Poesie di Natale

Tre poesie che non ti aspettavi per questo Natale
24 Dicembre 2024

 

Roberto Mussapi (1952)

DAL RACCONTO DI NATALE (1995)

 

 

«Vivrò nel passato, nel presente e nel futuro!»

Si stava svegliando mentre il tempo si apriva.

«Jacob, siano lodati il Cielo e il Natale!»

E intanto stringeva le lenzuola e diceva «Ci sono!

Non sono state strappate via, ci sono.

E tutti quelli che sembravano scomparire ci sono ancora.

E resteranno, ne sono sicuro»,

mentre si infilava gli abiti al rovescio e li lasciava cadere,

e si sentiva leggero come una piuma,

e allegro come un ubriaco o un ragazzo che esce di scuola.

«Ecco il pentolino dove c’era il brodo,

ecco la porta del fantasma, l’angolo dove era seduto,

e la finestra, e le piastrelle, prima così gelate!»

Tutto era esatto, tutto vero, tutto accaduto.

[...]

Molti ridevano di Scrooge, che pareva un bambino,

ma questo è normale nel mondo terreno,

tu custodisci un miracolo e produci risate.

Scrooge sorrideva sempre, era felice.

Gli spiriti non lo vennero più a frequentare,

erano in lui, li ricordava,

lo avevano popolato e lasciato solo,

con tutti quelli che incontrava per strada.

E tutto per un sogno di una vigilia di Natale,

che lui scambiò per un’indigestione di mostarda gelata,

quando la nebbia nasconde anche la campana

e il suono giunge come lontano e abissale,

e le ossa sembrano sgretolarsi nel dolore,

per tutto il mondo d’immagini che si è disgregato.

All’improvviso attraverso un acuto dolore

e visite tremende, spietate, infernali,

tu hai tutto di fronte, scena per scena,

e ne hai orrore ma anche pena,

e ti vedi come uno sconosciuto lasciato nel gelo

del letto senza amore e senza mattini.

Poi uno ti condusse al buio ma dandoti la mano,

e a poco a poco la nebbia dileguava,

e cominciava a scendere la neve,

con la sua luce molecolare e moltiplicata,

e il bianco rinasceva miracolosamente dal buio,

e Scrooge, uno di noi, si sentì nato.

 

 

 

Antonella Anedda (1955)

DA RESIDENZE INVERNALI (1992)

 

Le nostre anime dovrebbero dormire

come dormono i corpi sottili

stare tra le lenzuola come un foglio

i capelli dietro le orecchie

le orecchie aperte

capaci di ascoltare. Carne

appuntita e fragile, cava

nel buio della stanza. Osso lieve.

Così la membrana stringe

la piuma alla spalla dell’Angelo.

 

Trasparenti sono le orecchie dei malati

dello stesso colore dei vetri

eppure ugualmente sentono

il rullio dei letti

spostati dalle braccia dei vivi.

Alle quattro, nei giorni di festa

hanno fine le visite. Lente

le fronti si voltano verso le pareti.

Nei corridoi vuoti scende una pace d’acquario.

Luci azzurre in alto e in basso

sulla cima delle porte

sul bordo degli scalini.

 

Luci notturne.

I malati dormono gli uni

vicini agli altri posati

su letti uguali.

Solo diverso è il modo

di piegare le ginocchia

se le ginocchia

possono piegare, diversa

l’onda delle loro coperte.

Pochi riescono ad alzarsi sulla schiena

come nelle malattie di casa

e ogni letto ha grandi ruote di metallo dentato

molle che di scatto

serrano il materasso

o di colpo lo innalzano.

Il letto stride, si placa.

 

Luci di Natale.

La corsia è una pianura con impercettibili tumuli.

Con quali silenziosi inchini s’incontrano i pensieri dei morti.

 

Luci d’inverno.

Nella sala degli infermieri luccicano carte di stagnola

l’odore del vino sale nell’aria.

Se i vivi accostassero il viso ai vetri appannati

se allungassero appena le lingue

il vapore saprebbe di vino.

C’è un attimo prima della morte

la notte gira come una chiave.

Quali misteriosi cenni fanno i lampioni ai moribondi,

quante ombre lasciano i corpi.

 

Le dieci. Sulla tovaglia un coniglio rovesciato di fianco

patate bollite, asparagi passati in casseruola.

Nella stanza regna una solenne miseria.

 

I vivi si chiamano come da barche lontane.

 

 

Alessandro Ceni (1957)

DA I FIUMI (1985)

Nella ricorrenza del passaggio di una stella cometa

 

Ecco il buio spezzacuori

e i trampolieri dei suoi sentimenti

dove un no ancora pende

con una gamba levata

sopra l'amante in silenzio

che ode rompersi

i biscotti ed assentarsi l'istante:

sbriciolato sulla superficie

El così camminava le acque.

 

Da qualche parte in noi

ho sentito ridere,

gli alberi ambulare sulle punte

con le cime apparecchiate d'uccelli

spalancati nel buio,

dai bisbigli

la notte notte

e frusci e susurri e sospiri,

gli scheletri orribilmente incrinare

per le fattezze di un tempo e

sperare sotto il padre mare:

nell'ora dei sogni veritieri

El premendo e penetrando

s'avvolgeva la testa.

 

Ecco la bocca piena del loro amore splendente

spunta sulla boscaglia tremolante del mondo,

finito il moto

per un secondo ancora

sbatte e colpisce la luna,

i satelliti s'inceppano

in una vecchia promessa

e insieme voltano ammainati i venti:

il tuo abbraccio la spezza

il tuo cuore è inadatto

la tua lingua incomprensibile,

El per non farla diventare

la sorprendeva.

 

Da qualche parte in noi

libero è uno spazio da alberi,

dove le cicogne precipitano stecchite

picchiando le carlinghe dei razzi

per far loro perder la testa,

le rotte piangendo s'invertono

passano il deposito

gli hangar in cui rulla e s'appronta Saturno

e non possono prender la Terra,

anzi, senz'erba neppure: sfiorate

le leve segrete le albe uscivano

ronzando come dischi,

come da una ferita mal riparata

il sonno degli esseri esce in vapore,

ma era la Terra

che le partoriva

ed El col buco nero le divorava,

il finto pescatore assopito e andato di sotto

spezzando la lastra del mare.

 

 

Ecco se il gran Sole e se l'Immenso

non fossero

ma fosse soltanto

lo scampanio delle mani

quando ci si saluta

e il missile puntato, la navicella degli atomi,

i motori che più non ci abbandonano

e vertici linee che incessanti proclamano

d'ossidiana e lapilli la fattura del cielo,

l'altro mare a specchio

d'anemoni e formine, e in

questo nostro scrutiamo

di quello la pomice lunata,

la semplice fosforescenza degli astronauti:

il lento verde e

fluitare dei canali,

limo che mai vide e capi

minacciato dai tonfi

e di tuffi dalle massicciate,

o suono delle parole che non si dissero,

i non visti abitatori

in ascolto del vento che mai spira,

picchettati per i capelli

come Lilliput

dalle alghe e dai molluschi,

desti ai bengala dell'Asino e del Bue

e al mugghio del Bambino contro le stanghe:

da qualche parte in noi,

i marziani immobili osservano

sostare il nuoto innamorato degli sgombri

e un lugubre sole accomiatarsi,

cerimonioso, temperando un legnetto,

coi volti pensosi trascolorano

ai nomi delle fidanzate terrestri,

lontane lontane e

rifiorite per loro nei loro cuori verdi:

El soffiò in un'onda di vetro

una sfera

perché anche quel poco soltanto non fosse.

 

 

 

 

*

 

Un altro testo in regalo per te che sei arrivato fino alle fine:

 

Guido Casoni (1561-1642)

DA L'OPERE DEL SIG. CAVALIER GUIDO CASONI (1626) 

 

Maria, che è quel bambin ch'è in terra? Terra.

Dissi: chi è quel ch'è ignudo al cielo? Cielo.

Chiedo: chi è nel presepe? Il cielo in terra.

No: chi è nel fieno? Egli è la terra in cielo.

Quel pargoletto adunque è cielo e terra?

È pargoletto in terra, immenso in cielo;

e nel mio sen ch'è quasi un ciel di terra

Amor congiunse in lui co'l ciel la terra.