Roberto Mussapi (1952)
DAL RACCONTO DI NATALE (1995)
«Vivrò nel passato, nel presente e nel futuro!»
Si stava svegliando mentre il tempo si apriva.
«Jacob, siano lodati il Cielo e il Natale!»
E intanto stringeva le lenzuola e diceva «Ci sono!
Non sono state strappate via, ci sono.
E tutti quelli che sembravano scomparire ci sono ancora.
E resteranno, ne sono sicuro»,
mentre si infilava gli abiti al rovescio e li lasciava cadere,
e si sentiva leggero come una piuma,
e allegro come un ubriaco o un ragazzo che esce di scuola.
«Ecco il pentolino dove c’era il brodo,
ecco la porta del fantasma, l’angolo dove era seduto,
e la finestra, e le piastrelle, prima così gelate!»
Tutto era esatto, tutto vero, tutto accaduto.
[...]
Molti ridevano di Scrooge, che pareva un bambino,
ma questo è normale nel mondo terreno,
tu custodisci un miracolo e produci risate.
Scrooge sorrideva sempre, era felice.
Gli spiriti non lo vennero più a frequentare,
erano in lui, li ricordava,
lo avevano popolato e lasciato solo,
con tutti quelli che incontrava per strada.
E tutto per un sogno di una vigilia di Natale,
che lui scambiò per un’indigestione di mostarda gelata,
quando la nebbia nasconde anche la campana
e il suono giunge come lontano e abissale,
e le ossa sembrano sgretolarsi nel dolore,
per tutto il mondo d’immagini che si è disgregato.
All’improvviso attraverso un acuto dolore
e visite tremende, spietate, infernali,
tu hai tutto di fronte, scena per scena,
e ne hai orrore ma anche pena,
e ti vedi come uno sconosciuto lasciato nel gelo
del letto senza amore e senza mattini.
Poi uno ti condusse al buio ma dandoti la mano,
e a poco a poco la nebbia dileguava,
e cominciava a scendere la neve,
con la sua luce molecolare e moltiplicata,
e il bianco rinasceva miracolosamente dal buio,
e Scrooge, uno di noi, si sentì nato.
Antonella Anedda (1955)
DA RESIDENZE INVERNALI (1992)
Le nostre anime dovrebbero dormire
come dormono i corpi sottili
stare tra le lenzuola come un foglio
i capelli dietro le orecchie
le orecchie aperte
capaci di ascoltare. Carne
appuntita e fragile, cava
nel buio della stanza. Osso lieve.
Così la membrana stringe
la piuma alla spalla dell’Angelo.
Trasparenti sono le orecchie dei malati
dello stesso colore dei vetri
eppure ugualmente sentono
il rullio dei letti
spostati dalle braccia dei vivi.
Alle quattro, nei giorni di festa
hanno fine le visite. Lente
le fronti si voltano verso le pareti.
Nei corridoi vuoti scende una pace d’acquario.
Luci azzurre in alto e in basso
sulla cima delle porte
sul bordo degli scalini.
Luci notturne.
I malati dormono gli uni
vicini agli altri posati
su letti uguali.
Solo diverso è il modo
di piegare le ginocchia
se le ginocchia
possono piegare, diversa
l’onda delle loro coperte.
Pochi riescono ad alzarsi sulla schiena
come nelle malattie di casa
e ogni letto ha grandi ruote di metallo dentato
molle che di scatto
serrano il materasso
o di colpo lo innalzano.
Il letto stride, si placa.
Luci di Natale.
La corsia è una pianura con impercettibili tumuli.
Con quali silenziosi inchini s’incontrano i pensieri dei morti.
Luci d’inverno.
Nella sala degli infermieri luccicano carte di stagnola
l’odore del vino sale nell’aria.
Se i vivi accostassero il viso ai vetri appannati
se allungassero appena le lingue
il vapore saprebbe di vino.
C’è un attimo prima della morte
la notte gira come una chiave.
Quali misteriosi cenni fanno i lampioni ai moribondi,
quante ombre lasciano i corpi.
Le dieci. Sulla tovaglia un coniglio rovesciato di fianco
patate bollite, asparagi passati in casseruola.
Nella stanza regna una solenne miseria.
I vivi si chiamano come da barche lontane.
Alessandro Ceni (1957)
DA I FIUMI (1985)
Nella ricorrenza del passaggio di una stella cometa
Ecco il buio spezzacuori
e i trampolieri dei suoi sentimenti
dove un no ancora pende
con una gamba levata
sopra l'amante in silenzio
che ode rompersi
i biscotti ed assentarsi l'istante:
sbriciolato sulla superficie
El così camminava le acque.
Da qualche parte in noi
ho sentito ridere,
gli alberi ambulare sulle punte
con le cime apparecchiate d'uccelli
spalancati nel buio,
dai bisbigli
la notte notte
e frusci e susurri e sospiri,
gli scheletri orribilmente incrinare
per le fattezze di un tempo e
sperare sotto il padre mare:
nell'ora dei sogni veritieri
El premendo e penetrando
s'avvolgeva la testa.
Ecco la bocca piena del loro amore splendente
spunta sulla boscaglia tremolante del mondo,
finito il moto
per un secondo ancora
sbatte e colpisce la luna,
i satelliti s'inceppano
in una vecchia promessa
e insieme voltano ammainati i venti:
il tuo abbraccio la spezza
il tuo cuore è inadatto
la tua lingua incomprensibile,
El per non farla diventare
la sorprendeva.
Da qualche parte in noi
libero è uno spazio da alberi,
dove le cicogne precipitano stecchite
picchiando le carlinghe dei razzi
per far loro perder la testa,
le rotte piangendo s'invertono
passano il deposito
gli hangar in cui rulla e s'appronta Saturno
e non possono prender la Terra,
anzi, senz'erba neppure: sfiorate
le leve segrete le albe uscivano
ronzando come dischi,
come da una ferita mal riparata
il sonno degli esseri esce in vapore,
ma era la Terra
che le partoriva
ed El col buco nero le divorava,
il finto pescatore assopito e andato di sotto
spezzando la lastra del mare.
Ecco se il gran Sole e se l'Immenso
non fossero
ma fosse soltanto
lo scampanio delle mani
quando ci si saluta
e il missile puntato, la navicella degli atomi,
i motori che più non ci abbandonano
e vertici linee che incessanti proclamano
d'ossidiana e lapilli la fattura del cielo,
l'altro mare a specchio
d'anemoni e formine, e in
questo nostro scrutiamo
di quello la pomice lunata,
la semplice fosforescenza degli astronauti:
il lento verde e
fluitare dei canali,
limo che mai vide e capi
minacciato dai tonfi
e di tuffi dalle massicciate,
o suono delle parole che non si dissero,
i non visti abitatori
in ascolto del vento che mai spira,
picchettati per i capelli
come Lilliput
dalle alghe e dai molluschi,
desti ai bengala dell'Asino e del Bue
e al mugghio del Bambino contro le stanghe:
da qualche parte in noi,
i marziani immobili osservano
sostare il nuoto innamorato degli sgombri
e un lugubre sole accomiatarsi,
cerimonioso, temperando un legnetto,
coi volti pensosi trascolorano
ai nomi delle fidanzate terrestri,
lontane lontane e
rifiorite per loro nei loro cuori verdi:
El soffiò in un'onda di vetro
una sfera
perché anche quel poco soltanto non fosse.
*
Un altro testo in regalo per te che sei arrivato fino alle fine:
Guido Casoni (1561-1642)
DA L'OPERE DEL SIG. CAVALIER GUIDO CASONI (1626)
Maria, che è quel bambin ch'è in terra? Terra.
Dissi: chi è quel ch'è ignudo al cielo? Cielo.
Chiedo: chi è nel presepe? Il cielo in terra.
No: chi è nel fieno? Egli è la terra in cielo.
Quel pargoletto adunque è cielo e terra?
È pargoletto in terra, immenso in cielo;
e nel mio sen ch'è quasi un ciel di terra
Amor congiunse in lui co'l ciel la terra.