La vita è altrove sulla terra

La figura di Proserpina nella poesia di Silvia Atzori, tra mito e rapporti di potere
4 Ottobre 2023

 

 

Silvia Aztori è una poetessa nata nel 1998 a Cittiglio (Varese), i cui testi apparsi sull’antologia La poesia che si fa città, a cura di Tommaso di Dio e Paolo Giovanetti, per Zacinto Edizioni. Nel 2023 la sua silloge La vita è altrove sulla terra è risultata vincitrice al premio Pordenone legge esordi, ed è disponibile in fromato EBook sul sito della fondazione Pordenone. In questa breve nota della raccolta di Atzori, si cercherà di evidenziare come la sua poesia si serva degli strumenti della mitologia per decostruire con naturalezza il mito di Proserpina, affrontando in una chiave al contempo impersonale e intima la tematica dell'abuso già rappresentata, anche se secondo una diversa prospettiva, in quasi tutte le rivisitazioni del racconto.

 

Esistono diverse versioni del mito di Proserpina, Persefone nella tradizione greca. Qui ci soffermeremo su quella di Ovidio, autore chiamato in causa direttamente da Atzori, che nella poesia che conclude la silloge cita direttamente il libro IV delle metamorfosi, dove viene descritto il paesaggio sotterraneo delle regioni infere e la via che conduce ad esso (anche se in questo caso a recarvisi è Giunone). Il ratto di Proserpina viene narrato da Ovidio nel libro V, a partire dalla seguente premessa: Venere chiede ad Amore di colpire al cuore Plutone (o Dite), Dio degli inferi, figlio di Saturno e fratello di Giove e Nettuno. Plutone, emerso dal suo regno, s’innamora subito di Proserpina, figlia della dea Cerere che, accompagnata da altre ragazze, sta cogliendo fiori nelle vicinanze di un lago (alcune interpretazioni successive vorrebbero che quei fiori fossero viole, come quelle raccolte da Ophelia nell’Amleto, altri asfodeli, pianta ad oggi associata al culto dei morti). Sollevandosi dalle acque su un carro trainato da cavalli neri, Dite rapisce Proserpina, trascinandola con la forza negli inferi. Ciane, una delle ragazze che la accompagnano, cerca di fermarlo, venendo però trasformata in una fonte. La dea Cerere, addolorata per la perdita della figlia, provoca una lunga siccità, convincendo Giove a intervenire mandando Mercurio, suo messaggero, a chiedere a Plutone di liberare Proserpina. Il dio però costringe la donna a mangiare dei chicchi di melograno, voto di fedeltà coniugale, così che Proserpina sia per sempre legata lui. Giove quindi stipula un accordo col fratello, quello che tutti conosciamo: Proserpina trascorrerà metà dell’anno, quella corrispondente all’autunno e all’inverno, nel regno dei morti, e l’altra metà, corrispondente alla primavera e all’estate, sulla terra. Il culto di Proserpina è quindi associato a quello dei morti, essendo regina degli inferi, così come a quello della primavera, intesa come rinascita del mondo.

 

Proprio con un riferimento al ritorno dal mondo dei morti si chiude il componimento che apre la raccolta di Slvia Atzori:

 

NOTITIA CRIMINIS (I)

 

Le hanno cucito qualcosa nella stoffa del vestito

il presagio del lutto - gli occhiali

ancora non li portava oppure

erano frantumati

Una borsa di tela - il portafogli - i documenti

quando ancora non li aveva persi. Nel passaggio

non ti serva avere un volto

o attributo iconografico.

La bocca ha un rivolo di sangue - i denti sono sani.

L'hanno fatta stendere perché non tremi

L'orecchino destro è rimasto sulla terra, opaco per lo schianto:

il pegno è stato pagato. Adesso

dovrà elencare le sue colpe prima di continuare.

Non ti cercheranno qui ma il debito

non si scorderà di te.

La flebo - l'odore del disinfettante - incantamento - insetticida

lo sguardo di tua madre senza domande - le lenzuola

pulite - il libro

Solo tu ricorderai

                             tutto questo, quando

                                                                tornerai sulla terra

 

Il titolo mette da subito in chiaro il tema della la silloge. Qualcuno è stato sottratto con la forza al mondo dei vivi, la protagonista, che aveva uno strano nome con la P. / oppure / aveva un nome semplice, c’entrava con il bosco. Proserpina o l'autrice? Non è questa la domanda a cui ha senso cercare di dare una risposta. Il ratto di Proserpina non serve soltanto a rappresentare metaforicamente la realtà dell'abuso: la violenza infatti non è argomento principale del libro, anzi: al centro è la persona – termine forse erroneo per riferirsi al concetto che qui vorrei esprimere, poiché sarebbe da intendersi qui in un senso più ampio rispetto a quello di soggettività. Se Simone Weil, ne La persona e il sacro, muoveva una critica giustificata al personalismo, parlando a quella parte dell’essere umano, propria di ogni essere umano nella sua singolarità, che viene offesa qualora subisca un’ingiustizia, allora allo stesso modo la figura che reclama la propria identità attraverso Proserpina è individuo, un individuo che ha subito una violenza, ma non è un soggetto vero e proprio, se consideriamo il fatto che troppo spesso il soggetto è definito mediante la sua specificità. Molti componimenti fanno quindi uso della terza persona e, nonostante da essi si possano evincere dettagli forse biografici, questi dettagli non servono tanto a caratterizzare il personaggio, o a far emergere la personalità dell’autrice, quanto più a presentare la storia che qui si vuole raccontare nella sua unicità, costringendo il lettore a “prenderla sul serio”, a guardare a quanto riportato come si guarda alla realtà dei fatti, nella loro complessità. Se quindi il mito di Proserpina è sedimentato nell’immaginario collettivo, Atzori sceglie di dare una voce propria a una figura archetipica, che non è più solo vittima – racconta una storia, la storia di un sopruso, davanti a cui non si può restare indifferenti.

 

Il racconto non segue un vero e proprio ordine cronologico: nell’atmosfera degli inferi sembra sempre di essere dopo qualcosa che è già successo, anche quando si cerca di raccontarne l’antefatto. Inizia la discesa. Gli inferi di Atzori sono luoghi di passaggio. stazioni ferroviarie. Vagoni della metro tutti uguali, treni regionali con finestrini sporchi che riflettono l'interno. Poi stanze di ospedale, flebo per orientarsi nel labirinto, e fuori La verticale solida dei palazzi. Spazi liminali, dove la realtà sembra incrinarsi. Gli orari, le date guidano il lettore nel percorso, ma più come cartelli stradali che effettivi segni dello scorrere del tempo sotterraneo (diverso da quello in superficie) fino a quando anche La figura sempre più a stento / sopporta il peso di un nome. Come evidenziato in precedenza, Atzori passa con agilità dalla prima alla terza persona nel corso dello stesso testo, poi alla prima persona plurale femminile: gli assoluti ci avranno abbandonate / come la carne dalle arance spolpate / sempre più private inconsistenti / sempre meno sempre più ossa occhi / e meno denti. Ho scelto di evidenziare questo passaggio perché, quando Ovidio parla della metamorfosi di Ciane in fonte, lo fa in questi termini:

 

avresti visto snervarsi le sue membra,

le ossa flettersi, le unghie perdere durezza;

e per prime si sciolsero le parti più sottili:

i capelli color del mare, le dita, i piedi e le gambe

(basta un attimo per mutare in acque gelide

l’esilità delle membra). Poi furono le spalle, il dorso, i fianchi,

il petto ad andarsene, svanendo in rivoli evanescenti;

infine in luogo del sangue vivo penetra l’acqua nelle vene

in dissoluzione e nulla più rimane che si possa afferrare.

 

Traduzione tratta da: Ovidio, Metamorfosi, a cura di Ramous M., Garzanti, Milano 1999, vol. I, pp. 205-209

 

Le vittime di Plutone perdono consistenza, identità corporea nel trapasso, che questo avvenga nei dedali di pietra del sottosuolo o nell’acqua che, nella tradizione romana, serve da portale tra il mondo dei morti e quello dei vivi (basti pensare al lago d’Averno nell’Eneide, o al fatto che Dite, nella versione di Ovidio citata in precedenza, emerga appunto da uno stagno in Sicilia). Comunque sia Ciane e Proserpina, come spesso le donne mortali di Ovidio, sono costrette al silenzio delle piante e dei fiumi. Viene tolta loro la voce, vengono private della propria forma. Ma qui Proserpina prende la parola.

 

 

P:

«Le ferite mi hanno sempre spaventata, ricordo 

quella volta nel cortile dietro casa e ancora 

risento l’asfalto

fregare il ginocchio in profondità.

Il problema non era tanto il sangue, ma

non ho imparato a non temere la materia

la sostanza che invade l’interno, il fatto

che contamina.

La scheggia sotto la pelle

avrebbe potuto restarci in eterno

cosa meglio che un grumo di sangue ospita 

il dubbio dell’assedio.

                                    Ho imparato

a non pensare al sesso in quel modo»

 

Benché il tono possa sembrare dimesso, e nonostante il dubbio, Proserpina sa che: Tutto / dice che ho / un po' di ragione anche io, e quindi l’enunciazione è chiara, non lascia spazio a fraintendimenti. Proprio il dubbio diventa un altro tema ricorrente nel corso della silloge. l’argomento è però trattato con il giusto distacco – perché solo se lo si affronta con freddezza, in una prospettiva descrittiva più che analitica, il dubbio perde il suo potere. Sospendendo, per un attimo, il discorso critico, mi sembra corretto spiegare cosa si intenda quando si parla di dubbio in relazione a una situazione di abuso, fisico o psicologico che sia. Sia chiaro, di questo dubbio la persona che subisce violenza non può essere responsabile, essendo inserita in una cultura in cui la colpa troppo spesso viene fatta ricadere sull’abusato piuttosto che sull’abusante (si parla, appunto, di victim blaming). Poiché la narrazione dell’oppressore sovrasta per sua prerogativa quella dell’oppresso, ogni individuo si guarda attraverso una lente patriarcale, e così facendo si trova costretto a chiedersi se davvero quanto gli è accaduto possa essere considerato una violenza, se i suoi sentimenti siano validi, o se invece sia colpa sua. 

Proprio perché la nostra cultura trova la sua origine in una società patriarcale (eredità di cui, a mio avviso, non ci siamo ancora liberati) quando Silvia Atzori si serve della mitologia per raccontare una storia di abusi dalla prospettiva di chi ne è stato vittima, fa propri i medesimi strumenti archetipici che l’uomo ha usato per mantenere il proprio privilegio, e opprimere la donna o chiunque non si conformasse allo standard di mascolinità del tempo, nel corso dei secoli:

 

Non mi avevi detto di non sporgermi

che l'acqua fuori era diversa, più gelida.

Il labirinto di pietra è diventato la mia casa e l'uomo

che si aggira nel mio corpo

non ha nulla a che vedere con noi.

 

Il chicco di melograno ha messo radici nello stomaco di Proserpina. Plutone resta dentro di lei, anche d’estate. Ma non ha nulla a che vedere con lei. Certo, la strada verso il mondo dei vivi è ancora lunga. Non basta Proserpina a salvarci, non ancora. Dopo millenni di silenzio, qualcuno deve ascoltare quello che ha da dire.

 

PROSERPINA

 

Est via declivis funesta nubila taxo,

via Scalarini incrocia lo Stige in quel punto 

ducit ad infernas per muta silentia sedes 

l’ombra è ancora tra quelle recenti, 

fresca poco più che ventenne.

Vi è discesa nel sonno ma adesso

lo stigma luminoso della flebo segue 

qualcosa tra le corsie. Ancora

poco tempo e sarà

di nuovo al di sopra - la prossemica 

del pericolo non ci avrà abbandonate.

Quando sei diventata? Era

il giorno dell’anniversario, 

luglio per sempre ferito sull’asfalto

E come ti sei salvata? Lei

Non mi ha ancora salvata.