Leggere I perduti amori di Giorgio Ghiotti (Il simbolo, 2024) è come attraversare una soglia, il libro si fa guida lungo quella zona d’ombra che è il passaggio all’età adulta.
La poesia non attraversa il dolore per risolverlo, ma alcune parole, quando dettate da intuizioni, incanto e saggezza, come in questo fortunato libro, hanno la grande abilità di ridisegnare i tratti dopo una ferita.
In una nota a fine libro l’autore stesso definisce quest’opera “il libro dei miei trent’anni”, un tema suggerito anche dall’esergo tratto da Il trentesimo anno di Ingeborg Bachmann (Ma chi sono io, nel settembre dorato, / se da me tolgo tutto ciò / che gli altri hanno fatto di me?)
I trent’anni sono un vero e proprio aldilà per un poeta come Giorgio Ghiotti che ha sempre avuto a cuore la giovinezza e l’ha narrata nei libri precedenti, dai più recenti Ipotesi del vero (Liberaria 2023) e Biglietti prima di andare (Ensamble, 2022), fino a La città che ti abita (Empiria, 2017), sentendone già in germe il seme della nostalgia.
È un libro che si muove per sottrazioni, portando avanti una ricerca sull’identità che, già formata, deve continuamente dirsi; se nei vent’anni si costruisce aggiungendo esperienze, conoscenze e amori, forse nei trenta si ragiona per mancanze, con l’imperativo umano di ricordare.
“Cercherò di ricordare, di ricordare
tutto, chi era quello premuto a una ringhiera
e chi sarà lo sconosciuto che sarò”.
Così inizia la conta dei perduti: gli amori, gli amici, le città e i maestri, di cui ci sono tracce commosse all’interno del libro. A perdersi è la possibilità di essere altro, qualcosa che forse nemmeno si sarebbe desiderato essere, ma proprio nell’eventualità mancata albeggia una rassegnata nostalgia (Amori: Uno – perduto / appena nato / l’altro – mai / cominciato). Si perde la scommessa (che non può che essere sempre persa in partenza) su come a trent’anni ci si immaginava.
“L’anno sfuocato sopra il calendario / s’impone adesso in lettere di fuoco. // Pure ho vissuto e perdendolo ho perduto / la mano migliore del mio gioco.”
Da controcanto al perduto qualcosa si aggiunge e allora si scopre che le città, la Milano lasciata e la Roma ritrovata sono in realtà entrambe guadagnate; che delle scoperte si sono fatte, potranno essere successivamente ammorbidite, ma sono giunte sulla pagina con la forza di una verità inflessibile, capace di affilare lo sguardo del poeta, farlo implacabile e saggio.
“Ero destinato a grandi cose, e portentose, / per poi scoprire che il destino non esiste, / e che a forza di fissarlo ogni deserto / si rovescia nel fondo dei tuoi occhi.”
“Ma a quest’ora / così tarda, poi, un miracolo!, nemmeno / li fabbricano più da queste parti”.
In questa presa di coscienza, nell’infrangersi della promessa, emerge la vita reale fatta di aggiustamenti, di piccoli momenti sereni, come vediamo nell’ultima splendida poesia che chiude il libro come un delicato augùrio.
Qui era una zona di rane e acquitrini
e dopo la salita campi aperti
e mare di lontano e oltre ancora
tutto un frinire di cicale e grilli -
dev’esserti sembrata la vita – la vita
dicevi è quella cosa che si fa
di sera – con del vino in gola -
cantando.
Si può guardare alla storia familiare con un distacco indulgente ora che si è in parte perduto anche il compito di essere figli, così affiorano dalla memoria, in quese prove generali per l’identità, ricordi simbolo per quello che sarà (per quello che già è) essere adulti.
Dopo una mareggiata Giorgio Ghiotti osserva ciò che resta sulla riva e di quello raccoglie il salvabile, ci riporta parole e ricordi di un Novecento che ancora vibra sulla sua pagina. Ci accompagna in via del Corallo da Amelia Rosselli e fra le carte di Anna Cascella Luciani, raccontandoci di balere e cartoline.
C’è ne I perduti amori una magia che muore e non vuole morire, un amore che muore e morendo diventa assoluto: il poeta riesce nel disperato intento di riportare alla vita facendo luce sulle ombre, guardando le cose solo per quello che sono.
Se l’incanto sembra smarrito nella scoperta di certe stringenti verità non lo è mai nella forma. Leggendo Giorgio Ghiotti è facile pensare all’ispirazione come una chiara fontana, una sorgente inesauribile da cui origina la parola e dalla parola versi cristallini e leggeri. Le assonanze, le rime interne, il ritmo tutto serve all’autore per il gioco del senso segreto e mai è perduta la fiducia verso il canto, da cui Ghiotti si lascia trascinare e ci trascina instancabilmente, come sempre dovrebbe fare la poesia: attraversarci e condurci nel luogo dove la vita non è mai una conta ma una complessa e inspiegabile geografia di amori, relazioni e di promesse.
Eppure ora, io da sempre a digiuno
di oroscopi e predizioni - e forse
per questo vi invento sopra destini
leggendo più il cuore degli uomini
che il caso disposto sulla tavola -
rifuggo gli occhi di maghe vere
o presunte, e delle amiche i consigli
se - passando su un ponte sopra Tevere
tra dorati platani in luce di tramonto -
esprimi un desiderio, mi dicono, lancia
la monetina prima che cada il sole.
Ma è inutile oracolare su un amore.
***
Quasi morto ho creduto lo splendore
disperso in sottopassi grigio cenere
a notte alta, quando più nemmeno
il tram s’aspetta, ma s’intuisce al fondo
del viale una luce fioca che potrebbe
darsi un miracolo - ma a quest’ora
così tarda, poi, un miracolo!, nemmeno
li fabbricano più da queste parti,
e nondimeno credi che è circostante
lo splendore, ed è l’unico Paradiso
che avrai a godere.
***
Avevano un loro modo
le giornate - avevano
approdo certo e d’estate
le sere in tram deserto
in corsa da Testaccio lungo
il viale - avevo un certo modo
di pensare al bene, al male -
prima un’allegrezza mi prendeva
immotivata (un uomo, una poesia
trascritta a una fermata) dopo
una tristezza senza nome se appena
credevo vederti - non più vedendo
il viso illeso nella pena
come anni prima - pavido mio
amore - fra due chiome.
***
I perduti amori
Era dieci, era vent’anni fa -
che spavento il tempo
quando sta nascosto
in una frase e poi ti inchioda
si palesa con la medesima
crudeltà dei verbi - l’innocenza
non è di questa lingua
e non so fare senza -
senza pentirmi d’avergli detto
in pessimo tempismo quella
sera - ciao - valeva cento
addio e lo sapeva - o certe frasi
che - perdutamente - durano
in noi, o il semplice suo
nome (pronome sottinteso)
lui e nessun altro - così credo
pensassi, persino di morirne
per lui - sempre si crede il più
grande ogni perduto amore
il più struggente, difettoso -
invece vale al cuore solo
il sentimento della vita
- infinita - il tempo presente
nel giorno che si schiude tra due
torri - allora ero a Bologna,
da quanto non scrivevo più di lui,
della città che sogna anche al mattino -
ero giovane, ero vicino a una chiesa
di cui non so più il nome - ma
che dolci inganni, che stagione
piena! - era sopportabile ogni pena,
era il tempo che dicevo a tutti
amore, e loro (pronome azzurro, oro)
da una quieta altura, dalla mia memoria
sarebbero rinati su ogni foglio
dietro le spalle, oltre la paura.
***
Anche lui? persino
lui perduto? come -
più degli altri - perduto?
Sì, a fine giugno mietuto
insieme al grano - vano
tentativo di trovare
nei calendari un senso (ero
a Milano allora con niente
da fare, volevo solo scappare
da casa e da famiglia, fuggire
lontano, vedere tanto mondo -
per me mai uscito in vent’anni
dal quartiere, quello - Milano
e il mio terzo biondo amore
davvero, davvero erano
il mondo) -