Nella poesia di Michele Lacava si percepisce una fiducia ostinata nel potere del racconto di sopravvivere oltre i propri protagonisti, portandone delle tracce indelebili, e con esso la necessità di un mediatore. Tuttavia, assumendo questo ruolo l’autore esprime il controcanto della condizione marginale da cui l’Io fatica a emergere, reso, ad esempio, nell’estrema indeterminatezza del si riflessivo di si cerca per raccogliere quei resti, o tentando di circoscrivere uno spazio di auto-affermazione “Mio nonno parlava spesso dei suoi viaggi/ed io vivevo da abusivo tutti i luoghi dei racconti”. Ciò che ha maggior rilevanza nei suoi versi è questo passato arcaico di cui farsi testimoni, fatto di oggetti e spazi divenuti assoluti i gerani sulle scale, la rubrica scritta a penna, il nonno che è un tutt'uno col silenzio è diventato un monumento. Si instaura una dialettica tra spazio di arrivo e luoghi di origine, tra il respiro di un tempo che è stato storia, biografia, e l’asfissia del disincanto urbano, fermo in un ritorno circolare. Nelle poesie affiora un ritmo incessante, inseguito affannosamente nella ripetizione del metro e in particolare dell’endecasillabo, anche a costo della ridondanza guardava non so dove non so cosa, o attraverso un uso intelligente della punteggiatura a rompere una nenia che, come tutti i ritmi cantilenanti, è una maschera che nasconde una più profonda frattura, “C’era un uomo in pelle ed ossa/ad un passo dalla chiesa. Leggeva”, sferzando poi la fiaba con il lato più brutale era un corpo imbalsamato dentro un’ombra. Sin dalla prima poesia Lacava insiste sull’immagine dell’ombra, correlativo oggettivo che inghiotte ogni identità, rivelando il paradosso di questo presente in cui “è rimasta solo l'ombra della vita” e la sua accettazione è solo un'altra veste da indossare, in cui l’attributo altra nasconde la reiterazione della disillusione, dell’abbandono. L’ombra ha la capacità di espandersi su ogni oggetto o esperienza, rivelandone l’antitesi, l’assenza di moto “In più c'è solo qualche assenza/nella cristalliera in compagnia della mia infanzia”, dove il tempo è primo indiziato di questa disarticolazione della realtà “Il tempo qui è severo/ci ha lasciato solo il guscio delle cose”. Il soggetto vive in questo non luogo determinato dalla dialettica tra la terra d’origine, popolata da voci amiche, riconoscibili, e la solitudine di uno spazio d’arrivo. Ciò che si lascia alle spalle vacilla sul vuoto dell’oblio, della distanza, alla casa dei nonni si sostituisce un altrove impersonale Oggi vivo altrove, torno poco, al tempo assoluto del racconto e dell’infanzia “come accade ogni domenica da anni/ mentre nonno cantilena sulle scale/aspettando mamma ed il suo pranzo”, quello estenuante del lavoro quando stai per ritornare a un lavoro che detesti/ma ti serve per pagare un altro affitto. Eppure, sin dalla prima poesia, l’autore assume una postura: la responsabilità della testimonianza è anche unica possibilità di riscatto per non abbandonarsi all’auto-commiserazione raccogliere quei resti come l'acqua per le bestie per svestirsi finalmente di quella maschera da vinti, in cui la poesia e il racconto rappresentano un tragitto su cui perseverare e restare vigili.
Poesie dalla silloge inedita ‘Un fico che cade può fare rumore’
*
Il vento della sera insiste
sulle crepe dei tuguri dove
è rimasta solo l'ombra della vita.
Sono lesioni verdi appena
per il muschio ai bordi, labbra di sirena
che non canta ma strilla
per una ferita stuzzicata
da quel sale che non può pulirla
senza dare un minimo di pena.
Camminare per i vicoli
non è un lavoro da guardiani;
qui si cerca per raccogliere quei resti
come l'acqua per le bestie
per svestirsi finalmente
di quella maschera da vinti
e dirsi: l'ombra della vita
è solo un'altra veste da indossare
perché la voce non si perda con l'assenza
*
Mio nonno parlava spesso dei suoi viaggi
ed io vivevo da abusivo tutti i luoghi dei racconti.
Seduti intorno al fuoco mi ha insegnato
che il freddo non è un problema di stagione
quello vero lo senti solo
quando non hai più braccia intorno al collo.
Oggi vivo altrove, torno poco
ma casa dei miei nonni resta uguale:
i gerani sulle scale, la rubrica scritta a penna
ingiallita sopra il davanzale,
mio nonno che è un tutt'uno col silenzio
è diventato un monumento.
In più c'è solo qualche assenza
nella cristalliera in compagnia della mia infanzia.
Il tempo qui è severo
ci ha lasciato solo il guscio delle cose
e il compito di vegliare su di essi
come fossero reliquie.
*
C’era un uomo in pelle ed ossa
ad un passo dalla chiesa. Leggeva
sulla soglia fuori casa
certi libri fuori moda, con i giornali di una volta
raccoglieva i suoi capelli.
La madre silenziosa sullo sfondo della casa
guardava non so dove non so cosa
era un corpo imbalsamato dentro un’ombra
stagliata sopra il muro come un ritratto di famiglia.
«Sono fiero che con Rocco siate amici
puoi dargli i miei saluti quando tornerai a Bologna?»,
mi chiedeva stringendomi le mani
alzando per un poco i suoi occhi dai vangeli
rimediati sopra i banchi alla fine di ogni messa
quando entrava con l’inchino e poi aspettava
che il prete rimandasse tutti a casa.
E mentre il corso si inondava di parole
lui tornava sulla soglia a rifugiarsi nelle sue.
*
Tornò d'estate con un lampo, così mi ha detto.
Scoppiò sul pavimento mentre
lei dormiva fianco a fianco con mio nonno.
Non saprò mai se sia accaduto veramente
o se fosse solo un sogno, ma mia nonna
ne parlava col trasporto di un testimone che non mente.
«È tornata mia sorella per portarmi una notizia»,
solo questo disse e da come ne parlava
si aspettava il suo ritorno già da un pezzo.
Eppure, quella notte come tutte le altre volte
la scopa era al suo posto, blindava il chiavistello
«È un'arma contro i demoni», diceva,
non avrebbe mai permesso che infestassero la casa.
Ma gli spiriti che in vita
mangiarono dalla stessa bocca
non hanno bisogno di tirare giù la porta:
entrano in silenzio sulle strade che già sanno
s’insinuano nel sonno più profondo,
ma non lo fanno per dispetto: ci ricordano soltanto
senza invidia né disprezzo
il grande privilegio del risveglio.
*
Forse è un vizio di famiglia
canticchiare nel silenzio
io lo faccio qualche volta
quando torno a notte fonda.
Mio nonno, invece, lo fa spesso
cantilena soprattutto mentre aspetta
che mamma le porti la sua cena.
Ha più di novant'anni, gli arti poco funzionanti
ma non sentiamo mai un lamento,
mangia tutto soddisfatto.
Poco prima che partissi si parlava della cura
dei genitori e degli anziani
e di altre classiche questioni familiari,
un mio amico ha riflettuto «io non ho fratelli
e se starò lontano ancora chi si occuperà dei miei
quando avranno i loro acciacchi?
E poi ci sono i figli - se mai dovessi averli -
quanto sarebbe faticoso crescerli
a chilometri e chilometri dai nonni?».
A trent’anni, è giusto che ci pensi
quando stai per ritornare a un lavoro che detesti
ma ti serve per pagare un altro affitto
e poter bere fino a tardi per distrarti
per poi svegliarti il giorno dopo
solo dentro la tua stanza
come accade ogni domenica da anni
mentre nonno cantilena sulle scale
aspettando mamma ed il suo pranzo.
Michele Lacava è nato a Tricarico (MT) nel 1997 ma è originario di San Chirico Nuovo (PZ). Ora vive a Bologna dove studia, lavora e partecipa alle attività del Centro di Poesia Contemporanea. Cura il podcast di musica e letteratura ‘Controsole’ per Radiotransatlantico. Ha esordito in poesia con la raccolta in versi “Le strade dritte sono senza stelle”(De Nigris Editori, 2023).