Questo è il posto dal quale vi scrivo

Un'estetica della cameretta da Petrarca a Carmen Gallo
3 Agosto 2025

 

 

Un gatto aiuta il risveglio

arriva in fretta da stanze

perdute nel freddo, quando apro

la porta della mia camera,

più calda, più vissuta

dove oggetti disparati

sono la delizia per lui.

 

Miagola basso per farsi aprire

se io distratto penso al nulla

o al giorno da affrontare

    senza forze ulteriori

- Dario Bellezza, da Gatti e altro (1993)

 

I. O CAMERETTA, O LETTICCIUOLO

 

La fondazione di un genere lirico nella letteratura italiana che si basi sull’autocoscienza anche psicologica individuale - sul valore effettivo di un Io lirico in quanto tale, insomma, non necessariamente vincolato a occasioni politiche o largamente morali - passa per due invocazioni unite: una alla cameretta («O cameretta che già fosti un porto / a le gravi tempeste mie diurne») e una al proprio letto («O letticiuol che requie eri et conforto / in tanti affanni»). E che Petrarca parli di ciò e si chieda «di che dogliose urne» l’amore bagni ciò che all’epoca sarà potuto passare per lenzuola e materasso non apparirebbe poi tanto diverso da quello che Olga Campofreda racconta in Camerette (Einaudi, 2023) della sua esperienza al Museum of Youth Culture di Londra, dove nel 2021 è stata installata la riproduzione di una stereotipica cameretta di fine anni ’90:

 

Entrando sono stata invasa da una grande ondata di entusiasmo: mi sono buttata su quel letto che è stato tutti i nostri letti adolescenti e in un solo attimo – come in un aleph – mi sono trovata a sognare il grande amore a occhi aperti per poi piangerlo subito dopo, faccia contro il cuscino; in quel luogo sospeso e contratto mi sono chiesta come mai gli adulti non capissero che la musica è davvero la cosa più importante del mondo, che certi versi ti stracciano l’anima e te la ricuciono storta ma giusta, come una poesia, e poi sono stata stanca, stanca di non sapere quello che volevo e saperlo fin troppo bene al tempo stesso, innamorata di Dexter Holland, innamorata di Chris Cornell, innamorata di Kurt Cobain, innamorata di Pacey Witter in Dawson’s Creek, innamorata del ragazzo che avevo conosciuto in fila ai provini per Amici di Maria De Filippi, quando ci ho accompagnato mio cugino Daniele nella sua fase breakdance, forse anche un pochino innamorata di quella compagna di scuola, e però di questo non c’è scritto nulla sui giornalini, allora meglio lasciarsela passare, forse mi sono sbagliata, forse ho confuso.

 

Di diverso c’è però tanto, e che passa per la storia della dialettica tra pubblico e privato, tra attivo e contemplativo, e per quella della possibilità di rivendicazione di un’identità personale, di classe e genere. È senz’altro vero che, anche per la forza del modello petrarchesco, quello della cameretta è rimasto nei secoli un topos letterario piuttosto standardizzato: soprattutto nella sua versione mista allo studiolo - e quindi nell’unione tra letto e scrivania -, si può riassumere in modo evidente come il luogo del raccoglimento individuale volto alla scrittura e al contempo - o forse in funzione di ciò - come luogo di passaggio rispetto ad un aldilà, sia questo il mondo dei sogni attraverso cui ogni mattina si passa o quello degli spiriti antichi con cui idealmente in letteratura si comunicherebbe. Penso, ad esempio, all’arcinota lettera di Machiavelli al Vettori - arcinota e quindi di modello -, ma anche al Manganelli del Discorso sulle difficoltà di comunicare coi morti (pubblicato sul «Menabò» nel 1965 e poi raccolto in Agli dei ulteriori, Einaudi, 1972): «io, riandando nella mente certe antiche storie, m’immaginai fosse il loro mondo a noi vicinissimo, ma racchiuso in luogo angusto […]. Quello, dunque, è il recapito dei morti? Ed erano i defunti così esigui da capir tutti in quella breve stanza?». È per questo che l’operazione di comunicazione coi morti “per manierismo” - ovverosia adottandone in prima persona il linguaggio - che Michele Mari allestisce nel non casualmente intitolato Dalla cripta (Einaudi, 2019) si compie anche con un testo del genere:

 

O cameretta, che già fosti un porto

al corso di mia chiusa giovinezza,

intima pace e solida fortezza,

rifugio di penombra e mio conforto,

 

or dopo immensi giorni il sole è sorto

che perdere mi fa la tua certezza,

e vincere non so la mia tristezza

poi che m’accorgo che quel tempo è morto.

 

O cameretta, dolce mia prigione

che mi avvolgesti morbida e sicura

come la buona terra avvolge il seme,

 

altro orizzonte ho adesso, altra visione,

ma finché il tempo e la memoria dura

noi nel mio spirto rimarremo insieme.
 

Allo stesso modo, la particolare situazione di Elisa, la protagonista di Menzogna e sortilegio di Elsa Morante (Einaudi, 1948), ovvero il suo ruolo di febbricitante “copista” del romanzo familiare che gli spiriti dei defunti le dettano, ha come punto di partenza e anzi centro una cameretta da “sepolta viva” o degente, «un territorio nel quale mi fu sempre concesso di regnare indisturbata […]. Chi la veda, può supporre ancora oggi ch’essa appartenga a una bambina ordinata, molto studiosa e amante della lettura» e in cui «come se il tempo della scuola fosse tornato, io, levatami dal letto, mi siedo al tavolino, e tendo l’orecchio all’impercettibile bisbiglio della mia memoria. La quale, recitando i miei ricordi e sogni della notte, mi detta le pagine della nostra cronaca passata; ed io, come una fedele segretaria, scrivo». Pur nella sua natura di romanzo della claustrofobia, però, è proprio da Menzogna e sortilegio che partono le radici del valore contemporaneo della cameretta: così come la storia di Elisa è quella di chi via via assume autonomia e responsabilità rispetto al racconto impostole, passando da copista a scrittrice vera e propria e dunque conquistando come realmente privato lo spazio della propria stanza, la camera da letto-studio è adesso innanzitutto lo spazio circoscritto e onnicomprensivo del proprio racconto identitario, ritagliato a partire da uno spazio altrui, di dipendenza. Resta insomma uno spazio di produzione di discorso, ma ciò che cambia - ciò che è davvero contemporaneo - è lo statuto di questa produzione, la postura. Per il solo fatto di avere davanti questo intervento, chi legge queste righe con tutta probabilità avrà (o ancora meglio sarà in) uno spazio grossomodo tutto per sé, tappezzato dei suoi poster e amuleti e libri, col suo personale tavolo di lettura e scrittura, magari accanto o davanti al letto. Magari, ancora e allora, questo è anche il suo spazio di comunicazione - dove avrà il suo PC, ad esempio -, di estroflessione nel mondo professionale e letterario (anche in maniera totalizzante: penso non poco agli anni del COVID, ma penso pure a quanti vlog e ora storie e reel si sono prodotti e producono dalle proprie stanzette, e con quanti chi scrive e chi legge si sono format*), e di accesso ad altri e altrettanto chiusi spazi virtuali, dalle chat-room alle pareti virtuali di Pinterest. In ogni caso, quindi, «la tua camera […] fatta di quattro pareti illuminate al centro da una lampadina», in cui «all’interno c’è tutto quello che possiedi», per citare Adam White (Ninties kids in their bedroom, in «Huck», 2016). Il tuo spazio di totale raccoglimento e dispersione. Credo fermamente che un dato del genere - creazione di identità e spazio produttivo - non possa essere “muto” in letteratura, e che anzi si traduca in precise scelte tematiche e formali che, quindi, risulta fondamentale per capire un periodo storico. Anche il nostro. Se tutt* siamo cresciut* e abbiamo lavorato in una cameretta di un certo tipo e - aggiungo - con un certo rapporto con internet, insomma, qualcosa vorrà - letteralmente - dire. 

 

II. «L'INTERNO DELLA MIA CAMERA DESERTA»

 

C’è però un passaggio intermedio da fare, e che forse motiva ulteriormente il dato “contemporaneo” di una simile inchiesta. Che la cameretta sia uno spazio sia privato che di formazione, e soprattutto durante la fase dell’adolescenza, è fatto recentissimo, oltre che non pacifico. Qui una delle differenze cruciali tra quella di Petrarca e quella sperimentata da Campofreda da cui partivamo: come spiegato da Luca Molinari in Stanze; Abitare il desiderio (Nottetempo, 2024), ancora fino all’Ottocento la camera da letto - stante il ruolo strettamente operativo dello studio - era in realtà luogo assolutamente pubblico, di condivisione quando non di spettacolo, e basterà pensare ai tutto esaurito della routine di Luigi XIV. Rinfrescandoci allora la memoria delle lezioni liceali, ricorderemo pure che il Canzoniere di Petrarca è, ed anche per legami testuali, la traduzione lirica e il proseguimento del Secretum, ovverosia di un’opera notoriamente definita come “teatro dell’anima”. Il punto è proprio questo: il pianto di dolore e amore nel suo letto che viene raccontato non è affatto una confidenza, un momento d’introspezione trascritto e poi letto da noi in un secondo momento come su di una sorta di diario poco segreto, bensì un gesto drammatico plateale, che presuppone un pubblico che guardi e giudichi. Il «voi» che ascolta il suono delle «rime sparse» lo ascolta e non legge, appunto, ed è quindi immaginato come una giuria, non certo come un destinatario, e in uno spazio che è scenografico, non certo privato. È questo il senso di una cameretta intesa anche come «porto»: luogo di ritorno dalle «tempeste» della giornata, ma anche e soprattutto luogo di partenza, della già citata estroflessione comunicativa e spaziale, ma anche del costante arrivo altrui. Con Petrarca non abbiamo per nulla il ruolo di voyeur nel cuore e negli ambienti di un individuo, ma siamo anzi chiamat* e in massa ad accorrere e osservare. E c’è di più: la particolarità di questo scenario, quando descritto, sta proprio nel suo essere totalizzante sia spazialmente che per l’attenzione dell* spettator*. Proprio come in una location teatrale, per il tempo della fruizione del testo o della sua esecuzione attorno si fanno il buio e il nulla, c’è un occhio - non di bue ma umano - su chi recita il monologo, non si potrebbe essere che in quel luogo lì; e non è quindi casuale la mole di turismo attorno a un set così riconoscibile e caratterizzato, non poi diverso dal ruolo delle vallate della Nuova Zelanda o le spiagge del Pembrokeshire per i fan del Signore degli Anelli o di Harry Potter. È, a pensarci, anche un caso molto distante dall’altro - pur petrarchesco - “poeta nella cameretta” del canone letterario: il Leopardi delle «quiete stanze» e della scrivania piena di «sudate carte» di A Silvia, dove però nulla della camera si dice e in effetti, visto quanto forte è il richiamo del fuori - la voce della Fattorini, il «lontano» del «ciel sereno», delle «vie dorate e gli orti», del «mar da lungi, e quindi il monte» - poco interessa a chi scrive e a chi legge. Non per questo la cameretta è però meno un porto. Anzi: come ricorda Molinari, è già dal Settecento che ha inizio, in Francia e da un non casualmente esiliato come Xavier de Maistre, una ricca tradizione di “viaggi intorno alla propria stanza”, la «moda di narrare il mondo partendo da spazi molto contenuti, come la camera da letto, il camino, la scrivania o addirittura le proprie tasche». Tutto il possibile giustapposto in quattro pareti, insomma, e un contrasto tra la reclusione nel dentro e il richiamo del fuori: elementi che vedremo ritornare in tempi decisamente non sospetti. In ogni caso, la rivendicazione del contemporaneo è allora quella del privato in quanto tale, sia nell’esistenza di un luogo sostanzialmente privato e «in cui è ammesso solo il desiderio», sia nella dignità di una sua rappresentazione, fruibile da chi legge solo in absentia, con la separazione data dall’effettiva quarta parete del foglio. È una rivendicazione che può assumere tratti totalizzanti, che passano dal progetto artistico di un «santuario improfanabile» che «non dovrebbe avere una porta sulle sale comuni» di Adolf Loos a inizio Novecento fino all’ampia varietà degli attuali fenomeni di shut-in o hikikomori. 

 

È però anche una rivendicazione che coesiste con una forza uguale e contraria: l* reclus* del XXI secolo non sono eremit*, hanno bensì a disposizione un perenne spazio di navigazione, quello di internet, e la loro privatizzazione dello spazio coincide perciò con una paradossale estremizzazione della propria “collettivizzazione”. «Ansia e depressione sono solo alcune delle dinamiche che contribuiscono a tenere milioni di persone «ostaggio» delle piattaforme. Una volta caduti nel vortice, si finisce nella caverna: soli davanti agli schermi produciamo dati senza sosta, anche quando non ne siamo coscienti», spiega Valentina Tanni in Exit reality (Nero, 2023), aggiungendo che «al centro della nostra esperienza del mondo non c’è più un nucleo caldo e fermo che ci tiene ancorati al mondo, ma un portale sempre aperto che invita a perdersi nello spazio freddo e cangiante dei dati». Nonostante l’invenzione di un privato reale, la cameretta si conferma come soglia per un mondo altro, come porto del pubblico, ma la conferma non è una permanenza: è proprio il riconoscimento di una differenza tra privato e collettivo, e della possibilità pur non realizzata di un sistema di barriere, che può far da base per una tematizzazione e una dialettica prima impossibili. La produzione di discorso diventa una questione di scelta o imposizione, non più un dato neutro, ed è del resto questa la parabola già al centro di Menzogna e sortilegio, che pure parte da una condizione di assoluta teatralità e condivisione dello spazio per rimarcare la mancanza di emancipazione di Elisa, di cui però si preannuncia la rivincita: 

 

Voi, Morti, magnifici ospiti, m’accogliete

nelle vostre magioni regali,

i vostri miniati volumi

sfogliate graziosamente per me.

 

Lo so: io, donna sciocca e barbara,

non altro che suddita e ancella a voi sono.

Ma pure il nastro d’oro delle vostre

imprese, e arroganti amori,

orna la mia fronte servile,

o Sultani infingardi.

 

Altro io non sono che pronuba ape

fra voi, fiori straordinari e occulti.

Ma sulle effimere mie elitre

pur vaga una traccia rimane

del vostro polline celeste.

E il vostro miele

è tutto mio!

 

(Ai personaggi, poi in Alibi, Longanesi, 1958)

 

Ma quella della cameretta non è solo una dialettica tra pubblico e privato. Anzi, all’invenzione della cameretta contemporanea se ne somma una seconda: quella dell’adolescenza, concetto prima assunto dalla cultura americana nel dopoguerra e poi effettivamente maturato con le lotte studentesche del ‘68. Prima di allora, come ricorda Campofreda, «tornando ai vecchi album di fotografie dei miei nonni, ho notato una cosa nelle loro espressioni serie, nei loro vestiti compiti. Era come se fossero stati uomini e donne in potenza, non tanto giovani quanto adulti non ancora compiuti del tutto». Non era ancora contemplato un ruolo “non adulto” - e cioè non produttivo economicamente o politicamente - nella società, o quantomeno non ne esisteva un quadro teorico, lo statuto di un’esistenza ancora privata. Esisteva però, e proprio con l’invenzione borghese della privacy e della camera da letto «inviolabile», lo statuto di uno spazio già privato, estraneo ai fatti della storia. È proprio da questa situazione, evidente quanto priva di strumenti cognitivi, che nasce il dissidio al centro di un’opera come Dal diario (1945-1947) (Salvatore Sciascia, 1954) di Pier Paolo Pasolini. Sicuramente un primo elemento notevole è l’occasione della raccolta, e cioè l’effettiva trascrizione in versi dei diari giovanili, ma il dato cruciale è un altro: il malessere del giovane protagonista - all’epoca poco più che ventenne -, nodo dell’intera raccolta, anzi suo unico argomento, è il malessere di chi, isolato nel suo spazio personale, coglie la durezza dell’assenza di uno spazio esistenziale, diventate claustrofobiche le consuetudini dell’infanzia e restando imperscrutabili gli orizzonti della vita adulta, collettiva. Ventottenne, Vittorio Sereni percepiva già in Frontiera (Edizioni di «Corrente», 1941) un disagio simile (ad esempio in Compleanno: «Maturità di foglie, arco di lago / altro evo mi spieghi lucente, / in una strada senza vento inoltri / la giovinezza che non trova scampo». Ma pure, parlando di porti, in Inverno a Luino: «sa la gente del porto quanto è vana / la difesa dei limpidi giorni»), poi proseguito (si legga Città di notte: «mentre tu dormi e forse / qualcuno muore nelle alte stanze»; oppure Non sa più nulla: «io sono morto / alla guerra e alla pace») nel Diario d’Algeria (Vallecchi, 1947), ma con una differenza fondamentale: quello del frontaliero è il disagio di chi un fuori in verità lo vede, e soffre non sentendosene parte, e lo stesso dicasi di quello che traspare dal Diario, quaderno di un’effettiva prigionia, di un’effettiva reclusione in una camera di carcere dalla quale si percepisce chiaramente di che storia, di che collettività si sarebbe potuto far parte. L’orizzonte del diario pasoliniano è invece quello di chi ossessivamente «fanciullo» e «adolescente», nonostante l’evidente vecchiezza e anzi ricorsività della realtà attorno a sé (a chi legge basterà fare un conteggio dell’uso spasmodico degli aggettivi ‘vecchio’ e ‘antico’ o dell’avverbio ‘sempre’), può solo attendere qualcosa che non conosce e dunque non immagina, in definitiva “non vivere” («Arde una primavera senza vita. / Annoiato, o sconvolto, io ne scrivo / sui fogli dove candida persiste / la mia invecchiata adolescenza»): 

 

Per i cigli assolati e il consueto

silenzio della candida campagna

cullo una solitudine mortale

nel mortale mattino; che da sempre

imbianca col suo lume i vivi campi.

Ma in quel lume monotono (o io sogno)

scorre un filo di vento; e accende oro

tra le fronde di frassini remoti.

Che cosa attendo? Nulla che non sia

in questo spazio aperto a cui sono volto,

questo esteso deserto, questo lume

fuori di me, tutto il mio sogno, fino,

non oltre, l'orizzonte... Tutto è muto.

Grida un fanciullo, sogno?, grida o canta,

grida nei muti campi, sono vivo,

grida un fanciullo.

 

*

 

Vicina agli occhi e ai capelli sciolti 

sopra la fronte, tu piccola luce, 

distratta arrossi le mie carte.

Adolescente ardevo fino a notte 

col tuo smunto chiarore, ed era strano 

udire il vento e gl'isolati grilli. 

Allora, nelle stanze, smemorati 

dormivano i parenti, e mio fratello 

oltre un sottile muro era disteso. 

Ora dove egli sia tu, rossa luce, 

non dici, eppure illumini; e sospira 

per le campagne inanimate il grillo; 

e mia madre si pettina allo specchio, 

usanza antica come la tua luce, 

pensando a quel suo figlio senza vita.

 

Non sentendosi parte di nulla, non riconoscendosi, l’unico spazio possibile è quello di un privato desolantemente vuoto, silenziosissimo, in cui ogni tipo di contatto con l’esterno sembra un miraggio o comunque qualcosa di irraggiungibile. In cui anche le presenze fisiche non emettono suoni, neppure interagiscono. Anche lo spazio più aperto, quello del campo - spazio generalmente della collettività e del lavoro -, non è che un’estensione di quello ermeticamente chiuso della cameretta, l’unico luogo di una qualche operosità tuttavia sterile: studio che non trova interlocuzione, amore che in realtà è masturbazione. E in effetti non è sorprendente: il campo è uno spazio solo apparentemente aperto, che in realtà ha nella sua stessa definizione l’essere una proprietà perimetrata e - appunto - privata, e non è allora un caso che l’ideale di camera inaccessibile di Loos sia una camera-prato, né che la riflessione sulle forme chiuse della prosa in prosa di Andrea Inglese parta dalla costruzione di Prati (ora in “extended version” per Tic, 2025). In assenza di un valore strettamente personale, insomma, l’unica identità possibile è quella dello spazio che si occupa. La cosa vale per il proprio ruolo nella società ma, in mancanza di quello, vale anche qui: l’identità di Pasolini e il suo unico orizzonte sono quelli della sua stanza e della forma - chiusa, petrarchescamente ossessionata da un ristrettissimo ventaglio di elementi (campi e cielo vuoti, suoni lontani e soprattutto grilli, la famigerata stanza, il nesso primavera-adolescenza) e quindi claustrofobica - che la rappresenta. La cameretta non è neanche un porto, è solo il suo inquilino:

 

Sospeso allora ascolto dei miei passi 

il fresco suono, alzandomi; ma indugio 

alle squallide imposte suggellate. 

(In quell'aria meravigliosa il vergine 

lume trapela? e con tale tristezza?) 

Apro incerto il balcone: il cielo imprime 

un silenzio sidereo sopra i campi.

 

Poi... se i sensi non errano, è un remoto 

casto autocarro che disfiora appena, 

ai desolati margini, il silenzio.

E il rombo incantevole dilegua.

Ed io mi trovo ancora chino sui miei fogli?

Ah disperante immagine, ah certezza 

di non essere altri che un apparso 

alla luce...  

 

*

 

La luna patina di rosei muschi 

l'interno della mia camera deserta, 

il letto impuro, e tiepide penombre 

di gemme venano la fragile aria. 

Poi due voci, sorte appena, dileguano 

in repressi sospiri... e in risa, anche, 

in risa intricate dentro la bruna 

atmosfera, nel tepore notturno.

Dietro le siepi, appoggiati a un tronco, 

forse due giovinetti empiono gai 

questo tremendo spazio che la dolce 

primavera riapre.

 

*

 

La mia camera ha incanti di palmizio. 

Il candido letto disordinato, 

i quaderni innocenti: la presenza 

in me di questa fisica allegrezza 

che è la vita che si vive sola.

 

Poi passeri si sparpagliano come 

confuse farfalle; la terra, al sole, 

appassionata e indifferente...

 

E tra le vigne roventi di sole 

e gli intonachi accesi delle case, 

un invasato suono di campana.

 

*

 

Oh accorate pause dell'usignolo 

piene dei freschi stridi delle rondini! 

Guardo la mia immagine sul marcio 

letto, e l'immagine innocente 

che mi abbraccia... Mi accalora 

solo la nostalgia del peccato...

 

E nell'interno della morta casa 

di Casarsa, sorridi tu, o Cosciente, 

e nel tuo sguardo fisso, di maniaco, 

io leggo la mia storia. Ecco qui 

la stanza, tomba dei tepori e delle 

tetre solitudini del mio corpo; 

lo specchio dove guardo, intenditore, 

gli scorci del mio viso; il letto senza 

fantasmi, nudo, a cui la nuda luce 

dà candori di gesso, e che il tuo riso 

sospende nel passato.

 

Si tratta di un paradosso solo apparente. Costruendo la rappresentazione del suo spazio, e dunque idealizzandolo, Pasolini costruisce e rivendica anche la sua identità - dello spazio correlativo - anche laddove storicamente inammissibile. Se, come spiega Campofreda, «lo spazio della cameretta si racconta come quello in cui diventa possibile tutto ciò che fuori non riusciamo (ancora?) a realizzare», allora è anche vero che il racconto che della cameretta viene fatto nel diario non è poi troppo diverso da quello che Tanni racconta per il formato dei meme This is where i post from: 

 

Praticando una radicale inversione di senso, il meme fa soltanto finta di svelare il dietro le quinte. Quello che fa, in realtà (oltre a giocare con le possibili implicazioni umoristiche del concetto) è aggiungere un ulteriore livello metaforico. Il luogo da cui si posta non è un posto fisico ma è ancora una volta un luogo mentale, la rappresentazione simbolica di uno stato emotivo o psicologico. È per questo che le immagini ritraggono spesso ambienti desolati, bui e poco confortevoli: il loro ruolo è trasmettere la vibe dell’utente, il suo stato interiore, racchiudendolo in una foto scelta con cura. 

 

Si crea, insomma, lo spazio della propria identità, e poi si crea la propria identità con lo spazio. Ancora Pasolini, stavolta nell’Appunto 67 di Petrolio (la cui ultima edizione è quella di Garzanti, 2022), dirà del resto che «ci sono delle cose – anche le più astratte o spirituali – che si vivono solo attraverso il corpo. Vissute attraverso un altro corpo non sono più le stesse». Ma il corpo è una stanza, e viceversa. Sicuramente, da questa frase - come esergo - partirà Michele Zaffarano per Wunderkammer; ovvero come ho imparato a leggere (in Prosa in prosa, Le Lettere, 2009).

 

III. «SOLO ADESSO SI SENTONO PIENE DELLA STANZA»

 

La scrittura di tutto quello che state leggendo nasce da una fissazione e da un’occasione. La prima: che la storia delle cosiddette scritture di ricerca sia in effetti una storia, se non direttamente di camere, quantomeno di edificazione di spazi perimetrati. Una breve rassegna di esempi: i già citati Prati di Inglese e le Wunderkammer di Zaffarano, che della perimetrazione e occupazione dello spazio si occuperà anche in Tre movimenti e una stasi (Tic, 2024); le soffocanti Thermae ([dia•foria, 2023) di Giulio Marzaioli; la fissazione per pareti, delimitazioni e più in generale geometriche descrizioni di luoghi in Oggettistica (Tic, 2024) di Marco Giovenale, pure autore de La casa esposta (Le Lettere, 2007);  il valore costruens del progetto di un mondo ricreato dopo un indicibile in Broggi a partire da Noi (Tic, 2021), o in fin dei conti già il solo tematizzare i veri e propri riquadri delle situazioni di Avventure minime (Transeuropa, 2014) o, in Protocolli (Tielleci, 2014), «l'atto o la proposta di posizionare, spostare, misurare, tagliare, incollare e giustapporre»; l’idea stessa di un macrotesto, in Gherardo Bortolotti, che racchiuda Tutte le camere d’albergo del mondo (Hopefulmonster, 2022), in cui ci «si attarda a pensare a tutte le epoche di se stesso di cui mancano i minimi reperti, di quante altre sorgeranno sull’oblio di quella che ora vive, qui in camera da letto» (da Portami a vedere la casa - 1040); oppure i «volumi cavi delle mie stanze» - ancora in Bortolotti - da dove l’Io di Romanzetto estivo (Tic, 2021), quasi cinquantenne, tappezza pagine su pagine di stereotipi sull’adolescenza estiva e le sue teleologie, prese di peso da film e album, insomma poster (e in cui pure ci sono «conversazioni quotidiane con me stesso e gli spettri che mi visitano presso gli uffici o le stanze del mio appartamento»). Sto andando a braccio e dimenticando senz’altro qualcosa, ma vale ancora per certi ultimissimi passaggi di Retriever (Tic, 2025) di June Scialpi, che a ben pensarci sembrano proprio rispondere al Pasolini di Petrolio, e quindi a Zaffarano:

 

La tapparella si sporge da fuori verso un’indagine della camera. Ripara dai segmenti inospitali, dalla luce dei fuochi, dai prati spenti. Denti e orecchie non hanno cambiato posto. La spirale chiusa è indicata da una mano – la mano è gelida al tatto. 

Nella stanza piangere è la ragione delle figure fantasmatiche, una processione che si compone vibrando movimento dopo movimento, scacciapensieri. Come farà a stare dietro? Come farà un corpo a recuperare. A stare dietro la storia che sta davanti, che è passata e che confronta. Anche nella storia ci sono i corpi, altri corpi. I corpi sono passati e rappresentano il passato ma nella stanza le figure non ne hanno. 

 

La mia domanda è: cosa unisce tutte queste scritture? Perché è la forma della cameretta a far parte del loro orizzonte comune? Una buona pista da cui partire mi sembra quella di Paolo Giovannetti, che ad esempio ne La poesia italiana degli anni Duemila (Carocci, 2017) - ma in verità in gran parte della sua ricerca - parla di questi libri di poesia come ‘istallazioni’, veri e propri spazi progettati per esistere materialmente, entrarci, manipolarli; qualcosa di non troppo diverso dall’operazione del Museum of Youth Culture da cui si partiva. Credo però ci sia anche un altro dato di fondo, e cioè quello anagrafico-culturale. Ovvero: tutt* quest* autor* hanno avuto ed hanno nel rapporto con internet - e soprattutto con la cultura dei blog - un passaggio fondamentale della loro formazione (pensiamo a «Gammm», a «Nazione Indiana», ora a «Slowforward»), cioè tutt* l’hanno avuto nel rapporto con la propria camera. È in effetti anche il rapporto con tutta una cultura editoriale - quella delle riviste per adolescenti, e cioè delle prime community, delle lettere inviate da giovani fan dalle loro stanze - che sarà ad esempio alla base di Fan club di Antonio Syxty (Tic, 2023); e non è, quindi, una questione secondaria. La storia di internet è di converso anche una storia delle camerette, che da fine millennio diventano, come spiegato da Campofreda, un «luogo multimediale». Questo significa due cose: da un lato che si tratta adesso dei luoghi di accesso per eccellenza al multimediale, le stanze nelle quali - chius* per ore - si è creata un’associazione netta anche d’immaginario con la navigazione in rete che arriva sino ai già citati hikikomori; dall’altro che - e proprio perché così strettamente collegate all’esperienza virtuale - danno al multimediale, e ne assumono, criteri formali. Come detto in precedenza, chat e blog funzionano anche lessicalmente per stanze più o meno private, e non è difficile tracciare il nesso tra le bacheche (o ancora meglio i wall) di MSN o di Pinterest o dei loro antesignani e una normale parete adolescenziale ricoperta di affiches: post e poster. Internet è insomma «una regione abitabile, dotata di permanenza e in continua espansione», citando Tanni, uno spazio “ritagliato” e dotato dei suoi sistemi di privatezza e delle sue porte d’accesso e finestre esattamente come qualsiasi altra camera. Vivere uno spazio così costruito, allora, ha riflessi anche all’inverso, e le camere reali diventano così veri e propri ipertesti «colmi di contenuti simbolici che raccontano di un pianeta sempre più piccolo», forme-wikipedia, per dire, e appunto forme di testo, criteri così applicabili alla scrittura. 

 

Criteri di oggettività, innanzitutto, o proprio d’enciclopedia. Se l’obiettivo primario della galassia di Prosa in prosa e dei suoi satelliti è quello di una scrittura “non assertiva”, ovvero depurata dallo stile personale e che rappresenti la realtà oggettiva senza sistemi di mediazione, e quindi giustapponendo in uno spazio chiuso e in costante espansione al contempo la gigantesca mole degli elementi che la compongono, è evidente che il funzionamento delle scritture di ricerca sia lo stesso da cui già nel 2001 partiva Wikipedia, e che in effetti struttura qualsivoglia browser (e non a caso il googlism o la “poesia cercata” e quindi vista oggettivamente, non “detta” - secondo Giovannetti l’adattamento poetico di una normale ricerca online - è pienamente parte del loro armamentario). Il risultato è quindi la creazione sulla pagina di spazi “massimalisti”, che cercano di includere tutto nei limiti geometrici a loro concessi; stanze - liriche quanto casalinghe - stracolme come lo sarebbe il mondo vero e proprio, stanze per quello che sono, non per l* loro inquilin*. Esattamente quello che succede per una bacheca online, creatrice di senso e osservabile a prescindere da chi la occupa in quanto spazio formalmente personale ma funzionalmente pubblico, a differenza della camera che la ispira, di una parete con ogni poster immaginabile, inaccessibile senza proprietar*. Un ottimo esempio è questo passaggio di Wunderkammer, di cui allego il puntuale commento che Bortolotti ha postato su «Nazione Indiana»:  

 

Le cose che cambiano e nulla è cambiato. Centinaia di fascine arrossiranno sulle tegole, i mattoni arrossiranno sotto gli occhi di un padrone morente, il fuoco che brilla ancora in gola, ed è un rito lontano, che porta lontano. E bruciano le trame sottili, l’argilla sul fondo del mare, e il tufo che aspetta, che sonda un piccolo sospetto, come il crisocione, il cane dorato, che non vive in branchi. Si va da lavori complessi con i nastri e con il sughero, alla cera d’api, ai vasi. Macerare i fiori per un paio d’ore, chiudere la pomata e gli oli essenziali per qualche giorno, dopo qualche giorno rimangono gli oli, l’elicriso, della famiglia delle Asteraceae, l’anice stellato, il cardamomo, la cannella, l’incenso, poi il fissante, la radice di giaggiolo, e, finalmente, dopo tanti lavori, ai bambini si mostra un amaro sapore. Varrà questa pena, le pene de lo inferno, che più s’impregna e che più lo s’indurisce. Ovvero le valli felici, se le ultime vicende avete seguito.

 

(11)

 

Gherardo Bortolotti: […] non c’è una frase subordinabile ad un’altra, non c’è modulazione, non c’è teleologia. Il soggetto è continuamente ritardato, il senso subisce una continua riformulazione, una posposizione ininterrotta eppure (o meglio: proprio perché) il significato di ogni periodo è ineludibile e irresolubile. Per riprendere un paragone fatto ai tempi da Zaffarano medesimo, è come se avessero preso la casa dei fantasmi, quella che sta un po’ isolata e di fronte a cui tutti passano con timore, l’avessero fatta a pezzi, dissacrata, dispersa, ed eppure i singoli mattoni, le tegole, le intelaiature delle finestre continuassero a pulsare di una vibrazione sinistra, arcana.

 

Ma l’altro criterio formale è, paradossalmente, quello del soggettivo. Qui, allora, l’occasione di questa scrittura: la pubblicazione per La vita felice di Stanze per una fuga (2025) di Carmen Gallo, consuntivo di dieci anni di attività autoriale e dunque insieme di tre raccolte, ovvero - e a ritroso - Le fuggitive (Aragno, 2020), Appartamenti o stanze (Edizioni d’If, 2016) e Paura degli occhi (L’arcolaio, 2014). Al di là dell’evidenza dei titoli, è proprio la stanza - o comunque un generico spazio sigillato da quattro pareti, dall’appartamento alla teca di museo - a fare qui da cruciale trait d’union tematico, e appunto una stanza funzionale alla fuga. Anzi, sta nella fuga il valore ultimo della cameretta così come dell’ipertesto e dunque, giocoforza, della camera-ipertesto. Costruire uno spazio del genere - riprendendo quanto visto con Pasolini - non è infatti soltanto mettere assieme una realtà oggettiva, ma anche affermare almeno idealmente un’identità che prescinda dallo spazio circostante, rivendicare un programma di sé che passi anche dal gesto autoriale di giustapporre, e a strettissimo contatto, degli elementi. Nella wunderkammer di Zaffarano il soggetto sarà pure «continuamente ritardato», ma a monte, fuori o anzi in un dentro più interno, è proprio lui a programmare la stanza, a scegliere cosa cercare, in che ordine disporlo. Insomma, e riprendo Campofreda: «cameretta come specchio delle nostre interiorità, ma anche l’illusione che sarebbe bastata una passata di vernice e una selezione di immagini nuove per farci sentire più maturi o anche solo banalmente diversi», proiezione, produzione di discorso, edificazione - letterale - di un io. Ma le stanze sono anche costruite dall* altri*, e ci si abita pure controvoglia; le stanze sono pure per propria natura spazi chiusi, male in accordo con la libertà di autodeterminazione di un soggetto; eppure reclusione ed espressione coesistono. E se questa - come detto - è la dialettica veramente contemporanea attorno allo statuto della cameretta, allora le stanze di Carmen Gallo non possono che risultare quelle di una millenial, per motivo intimo e per esito. Leggiamo alcuni passaggi:

 

Siamo in un sogno, in un corridoio, in una casa in affitto. Siamo appena tornate da scuola. Nessuno ci vede. Lei è lì, indifesa. Ha preso qualcosa, blatera qualcosa, si è infilata da sola la flebo. Noi la tiriamo giù dal letto per i piedi, una gamba per una, la trasciniamo avanti e indietro, poi intorno al tavolo della cucina. I suoi capelli disegnano un cerchio. Con le mani cerca di afferrare i mobili, le sedie, ma è troppo debole, sbatte dappertutto, sbatte la testa, noi invece siamo forti, siamo fortissime.

 

(da Le fuggitive)

 

*

 

L’uomo è rientrato in casa

rompendo il vetro con il gomito.

Ha sistemato i tavoli e ha preparato un caffè

alle donne che dormono in un angolo.

Appena sveglie hanno raccontato

la storia dell’uomo accuratamente lacerato.

L’uomo ha fatto a pezzi il giornale

e ha pianto. Le donne hanno urlato

e sono diventate piccolissime.

L’uomo le sistema una sopra l’altra

e chiude la porta della stanza.

La donna bianca sente le voci

ma non distingue i giorni.

Quando arriva nella stanza

le donne tornano grandi e urlano più forte.

Noi le chiudiamo tutte a chiave

e non si sente più nessun rumore.

 

*

 

La donna è tornata a trovarci e ci ha chiesto di sparire. Non vuole più ascoltare le storie che raccontiamo. Noi proviamo a toccarla e a baciarla, ma lei è minuscola al centro della stanza e non riusciamo più a raggiungerla.

 

(da Appartamenti o stanze)

 

*

 

Affidare al soffitto

i nervi stretti nelle gambe

le caviglie da incorniciare

vedersele rubare

per un salto oltre l’asfalto

nel ricovero sbiadito

la tua voce separata

non aveva mai fretta

l’eco rincorreva

solo me, che non avevo che questo

di tempo finito

e la stanza in fondo alla strada

e noi stipati negli angoli degli occhi

il freddo ci segnava le labbra

tra risa di altre schiene schierate

io mi tenevo le scapole

a braccia incrociate

e ritentavo il passo, l’avanzare

tu restavi, immobile e incompleto

a rinominare la mia figura scomposta

a raccontare il male come se fosse vero

con le mani strette sugli occhi

ho difeso tutto ciò che esiste

ma tu ancora tagliavi

più a fondo della luce

 

(da Paura degli occhi)

 

Il valore che la cameretta assume, fin dalla nota d’apertura di Appartamenti o stanze, è del tutto ambiguo. «Nei primi componimenti siamo noi a descrivere i personaggi. Noi siamo la terza persona. Quando non riusciamo più a vedere cosa succede, diventiamo una prima persona plurale, ma dura poco. Nell’ultimo componimento c’è una donna che parla in prima persona […]. L’ultima voce è la sua»: e allora la stanza è, di volta in volta, luogo di prigionia e di abuso, luogo di nascondimento ma dunque anche di annullamento identitario (in questo senso il discorso prosegue in Tecniche di nascondimento per adulti; Italo Svevo, 2024), luogo di rifugio e salvaguardia perché edificato da sé, spostando tutto a piacimento. Luogo di solitudine estrema, pure, o invece di ospiti sgraditi o graditi, di osservator* spettrali che, però, costituiscono a loro volta le pareti della camera, dettano cosa l’io sia; proprio come avveniva in Morante. Anzi, è proprio l’atto del costruire ad essere spesso centrale, con dislocazioni di mobili a fare spazio, ingrandimenti e restringimenti, mattonelle sollevate, vetri infranti: si avverte e chiaramente la chiusura dello spazio, e si cerca di resistergli come si può. L’oggettività, il “tu sei così”, sta strettissimo. «Secondo uno studio di Angela McRobbie e Jenny Graber, pioniere della bedroom culture, la conquista delle camerette come spazio autonomo rispetto al resto della casa è stata un fenomeno prima di tutto femminile», dice ancora Campofreda, e pure giustamente Virginia Woolf rivendicava una stanza tutta per sé, la possibilità di produzione di un proprio discorso, ma ciò non vuol dire che non ci sia bisogno del fuori o che in stanza, per un motivo o per un altro, non si possa restar chius*. La stanza può essere uno spazio programmatico, ma non un sostituto. Creata l’identità con lo spazio, ora si può uscire e rivendicarla come finalmente possibile, ed è proprio questo conflitto tra apertura e chiusura ad essere secondo me il punto più importante di tutta la produzione di Gallo: 

 

un nuovo ordine di calamità
che invada lento le case
colpisca i piedi dei tavoli, poi le sedie
sollevi mattonelle un millimetro al giorno
solo dalle schegge, minuscole, sul pavimento
indovineresti il taglio vivo smarginato
ancora estranea io, a ogni assestamento
di giorno diresti che è solo vento
tutti i vetri che ci parlano
nella notte non si contano
le montagne che vedevi e che di colpo
scompaiono.

 

(scompaiono, da Appartamenti o stanze)

 

Ancora: la cameretta può adesso certamente essere un porto, e cioè luogo di partenza e di arrivo, di affollamento o isolamento, di teatralità o di riflessione. Ciò che muta, però, è la sua conquista, il controllo delle sue soglie, il nome che gli viene dato. Da palcoscenico a spazio privo di inquilin* compatibili con la sua natura fino a diventare riassunto di un mondo e anzi unico costante accesso ad esso, ma anche manifesto di sé anche quando non visibile - anzi sbattendo tutt* fuori, col keep out -: ciò che prima era tappa è adesso convergenza, ancora ipertesto e voce enciclopedica sotto un lemma. La possibilità di costruire e rappresentare una cameretta è la possibilità contemporanea di costruire e rappresentare sé e il testo, ritagliare la propria casella vuota dallo spazio letterario e sociale e davvero la propria, quella che non esiste se non per noi. This is where I post from: proprio io, proprio questo; dirvelo e - adesso - poterlo capire.

 

 

 

Luigi Riccio è nato nel 2000 a Napoli, dove si è laureato in Filologia moderna sull’opera di Corrado Govoni e – alla Scuola Superiore Meridionale – in Testi, tradizioni e culture del libro. Collabora dal 2021 con il semestrale «Aura» – dove si è occupato di Elio Pagliarani, Elsa Morante, Vittorio Sereni e poesia postrema –, dal 2022 con l’Osservatorio sul romanzo contemporaneo dell’Università di Napoli e dal 2024 è redattore di «Inverso». Ha pubblicato Nel Folto (Nulla Die, 2023) e sono disponibili su pubblicazioni italiane e straniere, tra cui il volume 28 di «Poesia» di Crocetti e Vallecchi Poesia, frammenti del progetto Ovologio.