La Digressione e La Terra Guasta

Gian Marco Griffi e T.S. Eliot
8 Agosto 2025

 

In Digressione, il romanzo di Gian Marco Griffi appena uscito per Einaudi nella collana Stile Libero, ci sono anche due poesie originali. Sono tutte e due state composte, in un modo o nell’altro, a Pantelleria. La prima è questa:

 

Sei piccoli soldati ubriachi in una cambusa,
se ne stanno a Pantelleria da tredici primavere.
Il console gioca a golf con sommo piacere,
e loro fremono alla pensione Wilusa.

 

Sono quattro versi che non presentano una particolare struttura ritmica, a parte la rima incrociata (ABBA) e il fatto che gli ultimi due versi presentano lo stesso numero di sillabe (ma non la stessa disposizione di accenti) e una specie di identità consonantico-accentuativa all’inizio del loro secondo emistichio, “con sommo” e “pensione”, con-som; pen-sion, ossia con un accento in “o” (che nell’ultimo verso dittonga con i semivocalica) fra due nasali (“n”; “m”), la prima delle quali anticipata da sibilante “s”: il che, se unito alla ripetizione nel terzo verso con-sole; con-sommo, rende questi versi conclusivi particolarmente soddisfacenti da pronunciare. Se si esclude la forma metrica (che richiederebbe 5 versi con un rigido schema accentuativo), a livello strutturale questo potrebbe essere un limerick: dei protagonisti (sei soldati) in un luogo molto specifico (Pantelleria, la pensione Wilusa) collegati a una realizzazione o un fatto (il console che gioca) subiscono uno sviluppo (passando da “stare” a “fremere”).  Per chi non ha letto la penultima parte del libro, “L’isola”, questi soldati, il golf, l’isola di Pantelleria e la pensione potrebbero sembrare dettati esclusivamente dal registro nonsense da filastrocca seriale del limerick; chi invece è arrivato a pagina 898, dove sta la poesia, sa che sono tutti elementi funzionali al racconto. Senza stare a spiegare le modalità della loro funzionalità, passiamo all’altra poesia di ispirazione “pantelleresca”, composta dal “celebre poeta fascista” Patroclo Giovinazzi per gli Asini di Mussolini (che vivono e vengono venerati a Pantelleria). Si tratta di un’ode di cui abbiamo a pagina 461 soltanto la prima strofa e quella conclusiva:

 

O nobile bestia dalle umili vesti,
che porti il fardello nei giorni molesti,
tu, compagno silente di mille fatiche,
che calpesti il suolo di pietre antiche.

 

[...]

 

O orecchie gentili, rivolte al vento,
ascoltate il canto del mio sentimento!
Per te, che sopporti il peso e l’affanno,
innalzo quest’ode che squarcia l’inganno.

 

Anche qui il metro è incerto: l’ode sembra essere costruita su senari doppi (con qualche oscillazione), un po’ alla maniera del Canto degli Italiani di Mameli (che è costruito su senari, di cui però il primo e il terzo di ogni strofa sono sdruccioli e non rimano), tanto che i primi due versi dell’ode del Giovinazzi presentano in rima le stesse consonanti dei versi iniziali del Canto di Mameli: vesti-molesti; desta-testa (Fratelli d’Italia, / l’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio / s’è cinta la testa). Eco involontaria dello pseudo-Giovinazzi? Inquietante in tal senso sarebbe la sovrapposizione anche strutturale tra “Fratelli d’Italia” e “O nobile bestia” (riferito all’Asino sacro di Mussolini), dato che nell’Ottocento il dittongo a fine di parola (come nel caso di “ia” in”Italia” e “bestia”) contava come parola sdrucciola, alternativa alla rima se abbinata a un’altra parola sdrucciola, per chiudere il verso. A prescindere da questi aspetti di eco, memorie e riscritture, è interessante constatare come queste due poesie “brutte” (quella del Giovinazzi è detta “la più brutta poesia mai composta”) siano entrambe state scritte a Pantelleria e da autori fascisti (nel caso del limerick iniziale abbiamo buone ragioni di credere che sia stata composta da Ammazatopi, del 111° Reggimento Osservatori Salvaguardia e Protezione Obelischi del Duce, detto “ROSPO”). Diventa ancora più interessante nel momento in cui nel libro sono citati un bel po’ di poeti più bravi del Giovinazzi e dello pseudo-Ammazzatopi: sia classici del Novecento come Brecht, Thomas e Rilke che autori italiani nati tra gli anni 40 e 50. Ci sono dirigenti di supermercati che discutono di Eugenio De Singoribus e Milo De Angelis (“lo ricordo come se fosse ieri, il dottor Muriani, che coraggio, che forza di volontà, che facondia: mi domandò se mi piaceva la poesia e io risposi di sí, che mi piaceva moltissimo, e conversammo di Eugenio De Signoribus, di Dario Bellezza, di Milo De Angelis, che persona illuminata, il dottor Muriani”, pagina 788) una madre che declama i Sonetti d’amore per King-Kong di Gino Scartaghiande e Il Galateo in bosco di Zanzotto mentre fa le pulizie di casa a pagina 658 (ecco un estratto dai Sonetti d’amore per King-Kong: Ah! il nero, il nero, il nero. Ho perduto / le mani e il viso. Ho perduto tutto / il mio corpo // Ah più niente. Solo il nero.) Ma di tutti mi è sembrato che il più presente fosse un autore che non viene menzionato nemmeno una volta in tutte le 1000 pagine di “Digressione”. Si tratta di T.S. Eliot, che per Griffi è fondamentale come autore di The Waste Land: La Terra Desolata (Einaudi, 1965); o: The Waste Land: Terra Devastata (Il Saggiatore, 2021); o: The Waste Land: Terra Guasta (Balasi Nanni, 2022). Sulla traduzione in italiano più adeguata del titolo manca una proposta che metta tutti d’accordo, nonostante il fatto che proprio Eliot avesse “approvato” la traduzione di Roberto Sanesi “La terra desolata” (ma non ci si può fidare troppo degli scrittori quando vanno a mettere le mani negli aspetti più di “contorno” dei loro testi). Il ventaglio più ampio di possibili traduzioni del titolo proposte per iscritto a me noto è un articolo pubblicato il 19 dicembre del 2010 su Nazione Indiana (qui: https://www.nazioneindiana.com/2010/12/19/terra-desolata-o-paese-guasto/ ) da un poeta e traduttore, Franco Buffoni, che al terzo paragrafo scrive: 

 

Forse, una riflessione sul titolo del suo capolavoro può essere illuminante. Sempre tradotto in italiano con “terra desolata”, in effetti potrebbe richiamare il verso di Dante “In mezzo mar siede un paese guasto” (Inferno, XIV, v. 94). “Guasto” come il senso di disperata accidia che nell’opera coinvolge il rapporto sessuale tra la giovane commessa e il rappresentante di commercio nel monolocale [la parte III della Waste Land, ndr]. Guasta come l’impossibilità dell’autore ad essere onesto sulla propria identità sessuale.

 

Waste Land: Terra guasta. La cosa bella di Nazione Indiana erano i commenti: nemmeno quelli di questo intervento deludono. Il 19 dicembre, alle 19:14, marco rovelli ricorda che: una ventina d’anni fa “wasteland” è stato tradotto da stampalternativa con il titolo “il paese guasto” Waste Land: Paese Guasto. Il giorno dopo, rigodon: che ne direbbe di terra devastata? Waste Land: Terra Devastata. Il 22 dicembre, alle due di notte, andrea raos: Waste Land: Terra Vasta. Sei ore dopo, orsola puecher: Waste Land: Terra Sterminata. Giorni dopo, all’ora di cena, Marco Giovenale ricorda un’edizione Mursia (supponiamo del 1976) Waste Land: Terra Guasta. Passa una settimana di silenzio nei commenti, poi Mourenho (sono le 9:29):

Il Re Pescatore ha una menomazione ai genitali, e ha difficoltà a muoversi. La sua menomazione si ripercuote sul suo regno, che si è trasformato in una “terre gaste”. La ferita è una punizione per peccati commessi in passato, e ha un’analogia con quella al costato di Cristo (l’arma in entrambi i casi è Lancia del Destino).

Tutto ciò in Chrétien de Troyes (nomen omen).
 

Tre ore dopo, sempre Mourenho:

 

L’ancien normand wast, vast « terre inculte, friche, jachère », forme normano-picarde de l’ancien français gast, de même sens, mais qui a également eu ceux de « ravage, pillage; dilapidation » qui le rattachent au verbe gaster « ravager, dévaster; détruire ». Les mots wast / gast sont issus du gallo-roman °WASTU, reposant sur le croisement du latin vastus « vide, désert; dévasté, ravagé; inculte » [1] et du francique °wōsti [2], de même sens [3].
Dans certains cas, cet élément peut aussi correspondre à l’adjectif wast, vast / gast « dévasté, ravagé; abandonné, désert; inculte, en friche », de même étymologie.

1. Le latin vastus est issu de l’indo-européen °wās-to-s, dérivé adjectival en -to- du radical °wās-, élargissement en -s de °wā-, autre élargissement de la racine °eu- « vide » au degré zéro °w-.
2. Le francique °wōsti procède de la formation indo-européenne parallèle °wās-ti-.
3. Plusieurs croisements du même type se sont produits en gallo-roman, lorsque certains mots latins ressemblaient à leurs équivalents francique, expliquant le passage de v- latin à W- gallo-roman, aboutissant à g(u)- en français (produit régulier de w- germanique, qui se maintient en normano-picard) au lieu de v- : c’est le cas en particulier de guêpe (latin vespa; forme dialectale normande vêpe), guéret (latin vervactum; forme dialectale normande varet, voret) et gué (latin vadum; forme dialectale normande vey).

 

A questo punto i commenti al post vengono chiusi: l’ultimo commento è quello in francese di Mourenho (che ha una breve ma brillante storia da commentatore di Nazione Indiana, tra dicembre 2010 e gennaio 2011. Per esempio: una volta riporta come risposta un intero passaggio da Alcyone: 

 

Di questo mese m’apparecchio l’aia. La mondo e sarchiellata lievemente la concio con la pula e con la morchia sicché difenda la biada da topi e da formiche e d’altra genta infesta. E poi la piano con la pietra tonda, o con legno; o pur suvvi spargo l’acqua e suvvi metto le mie bestie, e bene co’ piedi lor la faccio rassodare; e poi si secca al sole. Di questo mese nel solstizio, quando il Sol non puote più salire, semino le brasche; le qua’ poi di mezzo agosto trapiantar mi bisogna in luogo irriguo. E la bietola e l’appio e il coriandro e la lattuga semino, ed innacquo. Colgo la veccia, e sego per pastura il fien greco. La fava anzi la luce vello, scemante la luna; la fava, anzi che compia lo scemar la luna, batto; e refrigerata la ripongo. Di questo mese inocchio il pesco, impiastro il fico, vòto l’arnia, il condottiero eleggo nel gomitolo dell’api. E prossima si fa la mietitura dell’orzo, la qual compiere mi giova anzi che mi comincino a cascare le spighe, imperocché non son vestite sue granella di foglie, come il grano. Da giovine sei moggia il dì potei segarne!; 

 

senza altre spiegazioni; un’altra volta, proprio una settimana prima del commento sul Re Pescatore, risponde a Marco Giovenale su Broggi che l’installazione à La Palice è già stata fatta nell’età del bonzo (La Paliceade). Scopriamo in questa occasione che Mourenho ha un doppio che si chiama Murenho e che fa un solo commento: non sono Mourenho. Vengono chiusi i commenti al post, che trovate qui: https://www.nazioneindiana.com/2010/12/25/strenne-alessandro-broggi-2010/) Questo commento in chiusura al post mi impressiona moltissimo: forse è per il fatto di essere l’ultimo, in due tempi separati da tre ore (mi fa pensare che Mourenho sia stato a fare ricerche fino a mezzanotte passata, da solo), prima che tutta la sezione venga chiusa; forse è perché penso che queste tre ore Mourenho le abbia impiegate a copiare carattere per carattere una pagina da un dizionario etimologico della lingua francese (ma senza indicare la sua fonte); forse è per l’indignazione che sento dietro questo Mourenho che prova a spiegare che un verso a caso dal XIV canto dell’Inferno non può stare dietro al titolo di The Waste Land nel momento in cui esiste il precedente così ingombrante della “terre gaste” arturiana (che gli stessi filologi romanzi traducono con “Terra Guasta”) a cui faceva esplicitamente riferimento Eliot, scoprendo qualche carta nelle note. Resta il fatto che con Mourenho mi trovo d’accordo: la Waste Land di Eliot è a sua volta un titolo tradotto dall’antico francese, una Terre Gaste che noi (coi nostri studiosi di antico francese) chiamiamo Terra Guasta. Il riassunto che Mourenho dà della storia non è esaustivo, e per avere una versione più completa possiamo andare tra la fine di pagina 858 e l’inizio di pagina 859 di Digressione di Gian Marco Griffi:

 

Non dire così, disse Arturo. Tu sei il mio Re pescatore.
Regina pescatrice, specificò Tilde.
Regina pescatrice?, domandò Arturo, e tracannò mezza pinta d’acqua.

Hai qualcosa in contrario?, domandò Tilde.
Pescatrice non si usa, disse Arturo.
Certo che si usa, disse Tilde.
È come pastore, come ingegnere, come muratore, disse Arturo. E il re pescatore è un personaggio specifico, il custode del Graal, mentre la regina pescatrice non è niente. Racimolò ancora una punta di marmellata dal fondo del vasetto e ciucciò il cucchiaio. C’è la rana pescatrice, però. Mia mamma la faceva al forno con le patate e i pomodorini.
La Regina pescatrice è seduta nella sua sala, pallida e sofferente sulla sua carrozzina, disse Tilde, e il giovane cavaliere che avrebbe potuto sanare la sua ferita e salvarla soltanto ponendole la domanda giusta non osò parlare. Così il dolore della Regina si rinnovò, e la terra restò desolata.
Qual è la domanda giusta?, domandò Arturo.
Perché deve essere così? disse Tilde.

 

La scelta di parole per descrivere la terra del Re pescatore / della Regina pescatrice, con quel “desolata”, è sicuramente una strizzatina d’occhio che Griffi fa a The Waste Land (e che troviamo anche nella quarta di copertina, al plurale: “Immaginate [...] terre esotiche e terre desolate”); ma non è l’unica. Sempre tra le strizzatine, non riprese strutturali ma citazioni fatte al volo e che appena dette vengono subito riassorbite nel testo, si va dalle più evidenti, come il nome dell’associazione dei Rievocatori littori del “Mese più crudele” (April is the cruellest month) oppure la festa a Pantelleria Sudest della “Veglia dei morti per acqua” (la Death by water della quarta parte) a pagina 879, fino a quelle un po’ più nascoste e che etichettare come riprese può diventare un po’ rischioso, come nel caso di “in campagna, dove ci si sente liberi” a pagina 616; o a pagina 686 “Io me ne andavo in montagna con mio padre e mio fratello, sul monte Meron. Lassù ci si sente liberi” (e qui sta parlando la Regina Pescatrice Tilde) (In the mountains, there you feel free; nelle montagne, lassù ci si sente liberi Balasi Nanni, 2022), oppure il mazzo di giacinti che a pagina 959 viene regalato dopo “uno scroscio improvviso di pioggia mista a neve” nei pressi del “Zardin Grant”, che come situazione ricorda lo scroscio di pioggia (a shower of rain) che sorprende nell'Hofgarten i due personaggi, di cui poi si ricorderà che You gave me hyancinths first a year ago (“Mi desti dei giacinti la prima volta un anno fa”; Balasi Nanni, 2022), sempre giacinti. Ci sono poi gli inserti veri e propri: leggendo ho notato tre punti che sono una riproposizione parola per parola di tre passaggi della Waste land. Il primo è a pagina 66: se confrontiamo “Lola Salazar sedeva su un seggio like a burnished throne, el brillo de sus joyas incontrava la luce delle candele che si riflettevano sul marmo e sullo specchio held up by colonne lavorate con sarmientos di vite; unguenti, powders y lìquidos turbavano, confudìan and drowned il senso in profumi, mentre le candle flames si allungavano e si accorciavano alimentate dall’aria” (il miscuglio linguistico è giustificato dal narratore che si districa fra più lingue per farsi capire meglio) con The chair she sat in, like a burnished throne, / Glowed on the marble, where the glass / Held up by standards wrought with fruited vines [...] In vials of ivory and coloured glass / Unstoppered, lurked her strange synthetic perfumes, / Unguent, powdered or liquid - troubled, confused / And drowned the sense in odours; stirred by the air / That freshened from the window, these ascended / in fattening the prolonged candle-flames (dall’inizio della seconda parte A game of chess “Lo scranno su cui sedeva, come un brunito trono, / rifulgeva sul marmo, dove lo specchio / retto da stendardi cinti da fruttifere viti [...] In fiale d’avorio e vetro ridipinto / stappate, si annidavano i suoi strani profumi sintetici, / unguenti, incipriati o liquidi - turbati, fatti confusi / e immersi i sensi, tra gli odori; smossi dall’aria / che rinfrescava dalla finestra, questi si alzavano / a ispessire le prolungate fiamme da candela”; Balasi, 2022). Le altre due sono più brevi; inoltre, provengono entrambe dalla quinta parte, What the thunder said. La prima la troviamo a pagina 598: “Dopo la luce rossa delle torce sui volti sudati e dopo l’angoscia nei luoghi pietrosi e i gridi e i pianti e tutto il resto” che fa il paio con After the torchlight red on sweaty faces / After the frosty silence in the gardens / After the agony in stony places / The shouting and the crying (Dopo la luce di torcia rossa su facce sudate / Dopo il gelido silenzio nei giardini / Dopo l'agonia in luoghi di roccia / Il gridare e il piangere; Nanni, 2022) la seconda, a pagina 772: “Un tizio s’aggira tra la folla, sulla giacca ha un adesivo che lo identifica come Ernest Shackleton. Si avvicina al professore e gli domanda: chi è il terzo che sempre ti cammina accanto? Se conto, siamo soltanto tu e io insieme. Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca c’è sempre un altro che ti cammina accanto, che scivola ravvolto in un ammanto bruno, incappucciato. Io non so se sia un uomo o una donna - ma chi è che ti sta sull’altro fianco?”, che è una traduzione parola per parola di Who is the third who walks always beside you? / When I count, there are only you and I together / But when I look ahead up the white road / There is always another one walking beside you / Gliding weapt in a brown mantle, hooded / I do not know whether a man or a woman / - But who is that on the other side of you? (Chi è il terzo che cammina sempre accanto a te? / Quando conto, ci siamo solo tu ed io insieme / Ma quando guardo avanti su per la strada bianca / Ce n'è sempre un altro che cammina accanto a te / Che scivola avvolto in un mantello bruno, incappucciato / Io non so se un uomo o una donna / Ma chi è quello dall’altro lato di te? Nanni, 2022). A completare la citazione il fatto che queste parole vengano fatte pronunciare a una versione dell’esploratore Ernest Shackleton, che Eliot ricorda nella nota in cui delucida alcuni aspetti del passaggio sul terzo che cammina accanto: “I versi che seguono sono stati suggeriti dal resoconto di una delle spedizioni antartiche (ho dimenticato quale, ma credo una di Shackleton)”; Ponte alle Grazie, 2022. Oltre a queste citazioni testuali, bisogna aggiungere una ripresa tematica: tutta la parte del romanzo intitolata “Il giorno delle elezioni” sembra infatti amplificare, soprattutto verso la fine, con le piante che spuntano dai cadaveri, lo scenario conclusivo della prima parte della Waste Land: That corpse you planted last year in your garden, / Has it began to sprout?Will it bloom this year? (“Quel cadavere che piantasti l’anno scorso nel tuo giardino, / ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno?”; Balasi Nanni, 2022).
A questo punto bisogna chiedersi: perché questa presenza della Waste Land in Digressione? Certo, il gusto per la citazione "maccheronica" (nell’ultimo capitolo assistiamo a un incrocio tra il monologo più famoso di Macbeth e il verso delle rane che, nelle “Rane” di Aristofane, Dioniso incontra nell’oltretomba) gioca un ruolo importante, ma penso che nel caso di Eliot la citazione sotterranea vada considerata come una possibilità di apertura, o addirittura scardinamento, di tutto il libro proprio a partire dall’idea di Waste Land come Terra Guasta, Terre Gaste nel senso romanzo (nonostante Griffi opti per la variante “desolata”). Infatti, rispetto a tutte le altre possibilità, “Terra Guasta” trasmette l’idea che in questa terra ci sia qualcosa che non funziona, una specie di alterazione del suo stato consueto. La terra del Re Pescatore diventa “guasta” perché la ferita sul corpo del regnante (in area genitale, o comunque nei paraggi) viene estesa a tutto il suo regno, che diventa infecondo per cause esterne e dirottato verso uno stato di sterilità; Eliot riprende questa idea di guasto, inceppo, sfacelo del mondo rispetto a uno stato lieto (il DA finale) che nel suo sistema poetico rimane come possibilità da raggiungere attraverso (ma non solo) il salvataggio di tutta la letteratura che lo ha preceduto (citazioni, riscritture, riproposizione di problemi, da Procne a Shakespeare); allo stesso modo, Arturo Saragat fa esperienza di una versione “guasta” di Asti in cui alcune cose (il nome di un convegno, o un laboratorio gastronomico al posto di un laboratorio astronomico) non sono come “dovrebbero” essere, col dubbio di essere proprio lui il responsabile di questa situazione “per non aver saputo opporsi al male quando sarebbe stato necessario” (dalla quarta di copertina). Questo però non fa di Arturo Saragat un Re Pescatore (per chi ha letto il libro: Costantina è un Re Pescatore, e “Roghudi Vecchio” è una Terra Guasta: occorre assistere all’evento di pagina 990-991, un fatto inconciliabile con la presenza fisica di Costantina, per redimere da lì il mondo e condurlo a un altro stato). Ma Arturo Saragat non è nemmeno un Re Artù, a dispetto di chiamarsi così per via dell’Artù di Malory; e non è neanche un Orlando, nonostante impazzisca per amore e, a urla e pianti, sfasci tutto quello che si trova davanti (fioriere, parabrezza e pensiline) “roteando il tubo di ferro manco fosse una durlindana” (pagina 866): Arturo assomiglia di più a un altro cavaliere del ciclo arturiano che non ha fatto la cosa giusta al momento giusto (una domanda), e che Griffi menziona quasi di sfuggita, sedici pagine dopo il Re Pescatore, nove dopo il momento da Orlando Furioso:

 

A casa Arben accese la tv, si lavò i denti, spense la tv. Prima di addormentarsi prenotò una settimana – dal dieci al diciassette agosto – all’albergo odontoiatrico Percivalle di Pantelleria Nordovest, dove finalmente si sarebbe aggiustato la bocca, facendosi impiantare due protesi e applicare una corona, e si sarebbe goduto una settimana di relax. 

 

Percivalle / Parsifal / Perslesvaus / Perceval / Parzival è il cavaliere da cui discende Saragat, e viene nominato solo come “albergo odontoiatrico”: un nome nascosto (come quello di Lancillotto/Galahad, che deve scoperchiare una tomba, la sua, per scoprirlo) che dà il tono al libro nello stesso modo in cui lo fanno le riscritture di Eliot: quindi non come una mise en abyme, il dettaglio che riassume il senso di tutta la vicenda, ma piuttosto una presenza in filigrana, per un testo che una volta esposto “alla luce” presenta dei punti opachi che fanno un disegno da ricostruire, alla Lemmonio Rubino, tra la cartografia e il découpage. 

Allora per concludere, dato il precedente dei poeti italiani contemporanei inseriti nel romanzo, ho pensato di condividere una poesia che verrebbe voglia di ritagliare e pinzare in una pagina strategica di Digressione. Si intitola La cospirazione e proviene da Il cielo di Marte (Einaudi, 2005) di Andrea Temporelli (nato nel '73), per una poesia dove convivono la Unreal city di Eliot e un Parsifal smontato e nascosto nella paraetimologia Wagneriana del suo nome, "puro" e "folle":

 

LA COSPIRAZIONE

 

Uno direbbe che quei tre seduti
al tavolo del bar
siano sul punto di giocarsi l’anima.
Hanno trovato il varco,
sono eterni. Bevuti
pochi bicchieri, sfiorano con mani
pulite l’impalcatura delle ore,
e l’altra gente si è fatta invisibile.
Magari proprio adesso, in qualche angolo
dell’universo, muore
un pianeta o si forma un’incredibile
catena di molecole.
Certamente in Turchia si scava ancora,
mentre questo sobborgo dell’Europa
declina ogni lamento
e il problema più urgente è solo un’eco
leggera: la fine del Novecento

 

“Bisogna alzare la posta”, dice uno,
“rischiare tutto. Tutto.
Perché davvero il tempo è molto breve”
Strano sia lui a fare
la proposta e nessuno
a rincarare la dose. “Si deve
dire ciò che si sa, ciò che sappiamo”
È certo che anche gli altri due comprendono
che non è ardore giovanile il suo,
non solo. “Se scriviamo
presto la verità, si farà ammenda
anche dei nostri errori.
Nessun altro verrà a bruciare i libri
e a indicare la cura, l’ospedale
è disertato, insiste,
completamente sordo ormai ai rumori
di una città vera che non esiste

 

“Passano sopra la vostra modestia
i topi di palazzo,
incolumi”, riprende per spiegare
che per i loro i calcoli
e per tutti gli onesti
programmi che si continuano a fare
nel sogno di sovvertire la storia,
non si avvicina di un solo millimetro
il futuro. Piazzerebbe il suo verso
appena un passo fuori
della loro portata, dopo il limen
della ragione, ma
comprende in quel frangente quanto resti
insormontabile il valico d’anni.
Così discende il muro
e più solo attraversa la città,
rimasticando un nome. Folle e puro

 

 

 

 

 

Immagine di copertina: La horde, Max Ernst