Mer de Glace

Sei poesie di Małgorzata Lebda
2 Aprile 2024

 

“La poesia di Małgorzata Lebda è un animale. Più selvatico che domestico, sempre fedele a qualcuno o qualcosa. Ha una sua precisa anatomia: è dotato di un muso, di una bocca, di un forte istinto quasi tangibile. Sa come calmarsi”. Linda Del Sarto sceglie di cominciare con queste parole la sua postfazione a Mer de Glace, uscito in Polonia nel 2021 e insignito nel 2022 del prestigioso premio Szymborska per poi arrivare in italia con l’editore Valigie Rosse. Il tema dell’oralità ricorre in varie forme all’interno di Mer De Glace (vale qui la pena precisare che non è il tema principale del libro): c’è l’atto di mangiare, che si tratti di dare da mangiare ai cani, di assaporare pietanze o di assumere medicinali per bocca, e quello di leggere poesie ad alta voce, consumandole quindi in forma orale, diktat che ricorre nella serie di componimenti che ha per titolo Le stagioni dei luoghi. In Massa e potere Elias Canetti scriveva: “Il vero e proprio atto d'incorporare la preda comincia dalla bocca. Là conduceva originariamente la via di tutto ciò che era commestibile: dalla mano alla bocca. Per molte creature che non hanno braccia per afferrare, l'atto di afferrare è compito della bocca, dei denti o del becco". Che la scrittura possa essere vista come una forma di potere ce lo insegna la storia, sia quella della letteratura sia quella che riguarda quelle forme di scrittura non letteraria (pensiamo ai primi atti notarili in lingua volgare, ma anche a documenti più antichi che hanno per argomento il passaggio di proprietà). Tuttavia, possiamo parlare della scrittura come forma di potere anche in senso personale: quando si scrive si esercita un potere sulla parola, si cerca di piegarla alla propria intenzione per dire qualcosa, e anche leggendo ci si trova involontariamente a compiere e subire un esercizio di potere: se da un lato il lettore è messo nella posizione di accettare le condizioni poste dall'autore a priori, che si tratti di un’atmosfera o di vere e proprie asserzioni, dall’altro incorpora tutto quello che legge, lo snatura, perché spesso non si conosce mai davvero la voce di chi scrive, e il testo risuona in ognuno assecondando il suo tono. Si potrebbe parlare di semiotica a questo punto, di emittente e ricevente, ma mi fermo qui. Mi fermo qui, perché quando pensiamo al potere spesso pensiamo a qualcosa di negativo, di oppressivo, quando in verità possiamo anche prenderci cura degli altri, possiamo scegliere di esercitare un potere positivo sull'ambiente circostante, perché sarebbe impossibile non esercitarne alcuno (come del resto è impossibile non avvertire il potere che qualsiasi cosa esistente, dagli altri esseri umani alla forza di gravità, esercita su di noi). Per quanto il tono di Mer De Glace possa sembrare inizialmente dimesso (alla fine del mondo penso poco), quella di Lebda non è una poesia priva di speranza. Il “chiaro” è infatti parola chiave dell’intero libro, come evidenzia giustamente Linda Del Sarto, ed è una cosa dei sensi, a volte, il passare alle parole. Mer de Glace è, quindi, ma non si limita ad essere, una lezione sul trascurato e sulla lingua, che a volte è un sussurro, non è un mero elenco di nomi su una mappa, benché l'autrice faccia frequente riferimento ai nomi di località geografiche, oltre che a quelli di medicinali, piante, non mancando mai di una specificità che lascia trapelare una profonda cura per la parola. Vuole essere qualcosa di più di una mappa, o di un libro di poesia, superare i confini della carta: geografia di ciò che viene eroso, di ciò / che cambia stato, e che è toccato, che è qui. La trasmutazione è inevitabile al contatto, ma forse proprio questo contatto ha il potere di diventare cura, e proteggere da la fine del mondo, termine che può essere interpretato in chiave ecologica (“Ecopoesia è la categoria usata spesso per descriverla. La natura, certo, ma non posticcia e idilliaca, bensì vivente e dunque minacciata, come il ghiacciaio del Monte Bianco evocato nel titolo e anche nei colori di questa copertina”, scrive Andrea Ceccherelli nella bandella dell’edizione italiana). Sul finale della poesia geografia la poetessa ci esorta a guardare: la mano che gravita / attorno a pelle, corteccia, pelliccia / e non ne ha mai abbastanza. Se il bosco è tutt’altro che tranquillo, e le persone stanno iniziando ad arrivare sotto casa della donna che ci vive, la cura di ospitare ed essere ospiti è sola via di scampo. Tutto ciò che esiste in natura mangia e viene mangiato continuamente: è un ciclo che si ripete, come quello delle stagioni in cui sia allude nel libro. Il nostro potere va esercitato in armonia con gli altri: “qui Lebda insegna a vivere nel presente, con attenzione”, scrive sempre Ceccherelli. Per riprendere ancora una volta la postfazione di Linda Del Sarto, "la poesia di Lebda è parte di una natura che sa perfettamente come esistere e in più non richiede nulla". E questa "è la sua unica vita possibile, non esiste altra strada o altro bisogno".

 

 

DARE DA MANGIARE AI CANI

 

Qui, nella valle umida, i mattini sono buoni, alla fine del mondo 

che è in corso penso poco, ci sono questioni più importanti: 

prendere la pillola di eutirox al risveglio, mettere un quarto di 

doxybactin in bocca al gatto. E ancora: dare da mangiare ai cani, 

raccontare ai cani un sogno, portare fuori i cani.

 

Qui i mattini sono buoni, calmi, si trascinano fino alla notte.

 

*

 

TESTARE IL CHIARO

 

Di notte qualcosa apre le bocche ai cani del paese. Inizia 

dal burrone. Un fuoco di ringhi assale la casa, da un labrador 

del vicinato. Il primo cane trasmette qualcosa a quello dopo.

Chiamiamolo inquietudine, e panico il suo suono.

 

Accendo la luce, i cani chiudono la bocca. Spengo. La riaprono.

Accendo. La richiudono. Possibile li calmi ciò che calma 

pure noi? Bene - dico loro - oggi dormiamo testando il chiaro.

 

Guardo le case sparse per la valle, come luccicano dentro, 

quasi le persone facessero laggiù gli stessi esperimenti.

 

*

 

ZINCO

 

Su un treno che va a ovest incontro una donna, dice che vorrebbe 

avere - con piacere, sottolinea - un bambino malato, uno nato

 -addirittura - senza testa, se solo dio - se c'è, sottolinea - 

le concedesse - come dice lei - una grazia tanto grande.

 

Gesticola, sulle unghie ha macchie bianche.

Le manca lo zinco - penso.

 

Dice anche che abita nel bosco, ma che ultimamente là 

è tutt'altro - sottolinea - che tranquillo: le persone 

iniziano a arrivarle sotto casa.

 

*

 

LE STAGIONI DEI LUOGHI (V)

 

Il palladio dell'aria; inizio inverno; avere ospiti ed essere ospiti; il bosco che scende al lago, il lago che sale alla gola; il cane da caccia; cacciare fuori la voce; leggere poesie, leggere poesie, leggere poesie ad alta voce; il lavoro (perché non finisce mai); il collaudo del metallo; il collaudo della voce; seguire la luce; il nuovo nome che ricevo che mi dice: Luna - e come suona se detto in altro modo: testa in su, Luna.

 

*

 

DAL CORPO: NOVE

 

Dicembre scrive il primo dei suoi giorni. Un moto anti-freddo,

una ghianda calpestata, una spina di rosa selvatica che entra 

nella pelle della guancia. La neve è come muffa.

 

La sera dò uno sguardo alle piante di casa: le gemme dell'asparago 

si allungano nel chiaro, la calatea ripone le foglie per la notte, 

metto una foglia di calancola sulla lingua (lo consiglio anche a voi).

 

Qualcosa ora corre nel bosco - penso. Qualcosa ora corre 

nel bosco, forse segue delle orme e sta crescendo.

 

*

 

GEOGRAFIA

 

È una cosa dei sensi, a volte, il passare alle parole.

Che possono essere: castagno, cardamomo, calco, 

cazzo; oppure anche nomi di fiumi: Biela, Ob'.

 

I nomi dei fiumi ci portano armonia da anni. Un refrain di umidità, 

una lezione sul trascurato e sulla lingua, che a volte è un sussurro 

che si serve del dialetto delle mappe: Mer de Glace, Carpazi, 

Cluj-Napoca, valle di Bolechowice, Wrzeszcz, bosco Wolski, 

via Leo - ma non cercare, in questo non c'è ordine o misura.

Questo è: tettonica, geografia di ciò che viene eroso, di ciò 

che cambia stato, e che è toccato, che è qui.

 

Su, guarda: la mano che gravita 

attorno a pelle, corteccia, pelliccia 

e non ne ha mai abbastanza.