[...] dicevano: come ti giustifichi?
dicevano: ma ti giustifichi, tu?
Lo scriveva Sanguineti. Che sia corretto o meno, spesso si è chiamati a giustificare la propria poetica. Accade di sicuro alla nostra generazione e a quella immediatamente precedente: sui social siamo continuamente messi nella condizione di doverci giustificare davanti a un pubblico, per quanto ristretto, e non solo quando si tratta di poesia. Abbiamo deciso quindi di creare uno spazio che dia a poet* nati dalla fine degli anni '80 agli anni 2000 la possibilità di legittimarsi. Benché le domande di partenza siano le stesse per tutt*, abbiamo scelto di tenere aperta la possibilità di un dialogo con chi prenderà parte a quest'iniziativa, ricollegandoci alle risposte date, per portare avanti un’operazione volta al dispiegamento della poetica individuale e collettiva in una chiave di autocritica. In questo episodio, abbiamo scelto di intervistare Roberta Durante (Treviso, 1989), che nel 2023 ha pubblicato sulla collana Bianca di Einaudi I bimbi sperduti, che segue alle raccolte Nella notte cosmica (Sossella 2016) e Le istruzioni del gioco (Le Lettere 2020, con uno scritto di Tiziano Scarpa) e all'epistolario con Silvia Salvagnini Possiamo ancora dirci poesie (Ronzani 2021).
Partiamo con un pezzo facile, più o meno: definisci la tua poetica. In altre parole, quando scrivi poesia, perché scrivi in questo modo di queste cose e non di altre in un altro? Cosa pensi che renda la tua poesia tua?
RD: Un linguaggio mescolato, pieno di opposti, dove non risparmio niente e nessuno, dove la prima cosa che si percepisce è il caos di tutti, generato dai sentimenti. Una continua lotta tra guerra e pace, amore e morte, detta, per non smentirmi, con rivoltella e tenerezza.
La stessa mescolanza si avverte quindi anche nel contenuto perché le mie rappresentazioni mentali e a volte oniriche si intrecciano alle esperienze più concrete e realistiche. Anche qui credo che il risultato sia tutt’altro che mite, a tratti forse folle, ma di una follia comprensibile, quella di chi cerca di stare sempre in piedi in mezzo a una tormenta. Scrivo in questo modo perché per me è quello più realistico, aderente al mondo e alla mia percezione della vita. Nonostante in teoria nutra un certo timore nella libertà d’espressione, quando scrivo qualsiasi paura scompare.
Poesia lirica e poesia di ricerca sembrano essere argomenti ancora caldi, come se un poeta “lirico” o presunto tale non potesse portare avanti un lavoro di ricerca letteraria. Crediamo infatti che il termine ricerca possa essere utilizzato in modo più ampio rispetto a quello a cui siamo abituati, e che ogni poeta porti avanti una sua personale ricerca. Che cos’è per te la ricerca? Senti di star intraprendendo un percorso di ricerca letteraria con la tua poesia?
RD: Io non sono sicura che la poesia sia qualcosa di letterario, penso sia qualcosa di vitale. Inoltre faccio sempre abbastanza fatica a definire me stessa e gli altri, credo quindi che la cosiddetta ricerca sia un’attività che non voglio proprio praticare, oppure non volontariamente. Comunque immagino che possa essere semplicemente qualcosa che non trova un porto sicuro, una conclusione, in questo caso relativamente allo scrivere. In questo senso chiunque scriva mi sembra che possa fare ricerca. Io cerco continuamente di non essere me stessa, di scrivere in tanti modi diversi, ma poi puntualmente tutto si riconduce per qualche particolare alla mia scrittura, a me. Ed è tutto preciso e corretto perché sono io stessa ad essere una moltitudine. Forse l’opera più sperimentale e di ricerca che potrei scrivere sarebbe un romanzo breve, con una trama chiara e definita, magari trattante un tema abusato, un libro da terzo posto nella classifica dei lettori. In ogni caso mi sembra pura astrazione parlare per me di ricerca, io non so cosa sto facendo e non voglio saperlo. Nella vita ho una coscienza abbastanza prorompente e qui non voglio averla.
Si parla altrettanto spesso di padri, di maestri, e per fortuna adesso anche di madri, che si tratti di ucciderli o di inserirsi nel solco che hanno lasciato. Senza essere pedanti, senti presente nella tua poetica l’influsso di specifici autori e autrici di passate generazioni? Che cosa bisogna farne di loro?
RD: Io li ringrazio, sempre, li amo di vero struggente amore impossibile. Devo moltissimo agli altri scrittori, forse tutto, se scrivo è perché ho letto. Non esiste una mia vita scrivente senza imitazione. Madri e padri hanno resuscitato la me-scrittrice. È pur vero che ogni maestro ha un suo tempo, un suo momento nella vita di chi lo segue. Io ho iniziato a scrivere grazie alle poesie di Sanguineti, ma ora non riesco più a leggerlo come l’ho letto quindici anni fa, non perché non mi piaccia più, ma perché cerco altro, altri simboli. Quando un autore alberga in me per tanto tempo, a un certo punto se ne deve andare e quando ritorna, ogni volta che ritorna, fa più fatica a frequentarmi. È lui, non sono io, a trovare in me qualche nuovo ostacolo, come se non riconoscesse più l’arredamento a cui era abituato. Amo Cristina Campo, Giovanni Pascoli, i crepuscolari, Leopardi da matti. Ora per me è un momento di lingue straniere, flirto con Pasternak, Dickinson, Nooteboom, Cassian, Szymborska. Cerco di coltivare queste relazioni come fossero matrimoni o come se avessi una band musicale da tenere in vita. Mi sono ritrovata ad amare gli autori defunti, quelli dei libri, di un amore reale. Cosa farne? Io sogno continuamente di parlarci, di diventarci amica, di abbracciarli e baciarli, a volte li sento più vivi dei vivi e non so, onestamente, come ci si disillude coi morti.
Maestri a parte, in questa sede vorremmo approfondire questioni legate all’intermedialità, particolarmente rilevante quando si prende in esame la poetica di autori delle ultime generazioni. Ti chiederemmo quindi di raccontarci cosa ha dato forma al tuo immaginario poetico, al di là della poesia (parliamo quindi di opere di narrativa, saggistica, ma anche di film, serie tv, anime, fumetti, videogiochi etc.), e quale rapporto intrattiene la tua poesia con altri media narrativi.
RD: L’immaginario è complesso, c’è di tutto ed è tutto reale, perché nel mondo c’è tutto, purtroppo. Mi piacciono molto, e spesso li recupero e li posiziono nei miei testi, certi personaggi del mondo dell’infanzia, dalle fiabe a Sabbiolino della DDR o topo Gigio o qualsiasi altro protagonista che mi venga voglia di rianimare attraverso storie. Nel mio ultimo libro, I bimbi sperduti, dedico il titolo e un’intera sezione ai Lost boys di Peter Pan. In generale, amo personaggi fantastici, dei fumetti, dei cartoni, dei film. Penso a Gizmo dei Gremlins per esempio, oppure a ET, Snoopy, coniglietti di velluto. Amo anche molto i giocattoli, fin da piccola mi prodigavo nella costruzione di marionette, di bambole, pupazzi. Mi piace dare vita dal nulla e mi piacciono certi personaggi fittizi più dei personaggi umani perché sono più visibili le debolezze che noi invece cerchiamo disperatamente di nascondere. Ho un Olimpo personale fatto di teneri Sandman o asinelli depressi che hanno la coda attaccata per un chiodo.
L’accusa di fare una poesia disonesta viene spesso mossa ancora oggi, benché la distinzione tra poesia onesta e poesia disonesta possa correre il rischio di suonare po’ antiquata (ne parlava già Umberto Saba nel 1911, più di un secolo fa). Ci sarebbe da capire che cos’è oggi questa onestà. Ti ritieni un poeta onesto? Pensi sia importante essere tale?
RD: Poeticamente credo di essere onesta. Forse è l’unico posto dove riesco pienamente ad esserlo, con il rischio di sembrare anche vagamente scriteriata e imprudente. Ma nella parola ripongo totale fiducia e dunque riesco in questo gioco dello svelamento, cosa che nella vita non credo di riuscire a fare, o almeno non come sarebbe giusto. Ad ogni modo non penso che ci sia nulla di giusto né nell’essere onesti né nel non esserlo. Io non so praticamente nulla né in campo morale né in campo letterario.
Tornando alle domande brevi, ma forse più difficili: perché scrivi poesia? Difficilmente lo si fa per ottenere un guadagno economico. La narrativa poi sembra avere un pubblico più vasto, per non parlare della scrittura cinematografica. Quindi: perché hai scelto proprio di servirti del medium poetico?
RD: È quanto di più inutile e vicino alla vita io conosca e io sono una feticista di entrambe le cose: affondare nella vita, riconoscendone la sua mortificante inutilità et voilà la perfezione e la dannazione dello scrivere: una tenera droghina.
Un’ultima domanda a bruciapelo: una poesia che vorresti aver scritto tu, o che potresti aver scritto tu.
RD: Di Salvo Basso:
io mi chiedo
se
parlarti all'orecchio
significa
(in particolare)
parlarti in
o per tutto il corpo
oppure
oppure
parlarti
solo e solo là
(cioè all'orecchio
ti parlo e
nell'orecchio ti resta).
Se dovessi invece scegliere una sola poesia per rappresentare la tua poetica, quale sarebbe?
RD: La tessitrice di Giovanni Pascoli.