Oscillate Wildly - sulla variazione

12 Febbraio 2023

​Il titolo con cui Amelia Rosselli pubblica il suo primo libro vero e proprio è Variazioni Belliche, che nel 1963 viene alla luce presso Garzanti. Si tratta di un nome emblematico, che racchiude in sé una poetica ben precisa: tanto in poesia quanto in musica, la variazione rappresenta un dispositivo artistico efficace quanto politico. Non mi propongo, qui, di analizzare la raccolta presa in considerazione, quanto di tentare di chiarificare l’utilizzo di questo strumento.

La variazione è la riproposizione in forme e contesti differenti della stessa unità semantica; un’unità può essere rappresentata da una congiunzione, una frase o un verso intero, a seconda del sistema di significato che agisce all’interno di una composizione. Un sistema è una rete di analogie, rimandi espliciti e contrasti che agisce in una poesia, mettendone in moto i rapporti tra le unità. Ciò che solitamente si nota, dopo aver studiato per molto tempo un’opera, è che i sistemi di significato che si attivano nei componimenti appaiono svelati e quasi prevedibili. Succede perché si sono comprese profondamente le loro unità semantiche.

              All’interno di Variazioni Belliche, questo sistema di analogie, frammenti e zone d’ombra, si propone di affrontare la frantumazione dell’Io, nell’ordine di una ricostruzione, di un percorso che porti alla formazione di una soggettività. Nella forma il ritmo è singhiozzante, frenato dai continui enjambement, si arresta e tenta altre possibilità nel momento in cui è prossimo alla ripetizione. Questa dinamica rende il significato opaco, la posizione etica dell’Io variabile, divisa tra tentativi di emancipazione politica e sociale dai simboli patriarcali e religiosi da un lato, e la consapevolezza dei legami inconsci e involontari che ne frenano la fuga dall’altro.

              In Variazioni Belliche questo succede attorno ai tre nuclei semantici dio-amore-morte, come impulsi principali dai quali si sviluppano altre categorie culturali come il linguaggio. L’Io è immerso in uno spazio liminare tra il sé e l’esterno, dove i confini si fanno magmatici; si tenta di attraversare gli aspetti della relazionalità umana, calata in un sistema di negoziazione con sistemi semantici coercitivi. La lingua è strumento amatissimo e primo carnefice, prima convenzione, per cui è reiterata, smembrata in questo riassorbimento; dio strappato e ridotto alla materia del dolore e della penitenza. L’amore è negato e decostruito, reso nella forma dell’ossessione e del tentativo di fuga da questa. Attraverso anafore e anadiplosi, l’Io viene fatto oscillare psicoticamente tra rabbia e tentativo di redimere, in una malinconia opprimente, l’umanità e sé stesso.

 

La pazzia amorosa non è che una stella filante nel deserto.

Il mio corsetto mi stringe troppo forte.

L’acqua è una rana che si difende dall’annegare.

I tuoi sonetti risultano falsi, voluti!

Il naturale mi è escluso. O umanità che ti storpi i piedi per

mangiare alle ore convenute, se il tuo cibo è l’aria

perché distruggi. Moriremo nell’aria vana, ma non è vacua –

 

Cerco la durata delle sicurezze, ma l’orologio il numero

ha asfissiato la mia bellezza, e l’armonia del numero mi

ha rotto le scatole della tolleranza – l’orologio ha numeri

troppo brevi per il mio riposo. Vince il metallo della cassaforte

su dell’aria invariabile. Non è l’una! è l’infinito! Grido che

ricade nella strada coi mattoni da cassa da sicurezza.

 

Non posso dimenticare il tempo. L’aria è vana

Le regole della vita sono più asfissianti della mia bellezza.

Non voglio mangiare, non voglio vivere – grido

che ricade nella tua fame.

Non posso fumare nell’attesa di una bellezza.

Una tua bellezza. Ma che il mio sia comunque il tuo…

 

Il mio ombrella delle platitudini. Lavarsi, mangiare vestirsi

senza della fiducia. Grossolana platea. Necessaria morte,

necessario veicolo delle nostre passioni. L’incandescente

turbamento dell’amore. Atto di bellezza che sopravvive alle

necessità: specchio delle vanità. Arrivismo delle fanciulle

in fiore.

 

                                                                da Variazioni Belliche - 1963

 

 

Può essere utile leggere questa poesia, alla luce delle premesse sul sistema analogico sviluppato da Rosselli intorno allo strumento della variazione.

I primi tre versi sembrano esprimere delle leggi in cui una parola è resa attraverso un dettaglio che sfugge alla vista, ai sensi, rappresentando ciò che in precedenza è stata chiamata unità.

 

La pazzia amorosa non è che una stella filante nel deserto.

Il mio corsetto mi stringe troppo forte.

L’acqua è una rana che si difende dall’annegare.

 

Sono le tre unità semantiche dalle quali partire per comprendere il resto di questa poesia.

L’espressione non è che del primo verso tenta di decostruire l’idea di pazzia amorosa, problematizzandone l’eroismo. La pazzia amorosa ha in sé due aspetti: uno di romanticizzazione e l’altro di consapevole presa di distanza; una parte convenzionale dalla quale si tenta di strappare questa espressione per legarla ad un significato più aderente alla realtà. Quello stato di irrazionalità è assimilato alla vista fugace di questa stella filante.

              Il secondo tema è nella bellezza e trova una significazione più completa con i versi successivi in il numero/ha asfissiato la mia bellezza.

Vi è una coincidenza semantica tra numero-corsetto-orologio-metallo-sonetto, tutti strumenti utilizzati dall’uomo per autoregolarsi, imprigionarsi in convenzioni apparentemente utili che però negano la libertà degli atti più semplici: dallo scrivere poesia,

I tuoi sonetti risultano falsi, voluti!

 al mangiare,

umanità che ti storpi i piedi per

mangiare alle ore convenute

 

 al poter apprezzare la propria bellezza fuori da categorie

il numero

ha asfissiato la mia bellezza.

 

              Nel terzo verso, attraverso un’inversione dei soggetti, i significati si esprimono attraverso una percezione analogica. Assumendo acqua il ruolo di soggetto, in prima posizione di verso, la Rosselli sostituisce il soggetto sintattico dell’azione, la rana, con il contesto che ne permette l’azione, l’acqua. Solo l’esistenza dell’acqua rende possibile una percezione spaziale e fisica del soggetto.  la liquidità del verso rende l’intangibilità della verità, ma si può supporre che l'obiettivo sia sviluppare un'antitesi intorno all’habitat naturale della rana, che, da zona comfort, diviene spazio ostile. Da questa unità si sviluppa l’analogia con la società umana e il rapporto con le sue convenzioni. L’affogamento della rana riprende il corsetto del verso precedente, manca l’aria

 

Il naturale mi è escluso. O umanità che ti storpi i piedi per

mangiare alle ore convenute, se il tuo cibo è l’aria

perché distruggi. Moriremo nell’aria vana, ma non è vacua –

All’idea di tempo oppone che Non è l’una! è l’infinito!.; una concatenazione di istanti, un tempo come durata, frangente di esistenza, come tempo spazializzato. L’aria è varia, ma non è vacua […] è vana.

 

Cerco la durata delle sicurezze, ma l’orologio il numero

ha asfissiato la mia bellezza, e l’armonia del numero mi

ha rotto le scatole della tolleranza – l’orologio ha numeri

troppo brevi per il mio riposo. Vince il metallo della cassaforte

su dell’aria invariabile. Non è l’una! è l’infinito! Grido che

ricade nella strada coi mattoni da cassa da sicurezza.

 

              La durata delle sicurezze è già un secondo livello di significato della percezione del tempo prima menzionata. Permette al soggetto di esprimersi nella forma del desiderio, prima forma d’intenzionalità dell’Io. Ma la bellezza resta imbrigliata nelle durate, nei numeri. L’Io problematizza il numero e il suo essere cassaforte sicura ma opprimente. L’antitesi si muove sulle parole armonia e varietà: armonia è assenza di movimento, aria invariabilecassaforte, la varietà è esistenza, il movimento nello spazio, l’aria varia. Infine, il grido di rivolta crolla senza ascolto, dissolvendosi al suolo.

 

Non posso dimenticare il tempo. L’aria è vana

Le regole della vita sono più asfissianti della mia bellezza.

Non voglio mangiare, non voglio vivere – grido

che ricade nella tua fame.

Non posso fumare nell’attesa di una bellezza.

Una tua bellezza. Ma che il mio sia comunque il tuo…

 

              La rabbia si tramuta in martirio quando l’Io realizza di non poter dimenticare il tempo, diventa digiuno di protesta: Non voglio mangiare, non voglio vivere – grido/che ricade nella tua fame. Ma il monologo solipsista sviluppa un ulteriore soggetto. Il grido non cade più sul cemento freddo e inascoltato, ma nella tua fame.

              Una bellezza diventa una tua bellezza, la variazione inizia a entrare in uno spazio di condivisione e negoziazione tra due soggetti.  

 

Il mio ombrella delle platitudini. Lavarsi, mangiare vestirsi

senza della fiducia. Grossolana platea. Necessaria morte,

necessario veicolo delle nostre passioni. L’incandescente

turbamento dell’amore. Atto di bellezza che sopravvive alle

necessità: specchio delle vanità. Arrivismo delle fanciulle

in fiore.

 

mio ombrella è un punto di raccordo tra l’Io e l’interlocutore, un simbolo che associa analogicamente i due soggetti, ma la distanza tra loro è visibile graficamente. Le tre azioni successive sono poste in posizione finale di verso, reggono sé stesse nell’assenza del soggetto. La platea è grossolana: all’infuori dello spiraglio di comunicazione interiore con il tu, il contatto con gli altri soggetti provoca incomprensione, è un rapporto con degli spettatori. La morte è necessaria affinché le nostre passioni, le nostre volontà si esprimano nello spazio, generando movimento, esistenza. Il movimento può essere ustionante: incandescente/turbamento dell’amore, provocando una coerenza semantica con la stella filante del I verso. Le variazioni si moltiplicano, mostrando il fianco di ogni affermazione: l’amore è atto di bellezza ma anche specchio delle vanitàin fiore attenua il giudizio lampante sulle fanciulle.

nell'immagine un'opera di Jean Debuffet