Ali Abbadi Fatmi

Poesie inedite
12 Settembre 2024

 

Ali Abbadi Fatmi apre la sua silloge con un nome: Khadija, un nome arabo femminile che significa "figlia nata prematura” e nome della prima moglie del profeta Maometto, prima persona a convertirsi all'Islam. Khadija ci suggerisce anche altro: in un contesto linguistico principalmente italiano dove lampeggia il francese di un soggetto femminile (Je suis fatigué, Ali / mon chéri nel testo La fatigue) è un nome che si identifica con la perdita, con una ferita insanabile. Di fronte a questa condizione, l’Io che era padre e figlio/ e tuttora io lo sono se mi chiama assume un ruolo drammatico di custode inerte, spinto ai margini, per terra, dal lato del suo letto, dove il viso della madre è negato nel presente e nel ricordo è solo braccia e corpo che mi bagna/di lacrime i vestiti. Il soggetto è costretto a un gioco sadico in cui è esposto a un processo di decadimento, percepito nell’odore del male e, più casalingo ma non meno loquace, di limone/ammuffito senza poterne cambiare le sorti, rinchiuso nella gravosa illusione di poterlo alleviare. Poi c’è la casa, la sensazione lugubre del freddo nei letti, i cuscini, i lenzuoli e i vetri dell’armadio attraversati dal profumo di uomo. Si delinea chiaramente una dicotomia uomo/donna, il primo è assente, persistente profumo di uomo, un nonno che esiste in un gesto solo, per poi svanire come un’ombra Mi dava dei soldi: vammi a comprare/un caffè. Tornavo. Non c’era più, presagio di una più lampante e biasimata assenza “Mio padre è stato mio nonno”, figura che potrebbe essere controparte negativa, da cui fuggire, del sostantivo padre dell’esergo iniziale, ma questa volta reale come un’assenza che ferisce senza / un abbraccio, una carezza, di cui l’autore afferma mi amava a tal punto che non mi serviva. Il dialogo La fatigue nasce da un montaggio intelligente di lingue, il francese che si impara come lascito dei colonizzatori, l’italiano freddo e amministrativo dell’anamnesi La paziente ha problemi nel sonno e di ansia, / oltre al quadro muscolare già noto, l’antitesi tra le frasi apprensive e dilluse del soggetto “Hai caldo? Va bene ti porto dell’aria da fuori.”, “Hai sete? Ti porto dell’acqua”, e il tentativo dell’interlocutrice di nascondere un dolore troppo grande per non essere evidente "Mon chéri, je te le jure/ je suis seulment fatigué". Per concludere, resta l’imperativo di uno scrittore che tenta l’unica e amara sorte del raccogliere i nomi di ognuno sto scavando / per sempre il tuo nome / dalla carta: / ora un buco sformato / verde, uno scavo che ricorda l’inesorabilità di Digging (Death of a Naturalist - 1966) in cui Seamus Heaney afferma di non avere una vanga per seguire uomini come suo padre o suo nonno (But I’ve no spade to follow men like them), ma una grossa penna con cui scavare, sinonimo del compito marginale ma necessario di un autore a cui non resta che raccogliere i resti della fatica e del lavoro degli altri. (Davide Gallo)

 

 

 

KHADIJA

 

                                                                    Ero padre e figlio di mia madre

                                                                e tuttora io lo sono se mi chiama

 

Le ho insegnato a leggere le scritte

piccolissime dei fogli che firmava

troppo in fretta,

a usare il verbo sono.

Una notte mi ricordo aver dormito

per terra, dal lato del suo letto

non la vedo mai nel viso, nei ricordi

è solo braccia e corpo che mi bagna

di lacrime i vestiti.

E a poco a poco ho imparato a riconoscere

l’odore del suo male, di limone

ammuffito, di profumo di uomo:

sentivo dappertutto nella stanza 

spargersi il suo umore, nei lenzuoli

sui vetri dell’armadio.

Allora mi poneva le domande più importanti:

Mi licenzio? Vado via?

io dicevo: no, stai con me.

 

*

 

Davanti a una finestra: la strada.

Vivo una casa di dieci anni fa,

il freddo nei letti, i cuscini.

io nell’auto dietro mio padre, aspettavo

qualcuno. 

 

                    Mio nonno 

veniva spesso a trovarmi,

gli aprivo la porta.

Mi dava dei soldi: vammi a comprare

un caffè. Tornavo. Non c’era più.

Mio padre è stato mio nonno senza 

un abbraccio, una carezza

mi amava a tal punto che non mi serviva.

*

 

LA FATIGUE

 

                                                        Je suis fatigué, Ali

.                                                                     mon chéri

lo sento nelle tue ossa

non preoccuparti.

Hai caldo? Va bene ti porto dell’aria da fuori.

Togliti la maglia - sudi - da quanto sudi

ti gira la testa, no! nessuno ti vuole sopprimere.

Hai sete? Ti porto dell’acqua… Ma

già dormi, col corpo intento a svestirsi a metà

 

Hai

       dormito

                  per cinque

               ore.

    Sveglia

 

Bahia, ça va?

                                                         Oui oui mon chéri

ma trema la mano quando lo dici

e scoppi in lacrime quando mi vedi

ti sei sentita abbandonata?

Non siamo più andati al parco a giocare

ma tu sei ancora lì e mi aspetti.

 

    La paziente ha problemi nel sonno e di ansia,

    oltre al quadro muscolare già noto

 

Bahia perché non capiscono quello che hai?

 

                                                           Mon chéri, je te le jure

                                                           je suis seulment fatigué

 

Bahia, tu es déprimée

 

 

*

 

È il rosso che si espande nei tessuti

bianchi dei cestini da lavare, lentamente

ci raggiunge e prende spazio, nuovo pozzo 

dei mali da curare.

Ma prima c’è stato un momento, un lasso

Interminabile nel mondo, in cui

mia madre non sapeva ancora nulla 

e i muri ancora secchi e capaci di ascoltare 

si toccavano e chiudevano in un cerchio.

Allora stretti tutti insieme sentivamo 

i nostri sogni e desideri, li scambiavamo 

giacché il respiro era un tutt’uno.

Poi dissi, tutto d’un fiato, non vi capisco

 

*

 

Su un tavolo, sto scavando 

per sempre il tuo nome 

dalla carta: ora un buco sformato 

verde.

Sei diventato trucioli di gomma e 

di carta: esisti anche se non ti trovo.

 

Davanti c’è un uomo che brucia

Non so da quale ricordo provenga 

sa ciò che penso, che è osceno

che non vorrei vederlo, averlo visto

in tv forse una volta da mio padre, 

o sognato solo,

ma sento il calore della sua pelle e 

la paura di non poter scappare 

dalla paura di averlo visto, vorrei 

dargli i miei occhi

 

*

 

 

Ricordami se l'acqua spacca i vetri 
di questa stanza chiusa, senza vita, mentre 
sprofondano le case nel blu scuro.
Qui, dove le pareti sono gli unici 
confini tra famiglie, mi sono perso, qui 
si è capovolta un'esistenza tutta insieme.
E soffrire mi dici. Se si può

soffrire si disintegra ogni vertice, 
anche tra le dita, in quel punto 
dove uniscono e dividono il mio corpo.
Ma l'acqua non scompare e le finestre 
lentamente non aprono più il mondo, tutto questo 
è solo un invenzione e tu

non ci sei più.

 

 

 

Fatmi Abbadi Ali è nato a Modena il 12 maggio del 2003 da una famiglia con origini marocchine. Ha vissuto fin da piccolo a Ostiglia, in provincia di Mantova, dove ha frequentato un istituto professionale per i servizi commerciali. Dal 2022 vive a Bologna, dove frequenta la facoltà di Lettere moderne e inizia a collaborare con il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna, di cui è socio.