Locuste e iperoggetti in Federico Italiano

decentrare l'uomo prima della catastrofe
3 Agosto 2023

 

 

Sia in ambito accademico che in quello poetico, Federico Italiano ha manifestato, dall’inizio della sua carriera con Nella Costanza (Atelier, 2003) al suo ultimo libro La grande nevicata (Donzelli, 2023), un’attenzione peculiare per le nuove teorie critiche più convincenti e le relative possibilità di sguardo. Se in lavori di ricerca come Tra miele e pietra: Aspetti di geopoetica tra Montale e Celan (Mimesis, 2009) e Translation and Geography (Routledge, 2016) dimostra un’analisi attenta alla spazialità, intesa come luogo di relazioni da indagare nei suoi molteplici strati, dalla stratosfera abitata dai corpi biologici e non, alla dimensione sociale e culturale, in chiave poetica lo stesso strumento della Geocritica si fonde allo sguardo personale ed elaborato di un poeta che non nega la possibilità dell’esperienza personale come strumento conoscitivo capace di attivare una rete compenetrata di oggetti minuscoli ed energie devastanti. In quest’articolo non mi occuperò di un generalista elenco di opere e lavori, bensì, come già si evince dal titolo, di una singola poesia, analizzata a partire dal suo valore etico ed ecologico, sulla scorta di alcuni strumenti critici sviluppati negli ultimi 30 anni di ricerca e critica letteraria e filosofica. Nell’ottica del rapporto tra Io, habitat e potenzialità esperienziali, si parlerà della poesia La nuova età gregaria o l'invasione delle locuste da L’invasione dei granchi giganti (Marietti, 2010) e di come l’esperienza di un soggetto in vacanza possa saldarsi metaforicamente ed ecologicamente alla messinscena di uno degli effetti catastrofici della crisi climatica. 

 

La nuova età gregaria

o l’invasione delle locuste

 

 

I

 

Come in quei pomeriggi estivi, quando liquide

nel caldo appaiono le cose

in lontananza e fluttuanti

sull’ombra di se stesse, mentre tutto

dorme un sonno digestivo,

un riposo traspirante

da persiane e gelosie

 

e tu, non ancora adolescente, sotto il pergolato

evapori nella noia, agognando

il mare, i tuffi, le biglie e i disprezzi

l’indolenza dell’adulto panciapiena

assonnato,

                  così è il mondo

prima dell’invasione, immobile

zittito nel collegio del sole.

 

S’alza un fumo, un accumulo di nebbie cobalto

dapprima silenziose, poi ronzanti 

come la vecchia radio del bagnante

adusto a distanza d’occhio,

il bonfonchio s’intensifica ed eguaglia

le recriminazioni d’un taglia-erba, poi l’esuberanza

di un motorino in escandenscenza

uno di quelli truccati, con la marmitta

sgangherata; per un attimo, addirittura,

pensi ad un’ouverture di Wagner,

                                                     finché

non distingui l’acustica idraulica

di milioni d’ali sfrigolanti,

in fibrillazione su corazze lucide, idrogenate

sciami-armata di cavallette migratorie.

 

Il tu «non ancora adolescente», impegnato nella noia in cui è imprigionato a causa dell’ «indolenza dell’adulto panciapiena/assonnato», è qui per parlare d’altro: l’avvento, preannunciato dal suono simile a una radio, di una flotta di locuste. La condizione nella quale l’io è calato è sia spazio d’azione che oggetto o termine della similitudine. L’esperienza collettiva delle vacanze famigliari ci riporta in ricordi ben specifici e alquanto dolorosi, rafforzata, inoltre, dalla tradizione letteraria di alcune opere che, del ribaltamento della prospettiva gioiosa delle ferie, hanno fatto la propria cifra, cogliendo le contraddizioni del simbolo del tempo liberato nel positivismo liberal patriarcale del secondo Novecento. L’uso di una prospettiva pre-adolescente o ancora non adulta di questi versi, il cui potenziale è appurato già in opere come Lessico Famigliare (Einaudi, 1963) o Bonjour Tristesse (Julliard, 1954), permette lo smascheramento dell’aspetto più infernale delle ferie, dove si è costretti ad assistere all’esplosione delle frustrazioni che fermentano nelle proprie famiglie, in una vera e propria reclusione nella rete grottesca di adulti stanchi e nevrotici. Il lettore è apertamente chiamato in causa nel richiamare alla mente ricordi di noia e desideri incompatibili con la panciapiena dell’adulto occupato nell’impegno collettivo del sonno digestivo. La presenza dell’avverbio iniziale, però, in qualche modo mette in secondo piano il paesaggio che si sta riportando a galla, che ben presto rivela la sua natura di spazio d’azione oltre che necessaria cifra esperienziale per essere calati negli avvenimenti.

 

Infatti, se all’inizio tutto è «immobile/zittito nel collegio del sole» (e qualcosa potrebbe dirsi sul rapporto simbolico che insiste nel binomio adulto-sole, in contrasto con il movimento che si sprigiona nelle ultime strofe), l’evento straordinario dello sciame irrompe nella scena ribaltando tutti i rapporti di forza: l’inazione digestiva imposta dall’adulto sul soggetto è improvvisamente scardinata. Eppure, qualcos’altro mi torna alla mente prima di arrivare alla catastrofe: queste strofe hanno qualcosa a che fare con altri placidi pomeriggi, per così dire, ontologici del Novecento italiano. In qualche modo è possibile mettere in relazione queste prime strofe con il Meriggiare pallido e assorto di montaliana memoria, il quale porta con sé il dramma di un contatto reciso dell’Io con la vita e il suo travaglio, determinato dalla muraglia con in cima cocci di bottiglia. Qui, Montale e le implicazioni ontologico-poetiche della sua poesia, sono rovesciate, stravolte dall’irruzione violenta dell’habitat nelle speculazioni dell’Io. Se all’inizio l’avvento delle locuste pare ancora un inoffensivo oggetto fumoso, caratterizzato da una sostanziale  mancanza di compattezza («fumo», «accumulo di nebbie cobalto», «la vecchia radio del bagnante/adusto»),  l’idea di un corpo totale, pronto ad essere pericoloso, rapidamente si realizza accorciando le distanze, pur conservando il suo carattere di plurale intangibilità. Il rumore eguaglia «le recriminazioni di un taglia-erba» e la sensazione è quella di un narratore che, preso ancora dallo shock, accumula similitudini e paragoni spiazzanti, conferendo ai versi un ritmo rapido e incalzante. Anche qui una certa tradizione ci torna utile per comprendere gli sviluppi che la poesia prenderà nella seconda parte. Affrontare la questione ecoclimatica in letteratura significa fare i conti non solo con la percezione dell’habitat e il superamento del correlazionismo che da Cartesio ha definito la cornice speculativa della filosofia occidentale fino ad oggi, ma, soprattutto, confrontarsi con le implicazioni problematiche che le narrazioni apocalittiche portano con sé nell’immaginario collettivo rispetto alla fine del mondo. Riprendo qui alcuni versi scelti del capitolo 9 dell’Apocalisse biblica:

 

Il quinto angelo suonò la tromba e vidi un astro caduto dal cielo sulla terra. 

Gli fu data la chiave del pozzo dell'Abisso; egli aprì il pozzo dell'Abisso e 

salì dal pozzo un fumo come il fumo di una grande fornace, che oscurò il 

sole e l'atmosfera. Dal fumo uscirono cavallette che si sparsero sulla terra 

e fu dato loro un potere pari a quello degli scorpioni della terra. [...]

 

Queste cavallette avevano l'aspetto di cavalli pronti per la guerra. Sulla 

testa avevano corone che sembravano d'oro e il loro aspetto era come quello 

degli uomini. 8 Avevano capelli, come capelli di donne, ma i loro denti erano 

come quelli dei leoni. Avevano il ventre simile a corazze di ferro e il rombo 

delle loro ali come rombo di carri trainati da molti cavalli lanciati all'assalto.

 

 

 

In quest’ottica, le qualità sensuali associate all’avvento delle locuste non sono nuove, e il valore del testo di Federico Italiano sta anche nel tentare di tenere tutto dentro per poterlo integrare, in seguito, con le parti necessarie a un riposizionamento dell’Io. L’ipotesto biblico funziona non solo nella sua rivitalizzazione contemporanea, ma soprattutto per la necessità di ridimensionare l’esperienza epica dell’apocalisse culturale nella sua dimensione più prosaica e reale. Ci sarebbe sicuramente molto da dire rispetto a ciò che questi passi nascondono: la locusta è sempre stata simbolo di carestia, e la paura che ne derivava è stata spesso strumento delle elité religiose e culturali per autolegittimarsi, generando un clima di terrore. Quindi, lo sgomento a cui le locuste inducono, oltre ad avere origini ataviche e materiali, è anche frutto delle narrazioni apocalittiche che ci calcarono sopra. Allo stesso modo, la narrazione religiosa della fine o apocalisse culturale, porta in sé un carattere di espiazione e redenzione, accompagnate dalla fiducia cieca e sconsiderata nella rinascita dopo la fine, provocando una dispercezione rispetto a eventi di così grande portata, i quali sono inconsciamente proiettati nella forma pacificata dell’oggetto culturale. Federico Italiano sa che l’immedesimazione nello spaesamento e nel disagio derivati dall’avvento delle locuste può avvenire solo grazie all’inquietudine che già esiste in una sorta di inconscio collettivo che unisce paura atavica, notizie dal mondo e esperienze personali. Avviene che l’oggetto che aleggia sul quotidiano è un terzo oggetto che si fa carico delle caratteristiche del termine di metafora per raccontare un evento che accade nello stesso luogo della vacanza, dando fisicità al luogo e alla condizione di disagio che rapidamente si realizza. Questo terzo oggetto non è l’avvento della locusta in sé, bensì il rapporto che si instaura tra l’evento e lo spazio in cui questo avviene. Tale rapporto assume le fattezze di un oggetto indipendente dal momento in cui si innesca, avendo la capacità di esistere anche oltre la metafora stessa, diventando una esperienza irreversibile che avrà effetti anche dopo. Tale ente non è più astratto di quanto non lo sia la condizione reale in cui si verifica l'avvento delle locuste. Il contatto tra oggetto della metafora, questo paragone che si instaura tra il pomeriggio digestivo (qualità sensuali annesse) e il mondo prima, chiama in causa il lettore a diventare la sostanza di quel contatto, la condizione esistenziale di un episodio che ha la capacità di rimodellare tutto. Il terzo oggetto, il contatto tra i termini della metafora, integrato dal lettore che funge letteralmente da corpo-ponte, appena innescato ha la capacità di occupare tutto lo spazio disponibile, ricoprendo gli oggetti e gli eventi come materia viscosa che si espande sulla pagina ridefinendo le condizioni che hanno portato a quel punto. La viscosità, inoltre, nell’ultima strofa assume la forma di una tangibilità reale, amplificata dalla posizione di finché, (isolato, in posizione finale di un verso, disallineato rispetto al resto) come fosse una porta verso qualcosa di altro che può aprirsi solo ora, ma che aprendosi lascia che la sua materia entri e invada retroattivamente i versi percorsi finora. 

 

La sensazione di spaesamento e di impotenza ti attraversa come l’invasione aliena de La Guerra dei Mondi, in cui l’avvento di una specie imprevista, inimmaginata, può minare seriamente l’esistenza di quella umana e la sua persistenza sul pianeta. Inoltre, non abbiamo bisogno di osservare altri oggetti culturali e artistici per richiamare alla mente questa sensazione, basti prendere ad esempio ogni catastrofe ambientale di cui abbiamo fatto esperienza questa estate e non solo. Se penso alla generazione di chi è nato dagli anni ‘90 in poi (la mia), questi eventi sono ormai una costante della vita quotidiana, giornalmente attraversata dalla minaccia della fine, minando alla base la capacità stessa di un individuo di proiettarsi nel futuro, come se i tre tempi passato-presente-futuro fossero vasetti di miele che, ormai rotti, si mescolino tra loro, ridefinendo i propri limiti in un’unica massa informe, quella del tempo per come lo percepiamo oggi. La direzione della poesia, poi, assume una forma ulteriore nella seconda parte:

 

II

 

Se sole, vivono pacificamente, ritirate, introverse

pure utili nel loro discreto consumo

del verde. Solo quando un dio

 

eco-sanitario le convoca, quando l’arido

prepuzio del deserto s’infiamma

s’uniscono,

                  nella nuova età gregaria

 

saturando la repubblica graminacea

delle loro ooteche,

mutano in dimensione e colore, quasi una spanna,

                                                                      biometria

 

perfetta per la distruzione di massa,

giallognole microtrebbiatrici

divorano in costellazioni,

                                              in sfere

luccicanti, spietatamente tolemaiche.

 

 

L’interferenza di un punto di vista scientifico nella seconda parte, oltre a rappresentare il punto di slancio da cui la poesia raggiunge la sua intenzionalità, può dare l’impressione di un momento distensivo, la tranquillità della conoscenza scientifica. In realtà, essa prepara il campo per un’esplosione incontrollata. Infatti, se l’uso della conoscenza biologica può instaurare, apparentemente, una distanza tra sé e il disastro, rendendolo innocuo, al contrario, amplifica il senso di straniamento e shock. Delimitare scientificamente ciò che è l’abitudine riproduttiva della locusta serve ad aprire un inquietante interrogativo sulla condizione anomala di questa moltiplicazione di massa. Il senso di impotenza del soggetto umano diventa lo stesso dell’insetto di fronte a questa nuova età gregaria. L’insetto è anch’esso calato in una condizione d’eccezione eco-climatica, ed è qui che si riesce a intravedere un epicentro: il dio eco-sanitario. Il secondo shock è innescato della voce scientifica, la quale permette di cogliere la condizione di disagio delle locuste e lo stupore di essere calate in un gruppo tanto ampio. Abituate a vivere in piccoli aggregati, il loro habitat e le loro abitudini comunitarie sono cambiate radicalmente a causa delle attività inquinanti della specie umana, impersonate nel dio ecosanitario. Tengo a sottolineare che questo testo non funge da accusa moralista nei confronti dell’essere umano in quanto tale, l’oggetto dio eco-sanitario ha qualità ben precise, non rappresenta la specie umana né un’azione specifica, ma un soggetto in azione. Italiano è ben consapevole delle cause profonde legate all’inquinamento, le quali sussistono per ragioni ben più complesse della natura umana da espiare. La consapevolezza ecologica dell’autore non si afferma su una banale colpevolizzazione della specie. È la relazione tra le attività inquinanti e la proiezione divina dell’essere umano in dio a costituire l’oggetto dio ecosanitario. Tale oggetto detiene, tra l’altro, una caratteristica insolita rispetto agli oggetti comuni, esso sembra non avere luogo specifico, appare, proprio come un dio, e poi scompare dopo aver dato i suoi ordini. Esso instaura con lo sciame una relazione di causalità in un sistema olistico, ribadita dal fatto che lo sciame è portatore di due caratteristiche che, in realtà, appartengono in primo luogo al dio-ecosanitario. Come già detto, lo sciame è viscoso, ti attraversa, ha in sé un potenziale inglobante spaventoso, ma per quanto reale, questo carattere è un derivato della causa dalla quale scaturisce l’eccezionalità dell’evento. Sulla scorta di ciò che Timothy Morton afferma sugli iperoggetti, ovvero che «ciascuna manifestazione locale di un iperoggetto non è, direttamente, l’iperoggetto stesso» (p.3), la causa della sovrappopolazione delle locuste è non-locale, non esiste in un luogo specifico, è ovunque, provoca reazioni in ogni luogo e in modi differenti, e questo rende l’iperoggetto inafferrabile e le sue conseguenze più spaventose.

 

Questo spiega perché, nella seconda parte del componimento, le locuste sembrano spaesate (e noi con loro). Una narrazione confortevole avrebbe, probabilmente, soddisfatto l’esigenza del lettore di avere un antagonista chiaro ed efficace, mentre, qui si è tutti vittime di un’entità che non è divina e allo stesso tempo non ha un luogo e una sua sostanza specifica, provocando l’urto e la vertigine di qualcosa di inafferabile per la sua vastità, inquietante per la violenza dei suoi effetti. Per raccontare questo, l’autore mette a punto due livelli di shock, il primo dato dalla liquefazione dell’esperienza vacanziera del soggetto tu, il secondo legato all’alterazione radicale delle abitudini del soggetto locusta. Lo straniamento ridefinisce i confini delle specifiche soggettività, ritraendole nel terreno dell’irreversibile reazione a catena provocata dall’iperoggetto impersonato dal dio eco-sanitario. Ciò che rende questo un testo eversivo è la sua capacità di riposizionare il punto di vista umano fuori dalla correlazione: ognuno di questi oggetti-soggetti instaura una relazione inedita nel campo comune della biosfera della crisi climatica, e tale operazione letteraria permette al lettore di eludere ogni prospettiva antropocentrica per posizionarsi in un luogo di frontiera, in cui la relazione passa attraverso la riformulazione delle proprie credenze e abitudini, appiattendo ogni soggetto a oggetto attraversato identicamente dallo shock eco-climatico. 

 

A questo punto tenterei un ulteriore richiamo nella tradizione letteraria. Il crollo di quello che possiamo chiamare paesaggio, inteso come luogo, tendenzialmente naturale, che abbia una cornice e un significato prestabilito sulla base anche di un’abitudine di sguardo, rende liquido lo spazio, impossibile ormai da afferrare e incasellare in nuove forme. Un primo esempio accidentale di testo, per così dire, ecologico, è l’ode La salubrità dell’aria, pubblicata nel 1791 da Giuseppe Parini, ma composta già a partire dal 1759. Qui, l’abate illuminista, critico dell’ineguaglianza sociale, ebbe da riflettere rispetto ad un habitat che cambiava, un paesaggio che, da essere alpestre e salubre paesaggio italiano (tutelato, secondo l’articolo 9 della Costituzione, al pari del «patrimonio storico e artistico della Nazione».) diventa spazio di lucro per ricchi e potenti della zona, contro cui scagliare l’invettiva:

 

 Oh beato terreno

 del vago Eupili mio,

 ecco al fin nel tuo seno

 m’accogli; e del natìo

 aere mi circondi;

 e il petto avido inondi

 

 [...]

 

 Pèra colui che primo

 a le triste oziose

 acque e al fetido limo

 la mia cittade espose;

 e per lucro ebbe a vile

 la salute civile. 

 

Le tecniche di straniamento e ironia sono simili a quelle utilizzate da Italiano: un soggetto la cui abitudine, per così dire, estetica è intaccata da modifiche ambientali estreme causate da lusso, avarizia e stolta pigrizia. Sicuramente, rispetto al nostro autore, Parini oppone un’etica limpida e chiara ai ricchi magnati della Brianza di metà ‘700, quasi eleggendo a saggi custodi della terra i villan vispi e le ardite villane, risentendo di una certa idealizzazione eroica degli umili di stampo cristiano. Eppure, si potrebbe dire che in quell’epoca si fosse solo all’inizio di quello che oggi ci sembra una crisi perenne e onnipresente degli equilibri eco-climatici, e questo fa dell’ode di Parini uno dei primi e migliori esempi di percezione ecologica del territorio. La prima rivoluzione industriale, infatti, con l’avvento della macchina a vapore brevettata da James Watt nel 1784, fu «il primo rivelarsi dell’umanità come forza geofisica in grado di agire su scala planetaria» (Morton T., p.14). L’attività umana cominciava solo allora ad avere un impatto globale, in un’epoca in cui la non-località era impensabile, e la globalità poteva al massimo esprimersi nei grandi spostamenti legati al commercio e all’esplorazione, e i viaggi di piacere erano un privilegio per minuscole elité. A Parini, quindi, causa ed effetto apparivano evidenti e connesse nel rapporto economico che sussisteva tra lo spazio agricolo della città di Milano e i ricchi magnati della zona. Tra l’altro, non solo le risaie e il fetido puzzo denuncia, ma anche l’accumulo di rifiuti in città:

 

Ma al piè de’ gran palagi

là il fimo alto fermenta;

e di sali malvagi

ammorba l’aria lenta

che a stagnar si rimase

tra le sublimi case.

 

Quivi i lari plebei

da le spregiate crete

d’umor fracidi e rei

versan fonti indiscrete

onde il vapor s’aggira,

e col fiato s’inspira.

 

Lo spessore realista di questa invettiva, dato dal suo carattere umorale e deiettivo, provoca lo stesso effetto di spaesamento, di shock olfattivo pari allo straniamento determinato nella poesia di Italiano e si potrebbe ricondurre anche al racconto della città di Leonia in Le città invisibili (1972) di Calvino. La metafora si attiva per mezzo dell’esperienza ambientale del lettore stesso. Probabilmente solo i lettori lombardi avrebbero, all’epoca, compreso la puzza e i danni a cui Parini fa riferimento, data anche la località di cui si parlava prima. Oggi, invece, ognuno ha fatto esperienza, tramite media o in presa diretta, di situazioni simili. Richiamo alla mente questo testo conosciuto e studiato al liceo, lo metto in relazione alle locuste di Italiano, questo avviene appena tornato in provincia di Bari per le ferie, dopo aver assistito all’avvento delle locuste anche a Bologna. Qui vicino, da che ho memoria, è attiva la Tersan Puglia un impianto di compostaggio rifiuti a ridosso della città di Modugno (BA) che, nei giorni caldi di Scirocco, oltre ad alimentare i processi di degradazione, spande il suo lezzo devastante. Ricordo che al liceo mi rimase impressa questa poesia proprio perché il suo referente era dietro le porte di casa. Sapevo anche che il problema del puzzo non derivava dall’impianto in sé, bensì dal risparmio che si faceva dei filtri necessari, all’iperproduzione e alla necessità dei cittadini di non avere a che fare con i propri rifiuti (tutto questo ha, chiaramente, una causa ancora più lontana e globale). Gli oggetti reali alla base di queste opere e le tecniche narrative di straniamento rendono le narrazioni apocalittiche riproduzioni di bassa qualità, soprattutto perché non c’è redenzione o speranza, si è solo calati in una contemporaneità catastrofica con cui dobbiamo fare i conti. D’altro canto, ciò che Italiano mi insegna, e con lui una vastissima parte di letteratura, è che l’arte deve occupare un posto di primaria importanza nel tentativo di ricostruire il nostro rapporto col reale. La metafora ha un approccio simpatetico con la realtà, permette di realizzare una percezione partendo da un certo tipo di esperienza, mi permette di comprendere qualcosa tirando il mio corpo in ballo a compensare l’astrattezza della parola. L’impegno e la ricerca hanno sempre e solo avuto a che fare con le contingenze epocali di rispondere a crisi di vario genere. Ogni poesia di ricerca in chiave ecologica dovrebbe rispondere al bisogno primario di decentrare l’uomo prima della catastrofe, fornendo gli strumenti per reagire, prendendo consapevolezza del proprio ruolo r-esistenziale rispetto ad un mondo reale e sempre più reattivo.

 

 

 

Bibliografia 

Italiano F., L'invasione dei granchi giganti, Marietti, 2010.

Harman G., Ontologia Orientata agli Oggetti, Carbonio, trad. a cura di Ellero O., 2021.

Morton T., Iperoggetti, Nero Edizioni, trad. a cura di Santarcangelo V., 2018.

Scaffai N., Letteratura ed ecologia, Carocci, 2017.

Jakob M,, Paesaggio e letteratura, Firenze, Leo S. Olschki, 2017.

Westphal B., Geocritica, Reale Finzione Spazio, Armando Editore, 2018.