Riconoscere il nostro stesso volto

Su "L'eredità del bosco" di Michela Zanarella
17 Settembre 2024

 

L'ultimo libro di Michela Zanarella, L'eredità del bosco (Macabor editore, 2023) è il movimento di un ritorno, un regressus a un tempo e a un luogo. Il tempo è quello della giovinezza, quando ancora si può essere tutto, quando nessuna scelta è tanto radicale da incamminarsi lungo un sentiero lasciandone altri alle spalle; il luogo è il bosco, e la montagna, e i cieli cari a chi scrive. I natali di Michela Zanarella sono infatti sorgenti e boschivi, nel Veneto, e sempre, quando ho la fortuna di ascoltarla parlare del suo paese di nascita, una grande invasione naturale fatta di animali selvatici e piante a me sconosciute, radicate in un nord Italia che solo può tenerle in vita, affolla la mente.

 

È straordinario leggere tra i versi di questo prezioso libro il movimento di doppio stupore della poetessa nel rievocare sulla pagina spazi e tempi ereditati, appunto, per nascita: vi è uno stupore che sgorga dal ricordare come fu che una volta, per quei paesaggi vivissimi, scorreva quiescente la vita – la vita prima della poesia, o la vita mentre la poesia andava maturando dentro l'incendiata coscienza della poeta – , e la meraviglia di chi si riappropria di quello stesso paesaggio che è divenuto, nel mentre, altro, come un'immagine cara veduta attraverso un prisma, inedita ma non per questo meno familiare.

 

Del resto, il rapporto tra i paesaggi, naturali o urbani che siano, e chi li abita, rispondono alle stesse leggi tra persone amate. In un'indimenticabile scritto dal titolo Roma (città che pure Zanarella ha eletto come suo orizzonte quotidiano, e nello specifico Monteverde, quartiere com'è noto di poeti – da Caproni a Pasolini, da Bertolucci a Sicari e Rodari), Natalia Ginzburg afferma quanto, dopo un lungo periodo di frequentazione con una città, subentri la noia del quotidiano; ma questo nulla toglie al bene che le si continua a volere. Una città è insieme quel che di lei abbiamo immaginato prima di giungervi, semplicemente sognandola, l'amore di cui l'abbiamo nutrita sostandovi, il fastidio che ne abbiamo provato dopo una lunga permanenza e la nostalgia struggente che ne proviamo quando l'abbiamo abbandonata.

 

Si è detto inizialmente che L'eredità del bosco è un ritorno al tempo della giovinezza, ma potrebbe essere un'affermazione fuorviante senza intenderci sulla natura, in quest'opera, del ricordo. A rivelarla è la stessa autrice che, ad esergo dell'ultima sezione (Memoria), forse la più commovente del libro, pone una frase di Octavio Paz: La memoria è un presente che non finisce mai di passare. Ecco di quale giovinezza, divenuta memoria, parliamo, di un momento che continuamente trascorre e continuamente resta, come le foreste e i corsi dei fiumi, come le montagne e i cieli. Accorta e raffinatissima regista del dintorno, Michela Zanarella fa in poesia quel che già era riuscito formidabilmente ad altri poeti “naturali”, a partire dagli elegiaci latini, vale a dire parlare con sentimento del sentimento della natura, e lo fa consapevole di partecipare delle stagioni e dei paesaggi ma ponendosi in una prospettiva che, a un tempo, pone l'occhio poetico dentro e fuori dalla scena. Tra il dentro e il fuori c'è il confine sul quale la poesia indugia, e solo da un posto simile, liminare, è possibile scorgere, insieme alle manifestazioni della terra e dei cieli (rami in fiore, cocci di tramonti, sentieri e sterrati, stelle velate di buio o tracce animali come spiriti dei boschi), i volti dei morti in trincea dentro la memoria.

 

Vorrei qui aprire una parentesi per dire che la poesia di Zanarella, e non a partire da questo libro ma senz'altro ancor più ne L'eredità del bosco, è coraggiosa nel panorama poetico contemporaneo: rischia il ridicolo con i professionisti della parola senza mai cadere in fallo, dimostrando quel che già aveva teorizzato Montale rispondendo alla domanda sul raggio tematico d'azione della poesia. Di cosa si deve occupare? Di tutto, dai cieli alle fogne. Così rari i poeti che oggi non si vergognano, tra linguaggi iper specialistici e innesti poetici da provetta (o da accademia), di chiamare le cose semplici con i loro semplici e incantevoli nomi: cielo, alba, sole, neve, pioggia... È, in sé, una piccola rivoluzione, io penso, come quel chiaro e memorabile titolo, Cuore, col quale Beppe Salvia sfidò la diffidenza di un certo gusto e di alcuni “schieramenti” che avrebbero prodotto più critici che poeti.

 

Quella operata da Michela Zanarella non è però un'indagine che investe unicamente la natura; dichiara, in un verso quasi sibillino – prima che tutto si dissolva in un ricordo / e diventi sguardo opaco / quasi schiuma che scompare in un riflesso – di voler riconoscere la faccia che avevo. In apertura della raccolta, ancora incontriamo la medesima espressione: C'è un'aria pura di montagna / che attende si essere amata e riconosciuta. Riconoscere, dunque, non rimembrare. La scelta del verbo è proverbiale, quasi come se ciò che un tempo ha rischiato di offuscare, o cancellare, lo si possa, più che ricordare, conoscere una volta ancora. E riconoscere il nostro stesso volto, sembra suggerire Zanarella in queste poesie (diremo allora di riconoscimento e canto teso) è il compito di tutta una vita e, forse, della poesia stessa.

 

L'eredità di un paesaggio interiore ricostruito attraverso il sentimento della lontananza – solo chi è nato a contatto con la natura sa il significato terribile e contraddittorio dell'inurbamento – sta tutta nell'aria, come una frequenza acustica che chiede di mettersi in ascolto:

 

(…) un tempo i pini cantavano la fede bianca

ora c'è malinconia di un candore sulle cortecce

mentre l'aria non sa più mentire

parla a voce alta di primavera.