Un naso da maschio

Isabella Leardini per #unite #rompiamoilsilenzio
23 Febbraio 2024

 

La bambina mi teneva ferma stringendomi le braccia dietro la schiena, a intervalli regolari mi ordinava: «Parla!», non lo facevo; il bambino mi dava un altro pugno al centro dello stomaco. Era andata avanti per qualche giorno prima che lo raccontassi a mia madre, a quell’età non si pensa che una violenza possa essere immeritata; all’asilo la violenza non si riconosce, eppure sa già stringere alleanze, trovare buone ragioni. Si erano dati il compito di farmi parlare, dicevano che era per il mio bene. Volevano giocare con me - così avrebbero detto alla fine.
Doveva esserci una resistenza insopportabile nel mio silenzio. Non parlavo per estraneità. Anche adesso il silenzio mi cresce dentro negli spazi ostili, e di spazi insicuri quanto l’asilo in letteratura ne ho trovati tanti. Da anni mi dico che qualcosa in me si presta all’offesa.
A parlare avevo imparato presto e bene, ma parlavo soltanto con gli adulti. Non interrompere, non rispondere, non ti intromettere, stai un po’ zitta, non stai mai zitta, vuoi essere sempre al centro dell’attenzione, lingua lunga, bocca larga. Un silenzio può essere deviante, ma ancor di più lo è la parola, soprattutto se sei femmina.
Mia madre dice che da bambina non parlava mai, poi ha iniziato a farlo e le hanno detto che era saccente, bisbetica. Ho sempre parlato - dice - ma in realtà ha imparato a dire le cose più piano, spesso in modo indiretto, spesso in modo incompleto. A me ha sempre detto parla, preferisco avere una figlia come te. Io invece avrei voluto essere perfetta come lei, solo che non ci riuscivo. Non lo facevo apposta ad entrare nei discorsi nel momento sbagliato, a non smettere di parlare anche se mi prendevano in giro. Le mie parole erano un’onda, a un certo punto dell’infanzia sono diventate un’identità.
Avevo un compagno di classe che parlava tanto anche lui, dicevano che era così intelligente e curioso che sarebbe diventato un futuro politico, un giornalista, un inventore, io pure ero fantasiosa, brillante, potevo diventare una presentatrice tv, un’attrice, una poetessa.
All’inizio dell’adolescenza le parole smisero di essere il mio segno di riconoscimento, qualcosa di più evidente era cresciuto al centro di me: un naso da maschio.
Non stavo diventando come mia madre, il mio naso era come quello di mio padre.
Saresti carina se non avessi quel naso. Peccato per il naso. Sembri Dante Alighieri.
Con due specchi potevo controllare il mio profilo, con un dito ne coprivo una parte e immaginavo che sparisse. Nel letto, prima di spegnere la luce, guardavo l’ombra del mio naso enorme sul muro, fantasticavo di spaccarmelo da sola con un martello. Forse la violenza la chiami, se per prima, con te stessa, sei violenta. Entravo a scuola tra i conati di vomito, fai schifo mariangela, mostro, muori. Non ero un oggetto sessuale per nessuno, eppure avevo cazzi disegnati ovunque, sui libri, sulle scarpe, sulla giacca posata sullo schienale della sedia, su ogni centimetro del banco. Per questo lo facevano, perché in realtà gli piacevo. Chi disprezza compra.
Quanto a caro prezzo si compra imparare a convivere con il disprezzo.
Mio padre diceva che ero la più bella della classe e non me ne accorgevo, per convincermi disprezzava le più belle della classe. Il naso su di lui era normale, ma su di me era un naso da maschio, mi rendeva un ibrido. Mi erano precluse certe competizioni, esclusi certi desideri. Il mio corpo cambiava, ma la mia testa era sempre quella, erano come due cose separate, uno poteva anche essere guardato, l’altra poteva subito essere offesa.
Il tuo naso ti stava bene, si addiceva alla tua personalità - disse la più carina della classe. Al potere non piace che si cambino i ruoli, il cambiamento è deviante e a 17 anni il corpo è potere.
A diciassette anni ho cambiato il mio naso da maschio, non mi bastava la consolazione della personalità; le ragazze belle devono dimostrare di non essere soltanto belle, ma le ragazzine brutte devono dimostrare in ogni momento di non essere soltanto brutte, senza che questo possa comunque bastare. Volevo essere bella, lo volevo con la forza della rivalsa, come la scalata a qualcosa che mi era stato negato in partenza, concesso sempre con riserva.
Quando sono diventata bella le parole sono tornate ad essere il mio elemento distintivo, ho iniziato a scrivere.
Carina eh, ma quanto parla! Chissà perché non si sente mai dire che un uomo parla troppo, soprattutto non si sente in una frase avversativa, che un uomo è bello ma parla troppo. Un uomo che parla molto è un affabulatore, un accentratore, un istrione, al limite un narcisista, un egocentrico, ma per lui non c’è un’unità di misura, l’indice oltre il quale parla troppo. Perché solo per le donne è stabilita una misura oltre la quale è deviante parlare, non parlare, ridere, non ridere, arrabbiarsi, competere, avere potere, cambiare.
A vent’anni ero una giovane poetessa, quasi tutti i miei amici erano maschi, quasi tutti i poeti erano maschi. Con i miei inediti avevo vinto il premio più importante, stava per uscire il mio primo libro in una delle migliori collane in cui esordire. Volevo fare un festival nella mia città, avevo chiesto aiuto a cinque amici, lo avevo organizzato e presentato io, loro dialogavano con gli autori sul palco. Dall’anno dopo lo curai da sola, a due di loro chiesi di aiutarmi a presentare. L’organizzatrice, una ninfetta, una sciacquetta, una fraschetta. La svolazzante Isabella Leardini. Isabella Leardini che te ne vai in giro con il tuo nasino all’insù e i tuoi vestitini firmati.
Gli uomini sono giudicati per quello che scrivono, le donne per quello che fanno e per quello che appaiono.
Uno studio scientifico ha dimostrato che la voce delle donne, per una questione di complessità dei toni, causa stress nel cervello degli uomini. Sarà per questo che gli uomini mi urlano sempre addosso, la mia voce da donna è fastidiosa e non smette di parlare, la mia voce di sirena ha il potere di farli impazzire.
Dolcissima Isabella, permettimi di darti un suggerimento. Mi davano subito del tu, anche se non mi conoscevano, per suggerirmi di invitarli. Deve esserci qualcosa di ingannevole in me, sembro esattamente ciò che vogliono vedere, una donna con una voce da donna, una ragazzina con modi da ragazzina. Li fa arrabbiare accorgersi che non sono dolcissima. Scoprire che non li ascolto se mi insegnano qualcosa, che non li considero alla mia altezza, che posso superarli senza il loro aiuto, lo vivono come un’ingiustizia, come un tradimento, un torto subito a priori.
Se tu fossi stata un maschio... mi dice qualche volta una mia allieva. Se fossi stata un maschio sarei stata comunque antipatica a molti nel piccolo competitivo mondo della poesia, avrebbero detto che ero un ragazzetto rampante, ma non avrebbero scritto sul web che andavo a letto con qualcuno, che ero carina, che non ero poi così carina, che in realtà qualcun altro mi diceva cosa fare. Se fossi stata un maschio non sarei stata odiata per riflesso, sminuita all’ombra dei loro immaginari nemici, sarei stata almeno odiata per me stessa; e per questo in fondo rispettata, perché i maschi tra loro si rispettano sempre.
Essere così furbe da recitare la parte delle ingenue, era il modo per essere libere che ci avevano insegnato; era un errore, sono stata presa per stupida. È così facile che accada a una donna, basta solo che sorrida un po’ troppo nelle fotografie.
La frontalità dell’offesa è l’elemento cardine della violenza di genere. L’offesa a una donna è veloce, diretta, supera il pensiero, non ha la retorica delle polemiche tra maschi. L’offesa a una donna è facile, è istintiva, è reattiva. L’uomo che mi offende è già offeso dalla mia presenza, dal ruolo che non crede io meriti, se non è stato lui a darmelo. È offeso se mi comporto come un uomo, ma ancor di più se mi comporto come una donna. Non rispondere, saranno innamorati di te, è tutta invidia, è tutta stima.
Ma non c’è nessuna offesa nel nostro emergere, perfino nel nostro mettere in ombra, che dobbiamo risarcire con la modestia, con il candore. La violenza che all’asilo è motivata con l’amicizia, che alle medie è motivata con l’attrazione, tra gli adulti è motivata con l’amore. E l’invidia non è stima. La violenza alle spalle si auto assolve, crede in fondo di essere invisibile, è così che si concede di continuare. Non colpisce il tuo corpo ma il tuo nome, lo tocca fino a renderlo impronunciabile, lo sporca perfino ai tuoi occhi, nel tempo, in modo quasi irreparabile.

 

Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla​ #unite #rompiamoilsilenzio