Milano è un altro mondo - Rebecca Garbin

In occasione dell'uscita del nuovo titolo nella nostra collana di poesia, condividiamo alcuni estratti dalla sezione centrale del libro, "Milano è un altro mondo".
26 Luglio 2024

 

 

In occasione dell'uscita del nuovo titolo nella nostra collana di poesia, condividiamo alcuni estratti dalla sezione centrale del libro, "Milano è un altro mondo". L'ambientazione di queste poesie è una Milano ricostruita di testo in testo, facendo convergere ricordo e racconto, con la memoria che si fa affilata soltanto grazie alla presenza di interlocutori che compaiono, spariscono e poi si ripresentano. Luoghi topici dell'adolescenza, amicizie colte nei loro punti di massimo svelamento, una delle tombe del cimitero Monumentale: ci viene restituita una città che sembra essere sommersa, sottomarina, in cui la vista si fa sempre più debole, e l'udito invece più attento che mai, capace di cogliere dettagli, grandi mutamenti, frasi dette magari sul momento ma definitive senza sapere di esserlo, e di collegarli poi in una mappatura di Milano che anche tenendo presenti le esperienze degli altri poeti che l'hanno tracciata nei loro versi, da Fortini a De Angelis e non solo, risulta lo stesso inedita e significativa per chi accetta di attraversarla nella lettura.

 

 

Rebecca Garbin è nata a Milano nel 2001. Male minore è il suo primo libro. Nel 2023 ha vinto la sezione Inediti Under 25 del Premio Alma Mater Violani Landi, assegnato dall’Università di Bologna. È stata tra i giovani autori selezionati per il progetto promosso dall’Università IULM, La poesia che si fa città, a cura di Tommaso di Dio e Paolo Giovanetti. Alcuni componimenti dal suo primo libro sono comparsi sul numero 24 di Poesia (Crocetti, 2024). Collabora con il blog vallecchipoesia it e con il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna.

 

*

 

Dedizione*

A Maria Beruccini (1889-1913)

 

Non cercare altra ragione, mi ha uccisa la stanchezza.

Non cercare di capirmi, oltre il peso della pelle

di me non resta niente, non voglio resti niente.

Mangia pure i miei capelli, 

le mie unghie, quanto ancora mi rimane di leggero.

                                                                                    Non importa

quel che diranno di me, tutto muore col tempo

anche quello che dice la gente.

 

Ogni cosa viva scava e lascia calce nella testa

la vena che trabocca sulla tempia si fa stretta

e stare sveglia è compilare un ricettario delle polveri

in ogni stanza di ogni albergo in cui mi fermo

e non riposo. 

Dopo vent'anni di erosione mi è impossibile tornare

risalire la scala di casa, se ogni passo consuma i gradini.

 

Tutto andrà bene e andrà bene anche senza di me

ma non dire ad alcuno perché sono morta,

non lo so nemmeno io.

Si dice che chi muore lasci briciole sul ciglio della terra

avanzi di luce per gli uccelli.

                                                                                 

Adesso mi guardano tutti

come avessi ingoiato il sole.

*

 

I

 

In certi posti non esisti per davvero 

nel dispiegarsi degli ingressi (Porta Volta, 

Porta Nuova, Garibaldi e via dicendo).

Lo scoppio dei motori buca i timpani sott’acqua –

c'è tutta una città sottomarina che non vedi 

che disgela in pieno inverno – sua lucerna 

è l’agnello – o le luminarie 

del presepe di novembre su Corso Buenos Aires.

Nel battito dei neon possiamo perdere le palpebre 

non vedere più nessuno.

 

«Oggi io e M. saltavamo scuola, lui abitava

qui vicino, in quella casa, la villetta con giardino

che adesso è sempre vuota –

siamo andati all'acquario quel giorno, 

che siamo scesi in bici, che non c'era

l'ora di tornare».

 

È stato un giorno perfetto, M.

ha deciso di morire lo stesso,

o almeno ci ha provato.

 

 

*

 

II

 

Resta in piedi solo lui, il Monumentale.

Quello che era bianco è diventato trasparente

o di metallo, e fanno male 

le gengive per il caldo.

 

Ti ricordi quando è morto il padre di A.?

siamo corsi a casa sua, dai quattro angoli

della città – e tu non c’eri.

 

«Quando ero piccola volevo toccargli i baffi

ma, non so perché, solo da un lato

ora ch’è fermo sul divano ci ho provato, sai

a toccare l’altro lato, come per gioco

ed era freddo, anche di giugno, è stato come

toccare l’altro lato della luna». 

 

*

 

III

 

C’era anche un’altra A, come Afrodite,

nata ad aprile, lo stesso giorno di Hitler.

 

Eravamo qui, al parco Sempione

davanti all’arena, a far la polvere ai gradoni –

l’arena, se ci pensi

ricorda un padiglione auricolare –

la fine Afrodite l’aveva sentita arrivare

prima di tutti.

Aveva come un nodo nella pancia,

una volta d’inverno

aveva lasciato morire il coniglio del fratello

l’aveva chiuso fuori, sul balcone:

«Non ce la faccio più, mi da fastidio il rumore

lo senti come mastica, e sbatte con la zampa

non ce l’ho fatta più». E come lo diceva

con quella sua dolcezza nella voce,

di Milano che non trema, ma congela.

 

Ma io me lo ricordo quel giorno nell’arena

e poi lei che si piega,

che sbatte le ginocchia sulla ghiaia.

Non sapevo cosa fare, l’ho caricata in spalla

abbiamo preso un taxi, poi la corsa a casa.

«Avete bevuto?» «Tanto, forse lei

ha preso anche qualcos’altro».

«Va bene, bisogna farla vomitare

poi mettiamola a dormire, 

ma niente polizia, niente ospedale».

 

*

 

V

 

Questa città tutta orbita è un uovo nero

è un mondo intero, a malapena.

 

Alla vigilia di capodanno, a Seregno

qualcosa mordeva le scarpe, l’asfalto.

Io e T. alla stazione

col sangue che sbatte, le lucciole 

alla finestra di fronte.

La terra pulsava quel giorno, c’era qualcosa

che stava per schiudersi: 

«Siamo troppo fortunati».

 

Stava per succedere, ormai lo sapevamo

lo sentivo in mezzo ai denti.

T. mi guardava con occhi di capra:

«Così non ho paura di morire 

ma dobbiamo fare piano».

Stiamo fermi guancia a guancia 

sul materasso di gomma.

«Qui le case hanno i muri di ceramica

e dobbiamo fare piano».

 

Questo è stato l’ultimo momento, 

prima che l’anno sparisse in un salto

prima che tutti se ne andassero.

Tornavo a casa quella sera –

casa, sempre, di qualcuno

se fino al giorno prima li conoscevo tutti

a Milano non conosco più nessuno.

*

NOTA: “Dedizione” è il titolo del monumento funebre a Maria Beruccini, situato al Cimitero Monumentale di Milano e realizzato da Piero Da Verona. Maria Beruccini, a Milano, è tristemente nota come “la fidanzatina”, a causa di certe leggende popolari che la vorrebbero suicida per amore. Non sappiamo quasi niente di lei, ci resta solo l’epitaffio enigmatico, voluto dalla famiglia per nascondere la causa del decesso, che recita: «non dite ad alcuno perché sono morta», e qualche pensiero ispirato di poeti milanesi, piuttosto folgorati dalla sensualità decadente della statua che la ritrae che dalla data di morte riportata, peraltro in modo erroneo, sulla lapide. Ormai di Maria non rimangono neanche le ossa.