Le fiaccole di Cerere

Su "Quando tornerai sulla terra" di Silvia Atzori
6 Marzo 2025

 

Nella sua opera prima Quando tornerai sulla terra, pubblicata nel 2024 per Arcipelago Itaca con prefazione di Giuseppe Nibali, Silvia Atzori fa i conti con cosa sia casa e cosa corpo. Si configura così uno spazio tra vestito e corpo: poesia è proprio questo lasciare spazio, questa stanza che ingrandisce mano a mano che proseguiamo tra le sezioni. La raccolta poetica, scandita dalle fotografie di Elena Fornasieri, è suddivisa in quattro sezioni configurate come fasi metamorfiche: Descensus, Prognosi, Il gioco della Catastrofe e Due Nomi. Questi stadi sono introdotti da Notitia Criminis I, componimento di apertura dell’opera poetica. Fra i diversi momenti Atzori ridefinisce la sua prospettiva nei confronti dell’esperienza vitale, partecipe di una dinamica di conflitto e scambio ripetuto tra casa, corpo e vestito. Questa dialettica culminerà in una liberazione incendiaria dal nome, allargando la prospettiva a un tu salvifico. Centrale la cornice ovidiana a cui Atzori fa sempre riferimento, non soltanto per l’apparato immaginativo e figurale che impronta in modo icastico la sua poetica, ma anche e soprattutto per una progressiva immedesimazione in Cerere stessa, madre di Proserpina e figura della realtà naturale.  

 

Da Notitia Criminis:

 

I

 

Le hanno cucito qualcosa nella stoffa del vestito.

Il presagio del lutto – gli occhiali

ancora non li portava neppure

erano frantumati.

Una borsa di tela – il portafogli – i documenti

quando ancora non li aveva persi. Nel passaggio

non ti serva avere un volto

o attributo iconografico.

 

[…]

 

Con questi versi tratti dalla prima stanza di Notitia Criminis I precedono l’apertura della sezione iniziale Descensus, Atzori configura subito la circolarità dell’opera. Proserpina, l’ultima sezione,  si apre infatti con l’emblematica discesa infernale, descritta da Ovidio ai versi 432-433 del libro IV delle Metamorfosi: “Est via declivis, funesta nubila taxo: / ducit ad infernas per muta silentia sedes”(“C’è una strada in discesa, sempre buia per l’ombra funesta dei tassi: è una strada immersa in un assoluto silenzio, che porta alla sede degli inferi”). Pochi versi più avanti vediamo comparire nella città di Dite ombre erranti ed esangui prive di carne e di ossa (“errant exsangues sine corpore et ossibus umbrae”, vv.443).

 

Ma a differenza delle ombre ovidiane, nude tanto da essere private del corpo, il primo verso fa da ingresso all’immagine del vestito che ci accompagna tra le quattro sezioni dell’opera (Descensus, Prognosi, Il gioco della catastrofe e Due nomi) almeno fino al concludersi della terza: in apertura a Due Nomi l’io si apre ad un Altro, la speranza in un qualche tu che ascolti, e in questo aprirsi sacrifica corpo dopo corpo per diventare ombra incendiaria. 

 

Le immagini finali sembrano tratteggiare l’inesausta ricerca di Cerere per Proserpina, di una madre per la figlia. La narrazione della ricerca ovidiana culmina ai versi: “[…]illa duabus / flammiferas pinus manibus succendit ab Aetna / perque pruinosas tulit inrequieta tenebras.”(Ella accese al fuoco dell’Etna due pini a mo’ di fiaccole e reggendoli nelle due mani si aggirava senza pace in mezzo alla bruma della notte).

 

Questa immagine incendiaria scandirà la sequenza finale fino alla chiusa infernale di Proserpina. Sarà proprio questo fuoco a liberare l’Io dal nome che lo opprime, riducendo l’esperienza vitale all’errare delle ombre. Nello spalancarsi sofferto all’aria tuttavia si aprirà una supplica all’altro, una preghiera alla pietà senza giudizio dei sentieri, come un ritorno a casa, un diverso abitacolo fatto non di lana ma di puro spazio, un luogo di preghiera.

 

Estratti da Descensus:

 

VIII

 

             Haud procul Hennaeis lacus est a moenibus altae,

                   nomine Pergus, acquae; non illo plura Caystros

                       carmina cygnorum labentibus audit in undis.

 

Il Cielo ha un colore estenuante, ricalca

all’infinito uno strato 

azzurro schermo rotto. Dentro

una tragedia di aerei

uccelli e altre chimere senza slancio.

 

    To use: Activate the spry pump

…………………………………………………………..

 

Capita a volte di pregare

così forte da strappare le pareti, quando

hai smesso di contare

gli occhi alla catastrofe? Proserpina

per me e per gli altri-in-me che non sanno

quanto ancora va temuto

assolutamente va temuto

il cavo legno nero del domani.

 

Tra le fotografie di Elena Fornasieri – in bianco e nero e volutamente fuori fuoco all’insegna di una velocità frenetica – ritroviamo le figure di stazione ferroviaria descritte in Descensus, a seguito del primo allontanamento da sé stessa: l’autrice infatti per arrivare alla stazione non esce soltanto dalla sua casa, ma va lontano / lontano più possibile da noi (Descensus, 5.45) – verso uno spazio che non s’incastra  con le azioni, tra finestrini sporchi e neon insopportabili che irrigidiscono l’aria, binari scanditi da linee azzurre e tremore di metallo.

 

Se Descensus III – come scrive Atzori nella Nota finale – riprende April is the cruellest month tratto da The Waste Land di T.S. Eliot, tra i componimenti VII e VIII si giunge a una rinnovata intimità. Dalla dialettica di avvicinamento-allontanamento di una continua ricerca vitale insoddisfatta si accende in questi versi il simbolo orfico delle stanze nei vestiti. La lente sporca – da cui vediamo il mondo – è figura di trasparente purezza intaccata dalla sterilità metropolitana, dove la realtà s’appiattisce e la terza dimensione mancante nell’io si proietta verticale sui palazzi.

 

Come descrive Agamben in Stanze, essere poeta significa essere capace di fantasmagoria, intessendo i propri fantasmi nel teatro della propria stanza. I vestiti – quegli stessi abiti che in Descensus IV danno prurito al corpo ed assediano la pelle – vengono ora trasfigurati in stanze da cui nasce la parola. Perché la poesia fuoriesca dall’ombra è tuttavia necessario lasciare spazio, allontanare la camicia stropicciata dalla pelle lucida. In Descensus VII ne troviamo conferma: “L’aria d’oltremondo s’invischia / nelle ciglia, nei capelli, / nelle stanze dei vestiti.”  Quest’aria d’oltremondo prefigura il vento che scuoterà l’intera persona in Prognosi IV. Cosa è stanza, cosa è corpo? – Se la vera stanza poetica è vento invisibile, allora il corpo deve lasciare spazio dentro, tra le ossa, deve scomporsi per riscoprirsi labirinto di pietra in un momento successivo. Nasce qui lo slancio che avvia la dinamica di dispersione interiore in grado di slegare le parti dal corpo (Prognosi III), a rifiuto dell’unico nome che le unisce, con l’inedita potenza incendiaria (Due Nomi) di ricerca verso l’altro.

 

Descensus VIII costituisce un anticipo di questa dinamica di liberazione e dispersione. In apertura troviamo tre versi tratti ancora una volta dalle Metamorfosi: Haud procul Hennaeis lacus est a moenibus altae / nomine Pergus, acquae; non illo plura Caystros / carmina cygnorum labentibus audit in undis.(C’è, non lontano dalle mura di Enna, un lago dall’acqua profonda il cui nome è Pergo. Vi si odono canti di cigni non meno numerosi di quelli che provengono da Caistro, tra il fluire delle onde). Questi versi intessono un collegamento con Il gioco della catastrofe II, che Atzori aprirà con i versi di Ovidio immediatamente successivi. Tra due scene emblematiche – da una parte Cupido, che apre la sua faretra persuaso dalla madre Venere e sceglie la freccia con la punta più acuta e uncinata per colpire il cuore di Dite, e dall’altra quella del rapimento amoroso di Proserpina da parte di Dite stesso ormai sotto l’effetto di Eros – troviamo versi che descrivono un locus amoenus di perpetuum ver. Questa primavera eterna è impersonata da Proserpina stessa, che per Atzori rappresenta il desiderio – ormai lontano – di una terra fertile e materna, che sappia vincere le linee verticali di binari e palazzi. D’altra parte il canto dei cigni anticamente simboleggiava l’ultima fioritura dell’io precedente alla catastrofe.

 

Mano a mano che proseguiamo tra le sezioni di Atzori si estrinseca una denuncia viva e ardente al pari delle fiaccole tenute in mano da Cerere nella notte della contemporaneità urbana. 

 

Contro l’azzurro schermo rotto del cielo ospite di una tragedia di aerei / uccelli e altre chimere senza slancio s’innalza una preghiera così forte da strappare le pareti. Questa supplica rappresenta il vero nucleo vivo al di là dei frammenti – tutti volutamente trasparenti – per lasciare intravedere la parola nuda e segreta come la pelle sconvenientemente lucida – la spiaggia consumata dalle maree (Descensus V).

 

La sezione Prognosi si apre invece con un appello ai doveri dell’Io poeta: “[… ] Non mi piace ma devo: / - Inquinare / - Curare / - Reinventare il rimosso, a dimostrazione della prima trasformazione della supplica interiore in verità fattuale e quasi partecipe di uno sconfinato senso civile, che però rimane segreto, ancora ricoperto e bloccato tra spettri d’ospedale e membrane d’encefalo (Prognosi I, II). 

 

Stagliatasi contro la disumanità ospedaliera contemporanea, ecco comparire in Prognosi III i segni tangibili della dispersione interiore da cui può nascere il rapporto con il tu: Era come se le parti si slegassero dal centro / Una mano poi un braccio/le due gambe, ma anche/le palpebre. Il seno. I capelli. / Tutto si rendeva indipendente, galleggiava / nel magma di un pensiero discontinuo. Il Giudizio si allontana dal corpo e porta con sé quel nome che era il solo a tenere insieme le parti del corpo. 

 

In Prognosi IV troviamo l’apice della scomposizione interiore: la spina dorsale si sfila e lascia spazio al vento, il solo capace di scuotere l’interezza della persona. Così si configurano spazi interiori oltre la materia del corpo – ma pur sempre dentro. Il vero corpo, ci accorgiamo, coincide soltanto con la stanza, diventa labirinto di pietra con l’acqua dentro che si fa casa: ”La ragazza è senza postura, la spina / dorsale deve essersi sfilata. / Non ci resta che strisciare, oppure / lasciare che il vento scuota / con l’aria entrata al posto delle vertebre”. 

 

La poesia si conclude con versi capaci di unire quei pini usati come fiaccole da Cerere in Metamorfosi V con il luogo intimo della poesia, a dimostrazione del valore emblematico di Cerere notturna, portatrice di fiamme per rischiarare il suo amore verso la figlia Proserpina, quasi inafferrabile come lo è oggi: “Se gli alberi potessero bruciare / produrrebbero – ha pensato / il suono che passa da fuori / fin dentro le coperte.

 

Stanza, abitacolo di preghiera, vestito, labirinto di pietra – tutti questi luoghi arrivano a coincidere in apertura della terza sezione, Il gioco della catastrofe: qui le figure ovidiane ritornano con grazia. 

 

Il gioco della catastrofe II si apre coi versi prossimi a quelli che abbiamo ritrovato in apertura di Descensus VIII: “Frigora dant rami, Tyrios humus umida flores / perpetuum ver est. Quo dum Proserpina luco / ludit et aut violas aut candida lilia carpit (…).” (La frescura scende dai rami e la terra irrorata produce fiori color porpora. È un’eterna primavera. Proserpina era lì nel bosco che giocava e coglieva viole e candidi gigli […]). La prima stanza riprende la dinamica iovestito, che ancora trattiene lo slancio poetico: “I vestiti ti fanno cerchio intorno. / Spazi assediati oggetti pareti senza/incognita: oltre lo spessore / si sente tutto e scava”. Se è vero che l’intreccio coi vestiti rimane, lo spazio della stretta camicia stropicciata di Descensus VII si allarga verso l’esterno a cerchio. Anche questo si romperà per liberare un autentico brillamento incendiario – sempre previsto, sempre accennato, ma non ancora avvenuto.

 

Da Il gioco della Catastrofe:

 

V

 

Gli alberi afferrano la strada dai bordi.

I prolungamenti degli oggetti

hanno conseguenze catastrofiche.

Ogni abitacolo è luogo di preghiera, anche

la lamiera dell’auto sembra fatta di lana.

 

Nei fili non è più incastrato niente.

Niente è trattenuto sotto il bordo della sclera.

Le gengive possono pulsare quando il morso

affonda nel senso che si svela.

                                                      Oggi

Sei rimasta dentro al corpo, oggi

hai trovato un riparo.

 

Ci troviamo al centro della dinamica di liberazione, in cui si trova senso. La supplica rivela il suo oggetto, la profondità s’inoltra nell’interno – è il centro della metamorfosi. Il corpo coincide con l’abitacolo, con il luogo di preghiera, un riparo. Il vestito diviene vero corpo, ma anche il corpo autentico vestito. Dal conflitto il movimento delle parti diviene pacifico, perché nei fili non è più incastrato niente. Così come in Ovidio la situazione edenica di Proserpina al lago precede il rapimento infernale, in Atzori questo  ritrovamento di significato precede la catarsi d’incendio. 

 

L’ultima sezione, Due Nomi, si rivolge all’oscura profondità freudiana e apre il tema del doppio. Compare un tu più saldo a cui ora è possibile riferirsi. In Due Nomi 0 scrive: Le date sono crudeli. / I nomi sono buoni / Per questo mi ci hai benedetta. Dal nome unico che opprimeva il corpo – a seguito dell’avvenuta dispersione delle membra e pacificazione dentro al corpo – ecco lo sdoppiamento in un’inedita pluralità di nomi. Ora è più che mai vitale non sprecare niente di questa intesa: “L’Altro dispensa significati ma io / non mi accontento a me non basta voglio / soprattutto che mi corrisponda che sia / in qualche modo d’accordo con me.” – scrive alla pagina seguente. Inizia un crescendo di slancio ormai inarrestabile, il cui punto vivo è la chiusa di Santa Maria del Monte: “Qui ci vengo per pregare, ma fuori dal santuario / la terrazza sui monti fa sperare / in un qualche tu che ascolti.” Dopo la rivelazione salvifica dei primi versi (“Una volta da piccola ho smesso di mangiare. Era quasi come adesso ma / [non ero / mai morta per davvero.”) – ecco la speranza profonda in un tu capace di ascoltare la preghiera senza il Giudizio che smembra le parti del corpo come la solitudine del nomeIn un continuo dialogo con Proserpina ogni nodo intimo viene alla luce, mentre si prefigura l’accostarsi dell’io poetico alle ombre ovidiane infernali. Lo sguardo si allontana verso uno spazio primordiale e complesso, ci mostra come nulla di questa vitale metamorfosi sia immediato, ma partecipe sempre della vita stessa. Per questo allontanare lo sguardo all’Altro è tanto difficile: “Del resto stai guardando il conflitto e la corolla da fuori / come l’occhio che non tocca, oppure / non sa come evitare l’abrasione”. Questo spazio primordiale è il bozzolo della crisalide metamorfica, che precede i timbri accesi delle ali.

 

Ecco la vetta formata da roccia metamorfica e lave come l’Etna di Cerere errante: “Credo / che tu ci abbia preso gusto a sacrificare. / Corpo dopo corpo sei diventata incendiaria / se qualcosa resta da ardere / non è più nemmeno tua.” Questo gusto incendiario è l’emblema della poesia stessa, capace di salvare una vita attraverso il suo rivelarsi su carta bruciante. L’io dirà: “Ho creduto a un nome che non è il mio”. 

 

PROSERPINA

 

Est via declivis funesta nubila taxo,

via Scalarini incontra lo Stige in quel punto

ducit ad infernas per muta silentia sedes

l’ombra è ancora tra quelle recenti, fresca

poco più che ventenne.

 

Vi è discesa nel sonno ma adesso

lo stigma luminoso della flebo segue

qualcosa tra le corsie. Ancora

poco tempo e sarà

di nuovo al di sopra. La prossemica

del pericolo non ci avrà abbandonate.

 

Quando sei diventata? Era

il giorno dell’anniversario: luglio

per sempre ferito sull’asfalto

E come ti sei salvata? Lei

non mi ha ancora salvata.

 

Lo Stige infernale incontra una via cittadina, l’antico incrocia il presente civile. Il divenire ombra consente all’io di oltrepassare la realtà puramente materiale per giungere alle vette incendiarie dell’oltretomba – l’eterno sconfina nel reale, un’eternità cangiante e mai statica. 

 

Cerere che sradica i due pini sull’Etna al vento notturno è figura della poesia di Silvia Atzori, il desiderio per il perpetuum ver – l’eterna primavera – resiste. I movimenti magmatici del reale non ostacolano Cerere, anzi l’avvantaggiano donandole luce per cercare la figlia amata Proserpina, figura della terra materna. Per questo motivo la rinascita ultima e risolutiva per l’io non può giungere ancora – non prima dell’arrivo dell’anima all’oltretomba – perché la missione civile e lo slancio ardentemente incendiario siano inesauribili come lo sono i due pini a mo’ di fiaccole – resistenti al fuoco da lei stessa generata per la vita.  Gli ultimi due versi – scrive Atzori nella Nota finale – sono ispirati a quelli di Antonia Pozzi: “E come sei rinata? / Non sono ancora rinata”. 

 

Allora desidero concludere questa riflessione con versi della stessa tratti da Esempi, da Poesie Pasturesi:

 

Anima, sii come il pino:

e poi arriverà la primavera

e tu la sentirai venire da lontano,

col gemito di tutti i rami nudi

che soffriranno, per rinverdire.

Ma nei tuoi rami vivi

la divina primavera avrà la voce

di tutti i più canori uccelli

ed ai tuoi piedi fiorirà di primule

e di giacinti azzurri

a zolla a cui t’aggrappi

nei giorni della pace

come nei giorni del pianto.

 

Silvia Atzori è nata in provincia di Varese (1998), dove vive e lavora come insegnante di lettere. È laureata in lettere moderne presso l’Università degli studi di Milano, dove si è dedicata soprattutto allo studio della poesia italiana del secondo Novecento. È redattrice di Medium Poesia. Suoi articoli e testi sono comparsi su diverse riviste, testate giornalistiche e blog. Ha partecipato ad alcuni progetti legati alla scrittura poetica, tra cui la prima edizione del laboratorio La poesia si fa città, presso l’Università IULM. 

Nel 2023 è risultata tra i vincitori di Pordenonelegge Esordi.