Rebecca Garbin guarda la poesia come sua madre guarda la serpe nella breve prosa che apre questa silloge, con la sicurezza, la confidenza di una materia terribile ma affine. Pochi testi bastano per notare la particolarità di una voce che all'innata dote narrativa innesta la tensione del verso, il magnetismo di una propria metrica, una voce diventata rapidamente se stessa. Nell'esordio che sta prendendo forma sono sapientemente intrecciati luoghi, voci novecentesche, storie strane dal margine inascoltato, calando nella contemporaneità un esoterismo tutt'altro che ingenuo, un'immaginario rapace, e nascosta sul fondo della trama, una intransigente visione.
Isabella Leardini
Seguono alcune poesie tratte dalla silloge inedita "Il male minore", risultata vincitrice al premio poeti inediti Alma Mater Elena Violani Landi nel 2023. Si consiglia di leggere col telefono in orizzontale.
Una storia vera
In casa nostra ci abitavano gli altri. Si spostavano insieme ma senza toccarsi, camminavano soli. Passavamo ore a contemplare l'inclinazione delle pareti, la pendenza dei corridoi, la stortura delle scale. Diciassette gradini irregolari portavano da un piano all'altro e io ne saltavo sempre uno, per mandare via la sfortuna. La cascina si stringeva al fianco dell'Appennino, come a voler occupare meno spazio possibile. Dalle colline di arenaria piovevano conchiglie antichissime, la minaccia di una frana era sempre imminente. Eppure il casale, che non aveva un nome, se ne stava lì da ottant'anni e avrebbe potuto restarci per altri ottanta. Ogni stanza era illuminata per metà, e d'estate la luce si stringeva attorno alle finestre fino alle prime ore della sera. Poi restavamo al buio.
Il ceppo si contorceva nella stufa, e Stefania sapeva che non sarebbe stata felice. Da bambina non era cresciuta abbastanza, una vipera era solita farle visita nella culla: le stringeva il collo e le faceva vomitare il latte, solleticando il palato. Lei però non piangeva mai.
«Mamma, c'è un serpente sulla porta».
Arrotolata sul gradino, sembrava aspettare che qualcuno la lasciasse entrare. Credo sia questo il mio primo ricordo: la vipera sul gradino e mia madre che non aveva paura. Si conoscevano.
*
C'è l’osso di un corvo che cade dall'alba
che spacca la terra
e le arcate romane del torso—
ha chiuso l'abisso e cucito la bocca
ricomposto i corpi nell'orbita nera
dell'iride. È un processo lento che richiede
che tutti gli acquedotti siano asciutti
che i tuoi nervi siano dati all'inverno,
e che la vena sul polso sinistro
si fermi e liberi in mezzo alle mandorle
la sua forma spezzata. Forse allora
un Angelo concederà il perdono
supremo e sapremo che il tempo è materia
siederemo alla mensa dei re e delle mosche,
c'è un fossile nella finestra—
dalla casa
se ne sono andati tutti,
ma la porta l'hanno lasciata aperta.
*
Esercizi di autocontrollo
L'urto dei denti, uno schiaffo non basta
davanti allo specchio. Poi il segno sul braccio,
staccare la crosta sperando che resti.
Cucirsi la bocca stringendo i capelli tra i denti
—anche il tempo è materia che stringe lo scheletro—
e non mangiare nient’altro. È così che passo
da un buco di serratura a un altro.
Per fortuna non restano lividi, ho strati diversi di pelle
ogni corpo mi cambia la forma, la faccia.
Ogni cosa si trasforma—non posso
diventare qualcos'altro controvoglia.
*
Dedizione
A Maria Beruccini (1889-1913)
"Dedizione” è il titolo del monumento funebre a Maria Beruccini, situato al Cimitero Monumentale di Milano e realizzato da Piero Da Verona. Maria Beruccini, a Milano, è tristemente nota come “la fidanzatina”, a causa di leggende popolari che la vorrebbero suicida per amore. Non sappiamo quasi niente di lei: ci resta solo l’epitaffio enigmatico che recita: «non dite ad alcuno perché sono morta», voluto dalla famiglia per nascondere la causa del decesso, e qualche pensiero ispirato di poeti milanesi, forse folgorati dalla sensualità decadente della statua che la ritrae piuttosto che dalla data di morte riportata, peraltro in modo erroneo, sulla lapide. Ormai di Maria non rimangono neanche le ossa.
I.
Imitazione di un poeta innamorato
su un tema di John Donne
Strega scarlatta,
farai fuoco nel mio campo santo.
Amore, non sai ancora che servono
mani indifese per mietere spiriti e alzarsi
come l’edera s’alza su croci di pietra—
come quella moriamo e risorgiamo, noi
operatori del segreto.
Guarda più avanti, c’è un altro mistero,
chi sola è costretta a tacere può intendere.
Nel mio cimitero attorniato d’asfalto
una tomba ricorda davvero una donna-
c’è chi ancora innamora, anche dal marmo:
«Non dite ad alcuno perché sono morta»
e in questo ti agiti come avessi le ali
quasi scompari se dici il mio nome—
ragazza incendiaria, se anch’io fossi fiamma
potrei forse varcare da solo la soglia
e correre sempre incontro alla luce.
*
II.
Non cercare altra ragione, mi ha uccisa la stanchezza.
Non cercare di capirmi, oltre il peso della carne
di me non resta niente, non voglio resti niente
del mio corpo. Mangia pure i miei capelli,
le mie unghie, quanto ancora mi rimane di leggero.
Non importa
quel che diranno di me, tutto muore col tempo
anche quello che dice la gente.
Ogni cosa viva scava e lascia calce nella testa
la vena che trabocca sulla tempia si fa stretta
e stare sveglia è compilare un ricettario delle polveri
in ogni stanza di ogni albergo in cui mi fermo
e non riposo.
Dopo vent'anni di erosione mi è impossibile tornare
risalire la scala di casa, se ogni passo consuma i gradini.
Tutto andrà bene e andrà bene anche senza di me
ma non dire ad alcuno perché sono morta,
non lo so nemmeno io.
Si dice che chi muore lasci briciole sul ciglio della terra
avanzi di luce per gli uccelli.
Adesso mi guardano tutti
come avessi ingoiato il sole.
Foto di Francesca Romano