Come ti giustifichi? – Stefano Bottero

11 Aprile 2025

[...] dicevano: come ti giustifichi? 

dicevano: ma ti giustifichi, tu?

 

Lo scriveva Sanguineti. Che sia corretto o meno, spesso si è chiamati a giustificare la propria poetica. Accade di sicuro alla nostra generazione e a quella immediatamente precedente: sui social siamo continuamente messi nella condizione di doverci giustificare davanti a un pubblico, per quanto ristretto, e non solo quando si tratta di poesia. Abbiamo deciso quindi di creare uno spazio che dia a poet* nati dalla fine degli anni '80 agli anni 2000 la possibilità di legittimarsi. Benché le domande di partenza siano le stesse per tutt*, abbiamo scelto di tenere aperta la possibilità di un dialogo con chi prenderà parte a quest'iniziativa, ricollegandoci alle risposte date, per portare avanti un’operazione volta al dispiegamento della poetica individuale e collettiva in una chiave di autocritica. In questo episodio, abbiamo scelto di intervistare Stefano Bottero, nato a Roma, nel 1994. 

 

Stefano Bottero ha pubblicato Poesie di ieri (Oèdipus, 2019, con prefazione di Biancamaria Frabotta, Premio Città di Como - opera prima) e Notturno formale(Industria & Letteratura, 2023, in dialogo con le opere dell'artista Nerina Toci). Una sua silloge è pubblicata nella rubrica di Milo De Angelis su «Poesia» (n. 14, 2022). Collabora come traduttore e critico con periodici tra cui «Nuovi Argomenti» (Officina poesia) e «Lingua italiana» di Treccani. È redattore di «Polisemie». Ha svolto un dottorato di ricerca presso L'Università Ca' Foscari di Venezia.

 

 

Partiamo con un pezzo facile, più o meno: definisci la tua poetica. In altre parole, quando scrivi poesia, perché scrivi in questo modo di queste cose e non in un altro? Cosa pensi che renda la tua poesia tua?

 

SB: Il verso è un movimento seriale – si ripete nel corpo e nel testo agglutina. Posto questo, la sola cosa che individua una poesia è l’aspetto: il modo particolare in cui la forma traduce la ferita. Il mio caso non è diverso. 

 

 

Poesia lirica e poesia di ricerca sembrano essere argomenti ancora caldi, come se un poeta “lirico” o presunto tale non potesse portare avanti un lavoro di ricerca letteraria. Crediamo infatti che il termine ricerca possa essere utilizzato in modo più ampio rispetto a quello a cui siamo abituati, e che ogni poeta porti avanti una sua personale ricerca. Che cos’è per te la ricerca? Senti di star intraprendendo un percorso di ricerca letteraria con la tua poesia?

 

SB: Penso al cane ricercatore di Kafka: era un «cane fra i cani». Basa l’atto formale sulla spaccatura che sente. Questo per dire che lapresa di parola è ricerca in sé, quando è sgrossata dagli automatismi linguistici. Altrimenti è trascrizione, copia di una copia, priva di impossibile.    

 

 

Si parla altrettanto spesso di padri, di maestri, e per fortuna adesso anche di madri, che si tratti di ucciderli o di inserirsi nel solco che hanno lasciato. Senza essere pedanti, senti presente nella tua poetica l’influsso di specifici autori e autrici di passate generazioni? Che cosa bisogna farne di loro?

 

SB: Un detto indiano recita che la mucca è come la madre: da lei puoi bere, non puoi mangiarla. I poeti che tentano di fare il contrario spesso si strozzano. Fatico, comunque, a ragionare in termini di generazione.

 

 

Maestri a parte, in questa sede vorremmo approfondire questioni legate all’intermedialità, particolarmente rilevante quando si prende in esame la poetica di autori delle ultime generazioni. Ti chiederemmo quindi di raccontarci cosa ha dato forma al tuo immaginario poetico, al di là della poesia (parliamo quindi di opere di narrativa, saggistica, ma anche di film, serie tv, anime, fumetti, videogiochi etc.), e quale rapporto intrattiene la tua poesia con altri media narrativi.

 

SB: Nell’opera (nel testo) a cui sto lavorando rimbalza molto forteEnter the void di Gaspard Noé: lo spazio in cui il senso fisico e liquido del corpo si perde. Le voci che mi interessano sono quellein cui mi incastro – Hellen Arkbro, Stefano Pilia, il nero di Jessica Beshir in Faya Dayi. Nicola Samorì.

 

 

L’accusa di fare una poesia disonesta viene spesso mossa ancora oggi, benché la distinzione tra poesia onesta e poesia disonesta possa correre il rischio di suonare po’ antiquata (ne parlava già Umberto Saba nel 1911, più di un secolo fa). Ci sarebbe da capire che cos’è oggi questa onestà. Ti ritieni un poeta onesto? Pensi sia importante essere tale?

 

SB: L’oggetto d’arte ha senso perché noi ne siamo privi. La persistenza, nel testo, del corpo che produce il testo, è inevitabile in un certo qual modo. Ma cercare di far assomigliare l’uno all’altro (come se fosse un valore aggiunto) mi sembra unasciocchezza.

 

 

Tornando alle domande brevi, ma forse più difficili: perché scrivi poesia? Difficilmente lo si fa per ottenere un guadagno economico. La narrativa poi sembra avere un pubblico più vasto, per non parlare della scrittura cinematografica. Quindi: perché hai scelto proprio di servirti del medium poetico?

 

SB: Dove altro andare? La scrittura è un atto di sottomissione. Qualcosa preme da dentro: per i greci era la voce divina, per Melville il nome, per Artaud l’altro, eccetera. Per me è una crepa– la parola cola dal corpo. 

 

 Un’ultima domanda a bruciapelo: una poesia che vorresti aver scritto tu, o che potresti aver scritto tu.

 

SB: «gli oggetti continuano ad esistere. / il pittore tende a non avere nessuna possibilità / di esistenza.» Corrado Costa, 1973. Penso a questa. 

 

 

Se dovessi invece scegliere una sola poesia per rappresentare la tua poetica, quale sarebbe?

 

prima di fasciarlo. le ripetizioni svuotano il corpo bianco sporco il reflusso pensano alla carne dei supermercati. oltre la plastica 

 

nei quadri di plastica ti portano a dormire dopo averla stesa.

 

sciolta - usano la ferita come una cuccia e bevono. bevono. sulle pareti i cerchi diventano sterili, preme negli allevamenti e ancora

 

nel nero Tahlequah - senza sguardo la carne dei supermercati. le coperte 
sono un liquido che si avvita e nega.

 

nega.