
Elena Lacentra raccoglie queste poesie sotto il titolo Glanage, che in italiano si tradurrebbe “spigolatura”, cioè la raccolta dopo il raccolto degli altri, il recupero di quello che chi è passato per primo si è lasciato dietro in quanto scarto, e che nelle mani dello spigolatore (o spigolatrice) ritorna invece necessario per sfamarsi. Nella tradizione poetica italiana abbiamo una celebre spigolatrice, di Sapri: è il titolo della poesia più nota del poeta risorgimentale Luigi Mercantini, la storia di una spigolatrice che dopo essersi innamorata del comadnate di una spedizione di rivoluzionari socialisti approdati a Sapri decide di seguirli (“Quel giorno mi scordai di spigolare, / e dietro a loro mi misi ad andare”), ignara del loro destino tragico: tra tutti loro sopravviverà soltanto lei, che alzerà quindi il suo lamento: “Eran trecento, eran giovani e forti, / e sono morti!”. Ma in letteratura, oltre a questo testo preciso, la spigolatura può indicare anche solo una selezione di fatti curiosi e interessanti, spesso divertenti: aneddoti, freddure, casi insoliti. La poesia di Lacentra sta a metà fra questi due poli della spigolatura, quello elegiaco (di lamentazione) e quello dallo sguardo più attento a cogliere l’incongruenza, il dettaglio fuori luogo, a volte bizzarro, che fa da punto di equilibrio dell’episodio che condensa. Un ombelico come un occhio di pavone; i tre colpi di saluto sulla schiena “come se fossi un portone”; un bicchiere rovesciato. La spigolatura procede sì attraverso la raccolta di questi momenti, che provengono dal rapporto con un personaggio maschile, ma anche attraverso le citazioni letterarie prelevate dai discorsi fatti insieme, con citazioni da Luzi (“Leggevamo immersi nel magma / dela piazzetta di Via Vinazzetti / "è l'amore, l'amore che manca"), Eliot (“mi parlavi di una terra desolata / popolata da uomini vuoti”; "i pavoni si muovono lenti / e ci scrutano col loro sguardo di piuma”) e molti altri. Allora con queste poesie che hanno sullo sfondo l’Università, gli studi letterari, Lacentra racconta l’esperienza entusiasmante di scoperta della poesia e dei poeti (in un modo che mi ha fatto pensare al poemetto verso la fine di Coppie minime di Giulia Martini, con Patrizia Cavalli letta a tavola insieme), ma al tempo stesso riesce a capovolgere la dinamica classica del ragazzo che cerca di mettersi in mostra ostentando le sue conoscenze su un tema mentre la ragazza sta in ascolto, preferibilmente in silenzio, e partendo proprio dalle citazioni dei loro discorsi riesce a smontare la sua facciata e le sue posture, ma senza violenza, facendolo invece passare con disinvoltura attraverso l’immagine di se stesso costruita apposta per lei per apparire inavvicinabile e coltissimo, per restituircene una versione più profonda, a volte impacciata, a volte anche un po’ spaventata, ma che si scopre più appassionata che pretenziosa, più tenera e simpatica che supponente.
Tu, con il tuo passo di lama
recidi, mozzi e dividi
sparpagliando sul terreno frasi
e citazioni di libri usurati.
Io, cammino scalza
per il campo devastato
alla ricerca di versi da riciclare:
tra l’alluce e il pondulo
mi restano incastrati
«petali zannuti e rossi»
«ossi di uomini e bestie»
«un gambo di grano con le sue foglie».
Sono una glaneuse
raccolgo frammenti dopo la mietitura
per spargerli lungo le mie poesie
come tanti semi da far germogliare.
«IL TUO CORPO SI COSTELLA DI GERMOGLI VERDI»
Mi hai detto che ti vuoi far crescere i baffi
per leggere quel poeta messicano
di cui non ricordo il nome.
Seduta sulla panchina ti guardavo
le guance diffuse di fili d’erba
e immaginavo di cogliere pelo per pelo:
un bouquet da adagiare sulle tue labbra,
ma poi tu ti sei alzato
e nel punto in cui mi parlavi
è rimasto un buco
come di pianta sradicata o di poro sul viso.
MEA CULPA
Mi hai abbracciato
battendomi tre colpi sulla schiena
come se fossi un portone
o un tuo amico in lutto.
Io ho pensato che forse credessi
mi fosse andato qualcosa di traverso:
effettivamente i nostri dialoghi
sono sempre tanto strani
e spesso qualche parola
mi resta conficcata tra l’ugola e il diaframma.
Vorrei «urlare come un animale
o strillare come un asino» ogni tanto
e poi sgridarti perché non leggi mai
le poesie che ti dedico.
«MAY-AWE, MAY-AWE »
Se ti sono accanto
ogni parte della mia pelle respira
come coperta da un tessuto di bocche.
Quel giorno la mia cute soffocava
nella blusa con la stoffa di occhi
mi spiegavi che «i pavoni si muovono lenti
e che ci scrutano col loro sguardo di piuma»
e io pensavo al tuo ombelico
che quella notte era adornato
da una lanuggine setosa come a peacock eye.
*
Quella notte «per non dormire»
abbiamo letto verso la foce del Sile.
Tra le tue braccia mi raccoglievo
come una briciola sotto il tavolo.
Sentivo il tuo corpo sopra il mio: ricordo
di quella tua stupida abitudine
di pucciare nel tè i biscotti soltanto a due a due.
Ti ho chiesto se volessi restare da me
mi hai detto “non posso, mi devo lavare i capelli”.
*
Leggevamo immersi nel magma
della piazzetta di Via Vinazzetti
«è l’amore, l’amore che manca»
ma tu mi citavi Dante e altri
mentre io ti parlavo con il cuore sul tavolo
e maldestra rovesciavo un bicchiere.
Discutevamo di «peperoni impiccati»
e autrici morte con la testa nel forno
ma se tentavo un invito a cena
tu scappavi con la sigaretta dicendo:
“vado di là, a cercare un accendino”
e io restavo qua, sola e affamata.
*
Ti seguivo per le strade deserte
mentre mi parlavi di una terra desolata
popolata da uomini vuoti:
non è Bologna, ma potrebbe esserlo.
Allungavi il passo e quasi ti perdevo
ti dicevo “aspettami, ho le gambe corte”
mi rispondevi “sono autistico”
allora non sapevo cosa ribattere e ammutolendo
battevo i tacchi sulle pietre del pavimento:
sono bloccata nel cretto del tuo tu
tra le piastrelle di Piazza Scaravilli
e i ciottoli di Via Antonio Bertoloni.
DEVO FAR RISUOLARE LE SCARPE
Ti vorrei stare accanto con l’aderenza
di un piede che schiaccia il pavimento,
di un passo che avanza pian piano
tallone-punta-tallone.
Mi hai detto che se cammino sotto i portici
alla mattina presto presto
disturbo i senzatetto appisolati
con i miei taccacci rumorosi
tic-tac-tuc
io allora spingevo il peso sulle punte
per avanzare silenziosa
come un animale digitigrado.
Tu non ci hai nemmeno fatto caso
(quante cose non noti)
offesa voltavo lo sguardo
verso quegli uomini ancora sdraiati
che nel sonno mi ringraziavano
con un sorriso appena accennato.
QUANT'È FORTE IL SUONO DELL’ACQUA ALL’ALBA
Camminavamo per Via IV Novembre
mentre in lontananza il Nettuno rimetteva
come qualcuno quella stessa notte.
Tu calpestavi la pozza e mi guardavi
io allora estraevo la bottiglia
per lavarti il vomito dalle suole
«dovete sciacquarvi i piedi gli uni agli altri»
di religione con te è meglio non parlare
per questo continuavo silenziosa il rito
spalmandoti un po’ di profumo a olio
tra l’incavo del collo e i polsi.
Poi mi introducevo svelta nella tasca
cercando le tue dita, per stringerle:
due mani giunte in preghiera
procedevano piano per Via Indipendenza.
Elena Lacentra è nata nel 2001 a Bellinzona, in Svizzera. Sta terminando il suo percorso di studi magistrali in letteratura e filologia italiane e storia dell'arte presso l'Université de Fribourg. A settembre 2024 si trasferisce a Bologna come studentessa Erasmus, dove inizia a frequentare il centro di Poesia contemporanea.