Il controcanto al perduto

Su "I perduti amori" di Giorgio Ghiotti
18 Agosto 2024

 

Leggere I perduti amori di Giorgio Ghiotti (Il simbolo, 2024) è come attraversare una soglia, il libro si fa guida lungo quella zona d’ombra che è il passaggio all’età adulta.

 

La poesia non attraversa il dolore per risolverlo, ma alcune parole, quando dettate da intuizioni, incanto e saggezza, come in questo fortunato libro, hanno la grande abilità di ridisegnare i tratti dopo una ferita.

 

In una nota a fine libro l’autore stesso definisce quest’opera “il libro dei miei trent’anni”, un tema suggerito anche dall’esergo tratto da Il trentesimo anno di Ingeborg Bachmann (Ma chi sono io, nel settembre dorato, / se da me tolgo tutto ciò / che gli altri hanno fatto di me?)

 

I trent’anni sono un vero e proprio aldilà per un poeta come Giorgio Ghiotti che ha sempre avuto a cuore la giovinezza e l’ha narrata nei libri precedenti, dai più recenti Ipotesi del vero (Liberaria 2023) e Biglietti prima di andare (Ensamble, 2022), fino a La città che ti abita (Empiria, 2017), sentendone già in germe il seme della nostalgia.

 

È un libro che si muove per sottrazioni, portando avanti una ricerca sull’identità che, già formata, deve continuamente dirsi; se nei vent’anni si costruisce aggiungendo esperienze, conoscenze e amori, forse nei trenta si ragiona per mancanze, con l’imperativo umano di ricordare.

 

“Cercherò di ricordare, di ricordare

tutto, chi era quello premuto a una ringhiera

e chi sarà lo sconosciuto che sarò”.

 

Così inizia la conta dei perduti: gli amori, gli amici, le città e i maestri, di cui ci sono tracce commosse all’interno del libro. A perdersi è la possibilità di essere altro, qualcosa che forse nemmeno si sarebbe desiderato essere, ma proprio nell’eventualità mancata albeggia una rassegnata nostalgia  (Amori: Uno – perduto / appena nato / l’altro – mai / cominciato). Si perde la scommessa (che non può che essere sempre persa in partenza) su come a trent’anni ci si immaginava.

 

“L’anno sfuocato sopra il calendario / s’impone adesso in lettere di fuoco. // Pure ho vissuto e perdendolo ho perduto / la mano migliore del mio gioco.”

 

Da controcanto al perduto qualcosa si aggiunge e allora si scopre che le città, la Milano lasciata e la Roma ritrovata sono in realtà entrambe guadagnate; che delle scoperte si sono fatte, potranno essere successivamente ammorbidite, ma sono giunte sulla pagina con la forza di una verità inflessibile, capace di affilare lo sguardo del poeta, farlo implacabile e saggio.

 

“Ero destinato a grandi cose, e portentose, / per poi scoprire che il destino non esiste, / e che a forza di fissarlo ogni deserto / si rovescia nel fondo dei tuoi occhi.”

 

“Ma a quest’ora / così tarda, poi, un miracolo!, nemmeno / li fabbricano più da queste parti”.

 

In questa presa di coscienza, nell’infrangersi della promessa, emerge la vita reale fatta di aggiustamenti, di piccoli momenti sereni, come vediamo nell’ultima splendida poesia che chiude il libro come un delicato augùrio.

 

Qui era una zona di rane e acquitrini

e dopo la salita campi aperti

e mare di lontano e oltre ancora

tutto un frinire di cicale e grilli -

dev’esserti sembrata la vita – la vita

dicevi è quella cosa che si fa

di sera – con del vino in gola -

cantando.

 

Si può guardare alla storia familiare con un distacco indulgente ora che si è in parte perduto anche il compito di essere figli, così affiorano dalla memoria, in quese prove generali per l’identità, ricordi simbolo per quello che sarà (per quello che già è) essere adulti.

Dopo una mareggiata Giorgio Ghiotti osserva ciò che resta sulla riva e di quello raccoglie il salvabile, ci riporta parole e ricordi di un Novecento che ancora vibra sulla sua pagina. Ci accompagna in via del Corallo da Amelia Rosselli e fra le carte di Anna Cascella Luciani, raccontandoci di balere e cartoline.

 

C’è ne I perduti amori una magia che muore e non vuole morire, un amore che muore e morendo diventa assoluto: il poeta riesce nel disperato intento di riportare alla vita facendo luce sulle ombre, guardando le cose solo per quello che sono.

 

Se l’incanto sembra smarrito nella scoperta di certe stringenti verità non lo è mai nella forma. Leggendo Giorgio Ghiotti è facile pensare all’ispirazione come una chiara fontana, una sorgente inesauribile da cui origina la parola e dalla parola versi cristallini e leggeri. Le assonanze, le rime interne, il ritmo tutto serve all’autore per il gioco del senso segreto e mai è perduta la fiducia verso il canto, da cui Ghiotti si lascia trascinare e ci trascina instancabilmente, come sempre dovrebbe fare la poesia: attraversarci e condurci nel luogo dove la vita non è mai una conta ma una complessa e inspiegabile geografia di amori, relazioni e di promesse.

 

 

 

 

Eppure ora, io da sempre a digiuno

di oroscopi e predizioni - e forse

per questo vi invento sopra destini

leggendo più il cuore degli uomini

che il caso disposto sulla tavola -

rifuggo gli occhi di maghe vere

o presunte, e delle amiche i consigli

se - passando su un ponte sopra Tevere

tra dorati platani in luce di tramonto -

esprimi un desiderio, mi dicono, lancia

la monetina prima che cada il sole.

Ma è inutile oracolare su un amore.

 

***

 

Quasi morto ho creduto lo splendore

disperso in sottopassi grigio cenere

a notte alta, quando più nemmeno

il tram s’aspetta, ma s’intuisce al fondo

del viale una luce fioca che potrebbe

darsi un miracolo - ma a quest’ora

così tarda, poi, un miracolo!, nemmeno

li fabbricano più da queste parti,

e nondimeno credi che è circostante

lo splendore, ed è l’unico Paradiso

che avrai a godere.

 

***

 

Avevano un loro modo

le giornate - avevano

approdo certo e d’estate

le sere in tram deserto

in corsa da Testaccio lungo

il viale - avevo un certo modo

di pensare al bene, al male -

prima un’allegrezza mi prendeva

immotivata (un uomo, una poesia

trascritta a una fermata) dopo

una tristezza senza nome se appena

credevo vederti - non più vedendo

il viso illeso nella pena

come anni prima - pavido mio

amore - fra due chiome.

 

***

 

I perduti amori

 

Era dieci, era vent’anni fa -

che spavento il tempo

quando sta nascosto

in una frase e poi ti inchioda

si palesa con la medesima

crudeltà dei verbi - l’innocenza

non è di questa lingua

e non so fare senza -

senza pentirmi d’avergli detto

in pessimo tempismo quella

sera - ciao - valeva cento

addio e lo sapeva - o certe frasi

che - perdutamente - durano

in noi, o il semplice suo

nome (pronome sottinteso)

lui e nessun altro - così credo

pensassi, persino di morirne

per lui - sempre si crede il più

grande ogni perduto amore

il più struggente, difettoso -

invece vale al cuore solo

il sentimento della vita

- infinita - il tempo presente

nel giorno che si schiude tra due

torri - allora ero a Bologna,

da quanto non scrivevo più di lui,

della città che sogna anche al mattino -

ero giovane, ero vicino a una chiesa

di cui non so più il nome - ma

che dolci inganni, che stagione

piena! - era sopportabile ogni pena,

era il tempo che dicevo a tutti

amore, e loro (pronome azzurro, oro)

da una quieta altura, dalla mia memoria

sarebbero rinati su ogni foglio

dietro le spalle, oltre la paura.

 

***

 

Anche lui? persino

lui perduto? come -

più degli altri - perduto?

Sì, a fine giugno mietuto

insieme al grano - vano

tentativo di trovare

nei calendari un senso (ero

a Milano allora con niente

da fare, volevo solo scappare

da casa e da famiglia, fuggire

lontano, vedere tanto mondo -

per me mai uscito in vent’anni

dal quartiere, quello - Milano

e il mio terzo biondo amore

davvero, davvero erano

il mondo) -