Gianluca Furnari

Come ti giustifichi?
4 Luglio 2024

 

[..] dicevano: come ti giustifichi? // dicevano: ma ti giustifichi, tu?

 

Lo scriveva Sanguineti. Che sia corretto o meno, spesso si è chiamati a giustificare la propria poetica. Accade di sicuro alla nostra generazione e a quella immediatamente precedente: sui social siamo continuamente messi nella condizione di doverci giustificare davanti a un pubblico, per quanto ristretto, e non solo quando si tratta di poesia. Abbiamo deciso quindi di creare uno spazio che dia a poet* nati dalla fine degli anni '80 agli anni 2000 la possibilità di legittimarsi. Benché le domande di partenza siano le stesse per tutt*, abbiamo scelto di tenere aperta la possibilità di un dialogo con chi prenderà parte a quest'iniziativa, ricollegandoci alle risposte date, per portare avanti un’operazione volta al dispiegamento della poetica individuale e collettiva in una chiave di autocritica.

 

Gianluca Fùrnari (Catania, 1993) è dottorando in Storia, tradizione e critica dei testi nel Medioevo e nel Rinascimento all’Università di Firenze, dove vive attualmente. Ha esordito con la raccolta Vangelo elementare (Raffaelli, 2015, prefazione di Giuseppe Conte), finalista al Premio Rimini 2015 e vincitrice dei Premi Violani Landi 2016, Fiumicino 2016 e Solstizio 2018. Ha al suo attivo testi poetici in latino, e per la rivista Lay0ut Magazine cura una rubrica di divulgazione e di traduzioni dalla letteratura latina moderna e contemporanea.

 

Partiamo con un pezzo facile, più o meno: definisci la tua poetica. In altre parole, quando scrivi poesia, perché scrivi in questo modo di queste cose e non in un altro? Cosa pensi che renda la tua poesia tua?

 

Credo che ogni poeta sia ciò che mangia – i materiali, i codici, le esperienze artistiche di cui si nutre – più una certa dose di trauma. In questo periodo ciò che sento caratteristico della mia poesia è il tentativo di coniugare passato e futuro in un’ottica di reciproco straniamento. Fuor di metafora ciò significa suggerire una comunione fra viv* e mort* e un abbattimento delle gerarchie fra le specie; visualizzare la relatività; riconoscere barbagli fantascientifici nella poesia di Petrarca; riempire il verso d’immaginazione e poi tentare d’incatenarlo; portare le metriche tradizionali a un punto di conflagrazione sintattica fino a sentirle stridere (vorrei dire «piangere»); inseguire, dietro ogni parola, le sue vibrazioni etimologiche, con la dolorosa coscienza di come, in ogni sua fase evolutiva, una lingua sia sempre al tramonto. 

 

Poesia lirica e poesia di ricerca sembrano essere argomenti ancora caldi, come se un poeta “lirico” o presunto tale non potesse portare avanti un lavoro di ricerca letteraria. Crediamo infatti che il termine ricerca possa essere utilizzato in modo più ampio rispetto a quello a cui siamo abituati, e che ogni poeta porti avanti una sua personale ricerca. Che cos’è per te la ricerca? Senti di star intraprendendo un percorso di ricerca letteraria con la tua poesia?

 

Sì, indipendentemente dagli esiti che la mia poesia può produrre sento di fare ricerca. Ciò è valido a livello compositivo, perché l’attività poetica ha logiche simili a quella del lavoro critico: parte dal vecchio e partorisce altro vecchio, illudendosi che sia nuovo; nei casi più originali ciò che chiamiamo «nuovo» è una ricombinazione di materiali vecchi che altre persone hanno usato in contesti diversi. Il merito della ricerca, comunque, è quello di scompaginare questi materiali. 

Dal punto di vista letterario penso che si faccia ricerca ogni volta che ci si ribella alla tendenza – connaturata a ognuno, socialmente premiata, presente a ogni stadio della scrittura – alla cristallizzazione in una poetica rigida, cioè in una forma del sé, sia esso atteggiato in forme cosiddette liriche o sperimentali. Scrivere un libro di poesia presuppone un cammino da uno stadio intermedio a uno elevato di autocoscienza estetica. Raggiunto quest’ultimo, bisogna avere il coraggio di autodistruggersi. Ripetersi è indispensabile, entro certi limiti, per imprimere senso a un testo, a un libro, a un’intera produzione; quando tali limiti si trascendono, la quota di ricerca diminuisce, e la poetica può essere la morte della poesia. 

 

Si parla altrettanto spesso di padri, di maestri, e per fortuna adesso anche di madri, che si tratti di ucciderli o di inserirsi nel solco che hanno lasciato. Senza essere pedanti, senti presente nella tua poetica l’influsso di specifici autori e autrici di passate generazioni? Che cosa bisogna farne di loro?

 

Credo che in poesia amare e uccidere non si escludano, e in questo senso sarei per uno sterminio di massa dei «maestri»; soprattutto del «maestro-che-è-in-me», quello che vorrebbe spingermi a parlare di poesia con una specie di austerità libresca o – peggio – di finta nonchalance, facendomi dimenticare che i miei versi sono sempre i versi di un primate. Sarei anche per un ricollocamento della poesia fra le tante esperienze della vita biologica, che la trascende sempre (perciò sento importante, ad esempio, la domanda sull’intermedialità, una delle tante esperienze estranee con cui ci confrontiamo oggi). 

Quanto all’influsso, certamente lo sento presente. A questo punto il primate dovrebbe elencare gli autori che gli stanno a cuore, ed è un po’ contraddittorio con quanto ha appena dichiarato. Comunque non mi sottraggo, perché forse una rassegna vi è utile ai fini di un censimento. Eccone alcuni, non in ordine cronologico, ma in quello in cui li ho incontrati nel mio viaggio da lettore: Pascoli, Leopardi, Yeats, Conte, Valduga, De Angelis, Strand, Virgilio, Bandini, Ceni, Pisini (quest’ultimo, come Bandini, per la scrittura in latino). 

 

Maestri a parte, in questa sede vorremmo approfondire questioni legate all’intermedialità, particolarmente rilevante quando si prende in esame la poetica di autori delle ultime generazioni. Ti chiederemmo quindi di raccontarci cosa ha dato forma al tuo immaginario poetico, al di là della poesia (parliamo quindi di opere di narrativa, saggistica, ma anche di film, serie tv, anime, fumetti, videogiochi etc.), e quale rapporto intrattiene la tua poesia con altri media narrativi.

 

All’altezza di Vangelo elementare – circa dieci anni fa – la mia scrittura nasceva soprattutto da altra poesia e dall’interazione di quest’ultima con la mia vita personale. 

Nella costruzione del verso, in effetti, cerco anche oggi di mantenermi dentro una gabbia metrica, perché è l’unico posto in cui la mia solitudine diventa feconda. L’endecasillabo per me è come una base scientifica in Antartide o un’astronave ad antimateria, una dimensione in cui passato, presente e futuro mi si svelano in tutta la loro bellezza.

Sul piano dei contenuti, e quindi anche lessicale, è cambiato tutto. La narrativa fantastica e fantascientifica mi ha restituito una freschezza immaginativa che innerva adesso ogni piega di ciò che scrivo: «Il caso di Charles Dexter Ward» di Lovecraft, «Le guide del tramonto» di A. C. Clarke, «Il costruttore di stelle» di Stapledon, «Anni senza fine» di Simak, «Un cantico per Leibowitz» di Miller, «Il rosso di Marte» di Robinson; recentemente, «Piranesi» di S. Clarke. L’ultima grande scoperta saggistica, cui mi limito per pigrizia in quest’elenco, è «Exit Reality» di Tanni: parla delle estetiche di Internet, altro mondo cui sento di appartenere.

Quanto ai film e alle serie-tv, l’elenco sarebbe ancora più lungo. Cerco di guardare al cinema le uscite più importanti della stagione. Alcuni registi che mi hanno segnato sono Hitchcock, Tarkovskij, Lynch, Del Toro. Ho amato molto «Aftersun» di Wells; fra le serie tv, «Twin Peaks» del già citato Lynch.

Eccettuati Miyazaki e «Death Note», gli anime non fanno parte del mio mondo.

Quanto ai fumetti, mi sono formato sulla tradizione Disney: alcune storie di Barks, la saga di Paperon de’ Paperoni di Don Rosa, i disegni di Scarpa, Asteriti, Cavazzano. Leggo volentieri anche Dylan Dog.

Videogiochi poco o niente, ma ultimamente sono attratto dai vecchi arcade e dai videogame degli anni Ottanta e Novanta.

 

L’accusa di fare una poesia disonesta viene spesso mossa ancora oggi, benché la distinzione tra poesia onesta e poesia disonesta possa correre il rischio di suonare po’ antiquata (ne parlava già Umberto Saba nel 1911, più di un secolo fa). Ci sarebbe da capire che cos’è oggi questa onestà. Ti ritieni un poeta onesto? Pensi sia importante essere tale?

 

Saba ne faceva un mezzo per demolire D’Annunzio, ma forse dietro c’era anche un giudizio morale che trovo fazioso. Concordo però sull’idea della poesia come artigianato e pratica quotidiana e, forse, su un valore di «onestà» come principio psicologico, capacità di dare ossigeno alla ricerca, di aspettare, di non forzare. In questo senso sì, mi ritengo «onesto». Ma ciascuno è fatto a modo proprio, e il discorso sull’onestà può non avere importanza per tutte/i.

 

Tornando alle domande brevi, ma forse più difficili: perché scrivi poesia? Difficilmente lo si fa per ottenere un guadagno economico. La narrativa poi sembra avere un pubblico più vasto, per non parlare della scrittura cinematografica. Quindi: perché hai scelto proprio di servirti del medium poetico?

 

Racconto nei miei versi il modo in cui mi arriva il mondo, e scrivo assecondando un bisogno; forse un bisogno d’amore e di comunicazione, che pongo al centro della mia esistenza. Non mi propongo di arrivare a tutti e a tutte, anche perché questo non si sceglie: confido che altre e altri si riconoscano nella stessa solitudine, nello stesso silenzio glaciale. Mi viene in mente un emistichio di Ovidio: Quaerebam fratres, «Cercavo fratelli». Ecco, è così che mi sento quando scrivo. Perché faccia poesia e non altro… non lo so. Forse perché la poesia è lontana, sola, cerebrale e insieme disperatamente passionale, come mi sento io.

 

Un’ultima domanda a bruciapelo: una poesia che vorresti aver scritto tu, o che potresti aver scritto tu.

 

Risposta altrettanto a bruciapelo: «Diamante» di Bacchini, ma è molto diversa dal mio stile.

 

Ho imparato a parlare

nelle pietraie del fiume.

Nell'acqua verde. Muffa di stagni d'estate.

Anche smeraldo.

Scegliendo i ciottoli sgretolati sulle montagne

e ricomponendoli in domande.

Il mondo

è pieno di crepature.

Quando negli emisferi azzurri della trottola

fra trasparenze atlantiche

 

insorgono isole

nelle loro durezze di anelli

 

subito fioriscono; frullano ucceli sopra.

Risplendenti anche le pietre

nella terra mineraria

con prodigi di rifrazione -

filiazioni del tempo,

tagliate a rosetta a baguette

a marquise,

e ora in mostra nelle gioiellerie, tra gli argenti,

con rapine nel sangue sul marciapiede,

o tesaurizzate con cupidigia.

 

- E uguali madrepore invece

rimangono sommerse

come navi defunte;

ricoperte senza indugio da spugne

e da granchi rossi e pomodori di mare. Fin troppa vita.

Fastosa, in gottte, in nicchie,

polipai

con minimi pesci di vetro

saettanti a frotte simultanee.

Le parole del mondo:

una conflagrazione pittorica. Ma, dopo, ecco,

le parole astratte, i numeri

e grattacieli in erezione.

 

Se dovessi invece scegliere una sola poesia per rappresentare la tua poetica, quale sarebbe?

 

«Sepulchrum lunare», un testo latino sulla fine della vita biologica pubblicato l’anno scorso su Medium Poesia. Ci ho messo un’intera età della mia vita. Ci ho messo tutto me stesso, forse troppo. Eccone due strofette.

 

«Quis his serendis verbulis
postremus admovit manus?
Ningebat: haud terrestribus
axis flagrabat ignibus,

 

ter annus ut millesimus
secundus et vicesimus
raptim, silenter desuper
te sustulit, bellissima.»

 

(«E queste parolette chi si mosse
per ultimo a comporle?
C’era la neve: il cielo conflagrava
di fuochi extraterrestri,

 

quando l’anno tremila
e ventidue, improvviso
e silenzioso, giù dal cielo
ti uccise, meraviglia.»)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Foto di Riccardo Frolloni