna spiegarsi. Certo, un lettore o un lettrice un po’ avveduti che dovessero dare un’occhiata ai nomi che seguono tenendo presente un calendario degli eventi di poesia svoltisi in quest’arco di tempo a Bologna riuscirebbero a spiegare con facilità la presenza di alcuni nomi, soprattutto (ma non soltanto) per quel che riguarda quelli viventi. Ma questo secondo noi è un segnale molto positivo: indica il bisogno di stare attenti e attente alle diverse proposte nei propri dintorni, soprattutto in un contesto come quello bolognese in questo momento, che a differenza di altri rischia di essere dispersivo per via della quantità di iniziative in campo e che per far fronte alla dispersione finisce puntando su uno zoccolo duro di partecipanti, col pericolo di trasformarsi in circolo autoriferito sempre in agguato. Per questo motivo nel "disordine" di questa proposta è ancora più positiva la presenza di autori “scontati” per alcuni, come Montale al primo incontro: è un dato che rivela la presenza di nuove e nuovi partecipanti al laboratorio e l’esigenza di ricominciare da capo ogni volta, rimettendosi in discussione senza dare per assodato nessun passo ma cercando invece di giustificarlo a fronte di nuove domande e nuovi incontri, una ripartenza continua che può ricordare una ruota per come gira su se stessa, che però non corre sul posto ma tira decisamente dritto.
Eugenio Montale (1896-1981)
DA OSSI DI SEPPIA (1925)
Incontro
Tu non m’abbandonare mia tristezza
sulla strada
che urta il vento forano
co’ suoi vortici caldi, e spare; cara
tristezza al soffio che si estenua: e a questo,
sospinta sulla rada
dove l’ultime voci il giorno esala
viaggia una nebbia, alta si flette un’ala
di cormorano.
La foce è allato del torrente, sterile
d’acque, vivo di pietre e di calcine;
ma più foce di umani atti consunti,
d’impallidite vite tramontanti
oltre il confine
che a cerchio ci rinchiude: visi emunti,
mani scarne, cavalli in fila, ruote
stridule: vite no: vegetazioni
dell’altro mare che sovrasta il flutto.
Si va sulla carraia di rappresa
mota senza uno scarto,
simili ad incappati di corteo,
sotto la volta infranta ch’è discesa
quasi a specchio delle vetrine,
in un’aura che avvolge i nostri passi
fitta e uguaglia i sargassi
umani fluttuanti alle cortine
dei bambù mormoranti.
Se mi lasci anche tu, tristezza, solo
presagio vivo in questo nembo, sembra
che attorno mi si effonda
un ronzio qual di sfere quando un’ora
sta per scoccare;
e cado inerte nell’attesa spenta
di chi non sa temere
su questa proda che ha sorpresa l’onda
lenta, che non appare.
Forse riavrò un aspetto: nella luce
radente un moto mi conduce accanto
a una misera fronda che in un vaso
s’alleva s’una porta di osteria.
A lei tendo la mano, e farsi mia
un’altra vita sento, ingombro d’una
forma che mi fu tolta; e quasi anelli
alle dita non foglie mi si attorcono
ma capelli.
Poi più nulla. Oh sommersa!: tu dispari
qual sei venuta, e nulla so di te.
La tua vita è ancor tua: tra i guizzi rari
dal giorno sparsa già. Prega per me
allora ch’io discenda altro cammino
che una via di città,
nell’aria persa, innanzi al brulichio
dei vivi; ch’io ti senta accanto; ch’io
scenda senza viltà.
*
Antonella Anedda (1955)
DA HISTORIAE (2018)
Alghe, anemoni di mare
Vediamo il mondo quanto basta
non di più non di meno di quanto sopportiamo
la testa che immergiamo nell'acqua è la sola promessa
di una vita ulteriore, nel grigio che sfuma ogni pensiero.
Le alghe oscillano arrossate dagli anemoni di mare.
La mente non fa male, il fondale trema
di una luce autunnale.
Vieni acqua buia intrecciami di ortica,
la crescita lenta è già finita.
*
Andrea Zanzotto (1921-2011)
DA DIETRO IL PAESAGGIO (1951)
Con dolce curiosità
Con dolce curiosità
colli cresciuti qui dintorno
e voi, spazi accaldati:
il segreto di Dolle che ieri
assorbì tante piccole genti
stanche delle proprie ricchezze
non era che il mulino
ridente e servito dalle ombre;
era il mulino che fa trasalire
le frescure affiorate
per i lor cauti pori,
il mulino tra la salvia
il mulino che non fa
più rumore che foglia
Singhiozzava per esso il mio polso
con risentimenti di baco
quando mi si abbassavano
le palpebre come ariste
su un'indolenza lucente di paglia
Tra i dormienti ed i vivi
li silenzio posa su un fianco,
a pochi passi dalla pioggia
di minuto in minuto
quella messe risplende salute
e tu vergine vi ti dicevi
per aver tanto atteso,
ed eri d'una famiglia
di selvatiche piogge e foglie
ed eri schiava
d'una lettera in arrivo
Forse è tempo di metter gli occhiali
per diventar familiari
con le distanze e i puntigli del vetro,
forse chi computa
ha già un errore in eccesso
per il meriggio celeste fiammifero
per la mano golosa che tocca
i larghi petali del miele
Ecco l'acqua risolta nei suoi sorsi
e il mulino
nelle sue molle d'orologio
e gli uomini della calura
nei lor modesti vizi d'orecchio e di gola;
di me si giova la luce per vedere
il fico va sillabando dolcezza
il carbone sotterra allarga
le sue piume di struzzo;
conduciamo la ghiaia a bere
a piccoli sorsi,
dissetiamoci alla notte,
inventiamo una fanciulla
educabile al vento alla frescura,
dissetiamoci all'ombra di giglio
della sua mente.
*
Antonia Pozzi (1912-1938)
Luci libere (27 gennaio 1938)
È un sole bianco che intenerisce
sui monumenti le donne di bronzo.
Vorresti sparire alle case, destarti
ove trascinano lenti carri
sbarre di ferro verso la campagna -
ché là pei fossi infuriano bambini
nell'acqua, all'aurora e
vi crollano immagini di pioppi.
Noi, per seguir la danza
di un vecchio organo
correremmo nel vento gli stradali...
A cuore scalzo
e con laceri pesi di gioia.
*
Charles Wright (1935)
DA BREVE STORIA DELL'OMBRA (2021 Italia, 2006 USA)
La generazione silenziosa III
Sono queste le nostre voci, attive, passive e soppresse,
e queste sono le nostre sillabe.
Le abbiamo usate per amare le vostre figlie,
usate per amare i vostri figli.
Abbiamo viaggiato, sostato a casa, contato i nostri giorni
come pillole prescritte.
Alla fine, avevamo come tutti troppo da dire.
Abbiamo vissuto alla giornata, puntato su quel che ha da
venire
solo per quel poco che viene,
e vedete, quando il fumo ha cominciato a dissolversi
la vita che un tempo credevamo quell'immensa volta del
cielo,
non era che l'eco del suono di un'ascia nei boschi.
Non abbiamo avuto cuore per l'indifferenza,
non abbiamo avuto il sale o la ferita.
Zampillavano le parole,
ma bontà e pietà rifiutarono di seguirci.
Abbiamo portato le ali sulle spalle, mangiato i nostri morti.
Come lampadine allentate, abbiamo tenuto per noi il nostro
fulgore.
Non abbastanza pesanti per il fardello del boia,
i nostri nomi nel cappio
sono scarabocchi sconnessi nella polvere, verso dopo verso.
Troppo strani per i contemporanei,
dimostreremo d'essere
non strani abbastanza per i posteri.
O voi che venite dopo di noi,
leggete i nostri resti,
studiate le ossa mute e fate altrimenti.
*
Vittorio Sereni
DA FRONTIERA (1941)
Le mani
Queste tue mani a difesa di te:
mi fanno sera sul viso.
Quando lente le schiudi, là davanti
la città è quell'arco di fuoco.
Sul sonno futuro
saranno persiane rigate di sole
e avrò perso per sempre
quel sapore di terra e di vento
quando le riprenderai.
*
Antonio Francesco Perozzi (1994)
DA BOTTOM TEXT (2023)
Sfere metalliche in volo
Ho un'immagine che mi sono costruito da solo:
sono delle sfere di metallo
grandi, sospese
venti metri sulla zona coltivata.
Le vedo - nel pensiero - salendo
sul bus che costeggia il Piave.
Il Veneto si presta a scavare allegorie
di questo tipo nel cielo - ad esempio
il tramonto qui è cianotico,
blu-viola, basso, cloud, robe del genere.
Oppure i tralicci dell'Enel che svettano sul grano
ancora non uscito mi danno le idee
di segnali captati dall'altrove, messi a terra
e convertiti in acciaio.
Allora approfitto della situazione e moltiplico
le sfere contro la capacità
della corteccia cerebrale. Alla fine
ne faccio seimila; io e l'autista
ci inoltriamo fino alla gola
e niente è più traccia di niente.
*
Maria Luisa Spaziani (1922-2014)
Computer
Questa finestra argentea sul mondo
che sa ogni cosa, che ricorda tutto,
più di me ha brillante la memoria.
Mi batte, come mai era accaduto.
Si ricorda ogni data, ogni indirizzo,
e mi ricostruisce il tempo andato,
gioca a scacchi, sa dirmi quanti battiti
ha registrato nelle vene il sangue.
È il più grande museo del mondo,
un registro implacabile, il più attento.
Non ricorda, purtroppo, i profumi,
non sa dirmi chi ho amato di più.
Intelligenza pura, non variabile,
sarebbe un giorno piaciuto a Pascal?
Entriamo nei cunicoli segreti
che il teschio nascondeva.
L'esprit de force, l'esprit de finesse
lottano in noi, ma in te il primo vince.
È prezioso il tuo aiuto, ma rimani
strumento, caro amico e non padrone.
*
Antonio Porta (1935-1989)
DA IL GIARDINIERE CONTRO IL BECCHINO (1989)
airone 10
quando il mio essere si fa opaco lo distendo
ai tuoi piedi, airone
io disteso come prateria
invasa dalle acque dai semi
opposto ai buchi luminosi dello stellato
come in attesa di essere ancora luce
all'alba quando il conflitto si placa e si racchiude
in un uovo minuscolo
dove già pulsa il cuore di un usignolo
dove batte il minuscolo mio cuore neonato
come milioni di altri muscoli nascosti
potenti macchine da guerra che avanzano
che scuotono la cintura della terra
e misurano ogni altro respiro.
*
Cees Nooteboom (1933)
Bogotà
Le tre della notte.
Mi trascino dietro questa vita sconvolta
come un pescatore la sua rete lungo la riva,
pesante d'acqua e di pesci morti
che lasciano la traccia del proprio sangue.
Le tre della notte.
Cosí mi sveglio nelle città straniere,
sento che il gallo viene colpito per la terza volta
perché ha scorto una luce nella tenebra.
Il dolore non mi evita.
Lo esorcizzo con parole troppo grosse.
Le tre della notte.
Casse quadrate di silenzio intorno al letto,
strapiene e chiuse.
Ma quel silenzio ha spine
e fa un male che non passa poi più.
Il silenzio spiana il sentiero dove il messaggero
si aggira
e dice che il mattino di nuovo si farà sera.
E poi,
mi pettino le ossa, le raccolgo insieme,
mi preparo a un'altra traversata, entro in acqua,
e vivo.
*
Mariangela Gualtieri (1951)
DA QUANDO NON MORIVO (2019)
Bambina mia
Bambina mia,
Per te avrei dato tutti i giardini
del mio regno, se fossi stata regina,
fino all’ultima rosa, fino all’ultima piuma.
Tutto il regno per te.
E invece ti lascio baracche e spine,
polveri pesanti su tutto lo scenario
battiti molto forti
palpebre cucite tutto intorno.
Ira nelle periferie della specie.
E al centro,
ira.
Ma tu non credere a chi dipinge l’umano
come una bestia zoppa e questo mondo
come una palla alla fine.
Non credere a chi tinge tutto di buio pesto e
di sangue. Lo fa perchè è facile farlo.
Noi siamo solo confusi,credi.
Ma sentiamo. Sentiamo ancora.
Sentiamo ancora. Siamo ancora capaci
di amare qualcosa.
Ancora proviamo pietà.
Tocca a te,ora,
a te tocca la lavatura di queste croste
delle cortecce vive.
C’è splendore
in ogni cosa. Io l’ho visto.
Io ora lo vedo di piu’.
C’è splendore. Non avere paura.
Ciao faccia bella,
gioia piu’ grande.
L’amore è il tuo destino.
Sempre. Nient’altro.
Nient’altro. Nient’altro.
*
Wisława Szymborska (1923-2012)
Uscita dal cinema
1945 tratta da una raccolta inedita, poi pubblicata ne "La gioia di scrivere"
Luccicavano i sogni sulla tela bianca.
Due ore di scaglie lunari.
C'era l'amore su una triste melodia,
c'era il ritorno felice dal vagare.
Il mondo dopo una fiaba è bruma.
Con visi e ruoli incolti.
La ragazza le sue pene intona,
e il soldato quelle del partigiano.
Torno a voi, nel mondo vero,
colmo di fato, fitto e fosco -
ragazzo monco sotto il portone,
ragazza dagli occhi vani.