La Pasqua del 2020, come è abbastanza prevedibile, l’ho trascorsa in clausura con la mia famiglia, per quel che riguarda le presenze fisiche; ma a livello di interconnessioni si è trattata di una festa senza precedenti. Ogni gruppo di Whatsapp è letteralmente esploso con florilegi di emoji botatinco-pulcino-ovettocioccolatosi e memorabili cartoline di auguri come quella di cui voglio parlare. Tuttavia, per i veterani e le veterane dei gruppi di quartiere/parrocchia, i festeggiamenti hanno inizio già dalla Domenica delle palme, che anche se si chiama così ha in realtà a che vedere, nella sua dimensione più concreta, con una titanica distribuzione di ramoscelli d’ulivo benedetto su tutto il territorio. La mattina della Domenica delle palme (sempre 2020) sblocco il telefono dalla mia culletta della depressione e su uno di questi gruppi vedo che mi è stata inviata la prima foto della galleria in fondo all'articolo. La mia prima reazione è la repulsione, che invece di preservare la mia pool genetica dal cattivo gusto e dal kitsch più sfrenato mi spinge a scorrere l’immagine cercando (invano) un angolo che si astenga dall’offendere la mia retina. Non trovo sollievo per gli occhi, che affondano a bordo foto e leggono il nome dell’autore: Giovanni Pascoli. A quel punto rileggo con attenzione la poesia: probabilmente sono stato troppo affrettato nel giudizio, dopotutto Giovanni ha il suo bel perché, magari una rilettura può schiudermi certe allusioni che mi sono sfuggite:
Oh, i bei rami d’ulivo! chi ne vuole?
Son benedetti, li ha baciati il sole.
In queste foglioline tenerelle
vi sono scritte tante cose belle.
Sull’uscio, alla finestra, accanto al letto
metteteci l’ulivo benedetto!
Come la luce e le stelle serene:
un po’ di pace ci fa tanto bene.
No, non c'è redenzione alcuna. Va bene che IL Pascoli ne ha sparate di grosse, addirittura anche nei Primi Poemetti:
Tu eri tutto bianco, io mi rammento:
solo avevi del rosso nei ginocchi,
per quel nostro pregar sul pavimento.
Oh! te felice che chiudesti gli occhi
persuaso, stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi balocchi!
e via così per ventuno terzine di lagnosissimo commovimento; però qui dello stile lo si trova, la terzina è comunque ricercata, la narrazione si focalizza su immagini vivide e cariche di pathos, ci sono dei lampi in cui traspare un po’ di quella stortura dietro alle poesie di Pascoli che oggi ce lo rende ancora bello appetibile:
[…] O morto giovinetto,
anch’io presto verrò sotto le zolle
là dove dormi placido e soletto…
Oppure:
[…] felice te che al vento
non vedesti cader che gli aquiloni!
con foscoliana ripresa. Voglio dire, qui siamo di fronte a un certo (altissimo) controllo della materia verbale. Ma l’ulivo benedetto: rime baciate e endecasillabi senza un briciolo di cura; cesure nel verso che mettono i brividi (son benedetti, li ha baciati il sole. col punto, inesorabile, per uccidere qualsiasi possibilità di trasmettere un ritmo con dell’energia); i periodi microscopici; la chiusa spaventosa che riesce nel miracolo di appiattire oltre l’appiattimento questi versi già piattissimi; la rima belle-tenerelle; la rima belle-tenerelle. E le domande: da quale raccolta arriva? Possono i Canti di Castelvecchio includere una boiata di questo calibro? È possibile che in una delle infinite edizioni di Myricae si sia intrufolata questa doppia quartina dell’infamia? Provo a estendere le mie ricerche online, per verificare se uno degli innumerevoli siti che la riporta citi almeno la provenienza della poesia dell’ulivo benedetto di Pascoli. Niente. Trovo al massimo un sito di filastrocche per bambini che la riporta assieme ad altri classici pascoliani, di cui però viene indicato il libro d’origine. Ma a margine dell’ulivo benedetto, il nulla più totale. Decido che l’unica soluzione è leggere l’opera omnia in versi di Pascoli, nel tentativo di individuare, forse incastrato all’interno di una sequenza più ampia, questo evanescente manipolo di versi. Dal momento che non c’è alcun modo di consultare le biblioteche, faccio affidamento su due risorse online: Wikisource e pascoli.letteraturaoperaomnia.org , dove è stata trascritta l’opera omnia poetica. Ma nessuna traccia di ulivi benedetti dalle foglioline tenerelle. Al massimo trovo La domenica dell’ulivo da Myricae:
Hanno compiuto questo dì gli uccelli
il nido (oggi è la festa dell’ulivo)
di foglie secche, radiche, fuscelli;
quel sul cipresso, questo su l’alloro,
al bosco, lungo il chioccolo d’un rivo,
nell’ombra mossa d’un tremolio d’oro.
E covano sul musco e sul lichene
fissando muti il cielo cristallino,
con improvvisi palpiti, se viene
un ronzio d’ape, un vol di maggiolino.
Non c’è paragone fra i due testi: qui abbiamo un madrigale con allusioni alla resurrezione in uno scenario vivido e carico di attesa (c’è persino l’arcipsicanalizzato nido); dall’altra abbiamo un po’ di pace ci fa tanto bene. L’abisso stilistico che separa le due poesie non mi conduce che a una sola conclusione: viviamo in una allucinazione collettiva in cui una serie di utenti online hanno condiviso questa terrificante poesia sull’ulivo benedetto (l’occorrenza più antica che ho individuato risale al 2011) copiandola non da libri editi e aggiornati da specialisti ma da altri siti online che a loro volta l’hanno acriticamente copiata da altri siti web. Vi invito a fare in questo preciso istante un tentativo cercando in un'altra scheda "pascoli ulivo benedetto" per farvi anche solo una vaga idea della diffusione di questa poesia. Così di blog in blog, da forum a forum si è venuta creando questa titanica narrazione che ci ingloba tutti e da cui non abbiamo scampo. Un esempio su tutti. L’associazione Amici dell’olivo ha un discreto sito web con una sezione straripante di poesie a tema olivo, di cui viene sempre indicata la fonte. Nel caso dell’ulivo benedetto, che troviamo riportata in un’altra versione ancora, troviamo questa leggendaria dicitura: FONTE: INTERNET. Bel tentativo, ma la mentalità da cui origina il problema è proprio questa. Fonte: internet. Ma internet è anche il luogo del blog di Enrica Signora G che ha il merito (merito?) di essere la seconda occorrenza più antica di un post con questa poesia, il 30 Marzo alle 16:24 del 2012. La versione è quella a cui siamo assuefatti. Ma è la sezione commenti quella su cui voglio soffermarmi, dove un anonimo commentatore chiede la spiegazione della poesia, ed Enrica Signora G replica come potete leggere nella seconda foto dell'articolo in galleria, condividendo una nuova poesia orrenda sull’ulivo, attribuendola sempre a Pascoli. Non so perché, ma non ho tutta questa fiducia in Enrica, quindi copio e incollo il testo della poesia su Google e, naturalmente, scopro che questa poesia non è stata scritta da Pascoli, bensì dal coevo Pirro Masetti, in arte Pietro Mastri. Pascoli fu il suo padrino alla cresima, e i due si frequentarono in vita, ma finisce un po’ lì da quello che ho capito. Pietro Mastri ha scritto anche delle poesie così:
Ed ora è la morte… E sia! Cadete,
cadete, o foglie, vicino e lontano.
Sì, tutto è caduco, sì, tutto è vano,
come noi siamo e come voi siete.
(da PASSEGGIATA AUTUNNALE in L’arcobaleno)
Ma non finisce qui. Sempre tra i commenti del 2014, un altro anonimo commentatore osa chiedere conto ad Enrica delle sue fonti. Lei però non cede, e anzi, risponde: “prova caro anonimo su questo link, ci vuole troppo tempo…” e condivide lo stesso identico sito su cui ho appena letto l’opera omnia poetica. Eh no! Non dovrebbe essere responsabilità dell’anonimo reperire la raccolta d’origine della poesia, ma di Enrica Signora G che in primis ha fatto questo post 11 anni fa. A questo punto ho una folgorazione: naturalmente, copiare e incollare il testo dell’ulivo benedetto su Google non porta alcun risultato, a differenza di quanto accaduto con l’altra lirica ulivosa di Enrica: ci sono troppi siti che riportano l'attibuzione sospetta. Ma questo non esclude che anche l’ulivo benedetto potrebbe essere una poesia di Pietro Mastri! Il problema è che siamo in pieno lockdown, e non posso recarmi in biblioteca a leggere le sette raccolte del Mastri disponibili a Bologna. Esiste un universo in cui le ho lette tutte (La falce e lo specchio, L’arcobaleno, La via delle stelle, Su per l’erta, La meridiana, La fronda oscillante e così via), ma non siamo in quell’universo. Quindi per ora la pista Mastri è da considerarsi chiusa. Ritorno a considerare la possibilità che l’ulivo benedetto sia una poesia di Pascoli, ed elaboro una nuova teoria, che chiamerei “ipotesi conciliatrice”: la poesia è stata sì scritta da Pascoli, ma in latino, e quella che abbiamo fra le mani è l’infausta traduzione di un letterato amante degli schemi fissi e del cattivo gusto. La ricerca domestica può proseguire, e mi addentro nel cosmo delle poesie latine pascoliane, che si rivela rapidamente poco fruttuoso ai miei scopi. Di nuovo, niente. L’ipotesi conciliatrice è già scartata. Ma di nuovo una folgorazione: il copia-incolla dell’ulivo benedetto su Google non dà frutto. Tuttavia, potrebbe venir fuori qualcosa di nuovo se lo facessi su Google libri, magari antiche occorrenze di questa poesia. Procedo, e trovo finalmente una testimonianza dell’ulivo benedetto su carta stampata (terza foto in galleria):
CHI NE VUOLE?
Quanti rami d’olivo! Avanti, avanti,
son belli e benedetti, o chi ne vuole?
Li ho colti stamattina e tutti quanti
co’ primi raggi li ha baciati il sole.
Fin dove li ho portati a benedire
la gente non ha fatto altro che dire.
S’accosti e guardi pur chi non lo crede,
come questi che qui non se ne vede.
Sull’uscio, alla finestra, accanto al letto
metteteci l’ulivo benedetto.
Come la luce e le stelle serene
un po’ di pace ci fa tanto bene.
Oh, i bei rami d’olivo! O chi ne vuole!
È una versione estesa del nostro ulivo benedetto, ma si tratta indiscutibilmente di un ur-text rispetto alle varianti reperite online. La mia spiegazione per le divergenze le riconduce alla memoria di chi ha fatto quel primo post del 2011: nel ricordare la poesia (probabilmente marchiata sui suoi anonimi neuroni dall’istruzione elementare), l’anonimo copista ha rimosso una leggera quantità di versi e ha associato direttamente “son belli e benedetti” e “li ha baciati il sole”, rimuovendo “belli” e creando un nuovo endecasillabo, rimuovendo anche tutta la parte di esaltazione popolana dell’ulivo. Sospetta anche la sospensione “La gente non ha fatto altro che dire.” Che cosa? Forse la parte dopo il punto, ma la punteggiatura non torna. Rimane anche da chiarire il contesto in cui ho trovato questa poesia. Ho allegato una schermata del periodico, destinato agli insegnanti nelle scuole per preparare lezioni aggiornate su svariati temi, fra cui anche la domenica delle palme. La poesia si trova alla fine di una articolo sulla domenica delle palme (e degli ulivi benedetti), al termine del quale l’autrice dell’articolo (presumo tale Marianna Giarrè Billi, il cui nome figura tra parentesi a fine articolo, dopo la poesia e prima della lezione successiva) scrive: “Chi ha la possibilità di farlo legga una parte della poesia del Pascoli: L’ulivo; da Limpido rivo.” Segue poi la poesia sull’ulivo benedetto. Ecco che la poesia viene quindi accostata, in una sede ufficiale, a Pascoli: il titolo della poesia è “L’ulivo”, e si trova in Limpido rivo. Limpido rivo. Nell’opera omnia di Pascoli, questa raccolta non è presente. Limpido rivo. Mai sentito prima. Raccolta giovanile di versi precocissimi? Questo spiegherebbe l’immaturità, per Pascoli, di questa poesia, che pure in questa versione presenta una maggiore consapevolezza stilistica. Cerco su Google, e trovo sul sito di Zanichelli: Giovanni Pascoli, Limpido rivo, Prose di G. Pascoli presentate da Maria Pascoli ai figli giovinetti d’Italia, 1912. Tutto si spiega. Siamo di fronte a una mariapascolata, ennesimo tentativo da parte della tossicissima sorella di Pascoli di lucrare sull’opera del fratello presentandolo come un gioviale signore un po’ in carne che ha scritto tante cosine carine per i bambini, compiendo nel portare avanti questa operazione uno scempio filologico senza pari dei suoi testi. Cito da Maria Pascoli che si rivolge ai lettori fanciulli: “Vedete che da molto tempo Egli [con la maiuscola, sic] pensava a voi e chiedeva di poter fare cose degne di voi. Ed era suo desiderio che io raccogliessi e vi offrissi, se non tutta, in gran parte, l’opera sua poiché Egli l’aveva dedicata in maniera speciale alle vostre tenere menti.” Il sito di Zanichelli chiude la presentazione scrivendo: “Limpido rivo sarà letto quanto Cuore, e forse più.” Ecco che avanzo l’ipotesi filologica: l’ulivo benedetto è presente solamente in Limpido rivo perché probabilmente si tratta di una chimera ricostruita da Maria, in cerca di ghiotti testi edificanti, dalle carte del Pascoli, magari partendo da lacerti di testo da lei ricuciti con scarsa abilità. C’è tutto dello stile di Maria: i buoni sentimenti, la premura di non tirarla troppo in lungo e di andare subito al sodo moralisticheggiante. L’unico modo per verificare la validità di questa ipotesi è unirmi alle schiere di “tenere menti” e leggere per intero Limpido rivo, che per fortuna è reperibile interamente su Internet Archive. La vera star dello show qui sono le note di Maria, che fanno tutto tranne che sciogliere dubbi sulle poesie, eccone solo alcune: “MARGHERITA E chi di voi, o giovinette, non ha talvolta interrogato l’umile fiorellino, sfogliandone a uno a uno i petali, come la Margherita del Faust? – Mi vuol bene… mi vuol male… in mezzo al cuore… così così…? ” ; “NELLE NOZZE DI IDA Questo scritto pieno di lagrime fu stampato nel 30 settembre 1895 in pochissime copie non commerciabili. C’era troppo dolore, sebbene in occasione di gioia, per dargli pubblicità. Lo metto ora in questa raccolta per voi, o giovinette, perché non dimentichiate che le gioie più grandi della vostra vita, [sic virgola fra soggetto e predicato senza inciso] possono avere nel cuore di coloro che vi vogliono bene, [sic altra virgola pateticissima ma assolutamente non richiesta dalla sintassi] un’eco, molto spesso, di dolore” e via così per duecento e passa pagine di manipolazione emotiva delle tenere menti. Mi piace riportare il memorabile commento a una poesia di Pascoli che ricorda pericolosamente il nevermore di Poe:
La pendola batte
nel cuor della casa.
Ho l’anima invasa
dal tempo che fu.
La pendola batte
ribatte:
mai più… mai più…
mai più… mai più…
La nota: “Vi sembra proprio di udire queste desolanti parole in quel sempre uguale rumore che fa il pendolo dell’orologio? A me, che l’ascolto da qualche tempo con grande attenzione, ripete assiduamente: con te… con te… con te…” sovvertendo l’atmosfera inquietante del testo oggetto della nota di commento e depotenziandolo del tutto in due righe. Un vero classico della nostra letteratura; purtroppo, neanche qui è presente la poesia dell’ulivo benedetto: l’ipotesi filologica è stata scartata. Ritorno allora al periodico dove ho individuato l’ur-text: effettivamente in Limpido rivo possiamo leggere LA CANZONE DELL’ULIVO, che però nulla ha a che vedere con quest’altra poesia. Scorrendo su e giù l’articolo del periodico noto un piccolo dettaglio. Allora tutto si fa chiarezza: leggere Limpido rivo è stato un abbaglio, la risposta era già a mia disposizione da qualche ora. Scorro per leggere altri articoli dallo stesso numero della rivista, e il dettaglio che ho notato diventa una costante. Tutti gli articoli di Scuola italiana moderna, periodico settimanale di pedagogia, didattica e letteratura, pur trattando i più disparati temi, hanno in comune una cosa: non si indica mai a fine testo l’autore o l’autrice dell’articolo in questione. L’inevitabile conclusione è che Marianna Giarrè Billi non è l’autrice del testo didattico sulla domenica delle palme: è l’autrice della poesia sull’ulivo benedetto. Provo a fare alcune ricerche: scopro che Marianna Giarrè Billi (1835-1906, area fiorentina, qui la voce Treccani) è stata poetessa e maestra. Abbiamo poche foto sue, ma almeno due di queste la ritraggono di fianco al Carducci, icona del milieu culturale del tempo, le allego qui in galleria. Non è senza un brivido che su Google libri trovo l’edizione integrale delle sue Rime del 1878: che si tratti dell’attestazione più antica della poesia sull’ulivo benedetto? Le leggo. Giarrè Billi non spicca per originalità, ma lo stile mi sembra vicino alla poesia dell’ulivo benedetto, e non è affatto priva di poesie memorabili. Ne riporto una di argomento un po’ macabro ma che trovo davvero molto toccante, considerato il background solitario dell’autrice:
Il 21 marzo con gentile pensiero mi fu donata una Rondinella imbalsamata – Era un mesto, ma gradito ricordo.
Oh! benedetta sia la primavera
E il vostro arrivo, rondinelle amate;
Cortesemente della mia preghiera
Nel tornare vi siete ricordate,
E la compagna, ch’io vi chiesi ov’era,
Con affetto gentil mi riportate.
Ha stese l’ali, ma non vola adesso,
E porta seco un ramo di cipresso;
Un ramo di cipresso è un dono mesto,
Ma dell’eternità simbolo è questo.
Vuol dir che meco l’è venuta a stare
E che in eterno non mi vuol lasciare.
Trovo molto rilevante il modo in cui questo confronto con la rondine, animale migratore per eccellenza che compie eterni viaggi, vero e proprio totem di una certa poesia ottocentesca (ma anche novecentesca: le rondini di Luzi), riesca a rideclinare in chiave opposta l'animale, presentato nella sua immobilità e in cui l'autrice trova una compagnai che non la vuol lasciare, anche se in realtà non la può lasciare: la morte come estrema vicinanza e non lontanza irrimediabile. Inoltre, la chiusa della poesia ci spinge anche a domandarci chi abbia, a differenza della rondine imbalsamata, lasciato Giarrè Billi; il lettore dell'intera raccolta lo sa, l'invito a scoprirlo è aperto. Giarrè Billi è anche capace di scuotersi di fronte al ritrovamento di una freccia di ossidiana che le suscita un’ode archeologica davvero visionaria:
Dopo che tanti secoli
Ti tennero ravvolta
Nelle profonde tenebre
E nell'oblio sepolta,
Qual astro un lume fulgido
Venne delle tue grotte
La sconsolata notte
Benigno a illuminar.
Franse le roccie [sic]; i ruvidi
Spezzò tenaci strati,
Su te nell’ime viscere
Del suolo accumulati,
E ti scoperse all’avida
Ricerca delle genti,
Che i più remoti eventi
Ti trassero a narrar.
Mi trovo in disaccordo con Fulvio Conti, autore della voce Treccani, che, pur avendo reso questo bel servizio alla memoria dell'autrice, non riesce a trattnersi dal commentare: "I suoi componimenti restarono semplici e spontanei, e, per quanto curata, l'armoniosa melodia dei versi non raggiunse mai le vette dell'autentica poesia." Ma ancora nessuna traccia della poesia sull’ulivo benedetto. Penso di essere arrivato a un punto morto: non so davvero dove andare a guardare al di fuori delle Rime di Marianna Giarrè Billi. Faccio un ultimo tentativo, e inserisco su Google libri sia l’ur-text dell’ulivo benedetto che il nome di Marianna Giarrè Billi.
LA VENDITRICE DI RAMI D’OLIVO
Quanti rami d’olivo! Avanti avanti,
Son bell’e benedetti, oh chi ne vuole?
Li ho colti stamattina e tutti quanti
Co’ primi raggi li ha baciati il sole.
Fin dove li ho portati a benedire
La gente non ha fatto altro che dire:
S’accosti e guardi pur chi non lo crede,
Come questi che qui non se ne vede.
In queste foglioline tenerelle
Quanta grazia di Dio vi si racchiude;
Ci sono scritte tante cose belle…
Di far buona la gente hanno virtude.
Sull’uscio, alla finestra, a capo al letto
Metteteci l’olivo bendetto;
Come la luce e le stelle serene
Un po’ di pace ci fa tanto bene.
Con l’aprile che torna e seco porta
Fresca fresca l’erbetta e l’aura nova,
Col profumo dei fior che ne conforta
Or che la siepe il verde rinnova,
Or che tutto s’allieta e par che spiri
Gentilezza d’affetti e di sospiri;
Chi, sciagurato, può nutrire in petto
Anche un’ombra di sdegno e di sospetto?
Oh pace, pace! Nella pace è amore,
È sorriso di madre e di fratelli;
È sacrificio e carità del cuore,
Per la terra natia, pei poverelli.
Oh, i bei rami d’olivo! Oh chi ne vuole?
Son benedetti e li ha baciati il sole.
S’accosti e guardi pur chi non lo crede,
Come questi che qui non se ne vede.
La firma è di Marianna Giarrè Billi. Siamo risaliti con successo alla versione originale e integrale della poesia sull’ulivo benedetto falsamente attribuita a Pascoli, probabilmente per un malinteso simile a quello da me commesso leggendo il periodico settimanale che riportava una versione già alterata (forse da Giarrè Billi stessa, ma prima dell’uscita del periodico, vista la sua morte nel 1906) di questa poesia, chiaramente destinata a un pubblico infantile. La complessità formale della versione originale fa fede delle capacità di Giarrè Billi: l’atroce rima tenerelle-belle si salva dal momento che nel testo originale era alternata e non baciata, mitigandone l’orrore, seppure solo parzialmente. Cercandola su Google è possibile rinvenirla addirittura sullo stesso sito dove ho trovato la stessa poesia con l’attribuzione errata a Pascoli, in un sublime pastiche filologico, senza riportare però la fonte, cosa che invece io faccio: si trova nel quinto volume del Giornale per i bambini diretto da Carlo Collodi, edito a Roma, Piazza Montecitorio n. 121 nel 1885 a pagina 199. Qui posso finalmente fermarmi: sapere di aver dato un po’ di giustizia a Marianna Giarrè Billi, che tanti versi ha scritto per sfuggire all’oblio e non per essere scavalcata dal fantasma pascoliano che le usurpa quella che è, a ben vedere, una sua famosissima poesia. Vi esorto caldamente, qualora doveste incappare in questa poesia, a farne presente l’autentica autrice, e di compiere questo atto generoso dando a Billi la sua meritata parte di fama per questo benedetto ulivo.